‘Finis, Deo gratias’.
Queste sono le parole che Pergolesi lasciò scritte
nell’ultima pagina della partitura dello Stabat Mater. Una cronaca dell’epoca riferisce
i suoi ultimi giorni di vita: «Essendosi
portato a visitarlo Francesco di Feo, rinomato maestro di musica che lo amava
teneramente, e veduto che egli giacendo a letto si occupava a terminare la
composizione dello Stabat Mater, fortemente lo rimproverò, dicendogli che le
sue condizioni di salute meritavano ben altri riguardi. Ma il povero giovane
rispose che non voleva morire prima di finir I’opera che gli era già stata
pagata ducati dieci: – E forse, aggiunse, non varrà dieci baiocchi. Tornò dopo qualche
settimana il Feo e lo ritrovò peggiorato a segno che a stento dalle moribonde
labbra di lui potrà intendere che lo Stabat era stato terminato e inviato al
suo destino. Pochi giorni dopo, nel dì 16 marzo 1736, il Pergolesi rendeva
l’ultimo sospiro».
Non sappiamo se le cose andarono effettivamente in questo
modo, certamente le pagine finali del manoscritto rivelano una notazione più
sbrigativa, più imprecisa, come se l’autore avesse avuto l’intenzione di
ultimare quanto prima ciò che stava componendo.
L’Opera era stata commissionata al musicista
dall’Arciconfraternita Cavalieri della Vergine de’ dolori della Confraternita
di San Luigi al Palazzo, che intendeva in tal modo rinnovare le solennizzazioni
della Settimana Santa.
L’istituzione religiosa infatti aveva deciso di sostituire il
vecchio Stabat Mater di Alessandro Scarlatti, commissionatogli venti anni prima
ed eseguito ininterrottamente nelle precedenti celebrazioni. L’esigenza
dell’Arciconfraternita può essere meglio compresa se ricordiamo che la Napoli
dell’epoca poteva essere considerata a pieno titolo come la capitale europea
della musica sia per la qualità degli spettacoli - profani e sacri - sia per la
presenza degli artisti più importanti allora in circolazione.
Il modello dello Stabat di Scarlatti influì indubbiamente
nella scelta dell’organico del giovane artista jesino, organico che prevede le
sole voci di soprano e contralto e la presenza di archi e basso continuo.
La composizione di Pergolesi introduceva innovazioni
armoniche e melodiche significative, ma
ciò che ne determinò il grande successo fu l’applicazione della cosiddetta
“teoria degli affetti” secondo la quale il significato profondo del testo
poteva e doveva essere elevato dalla componente musicale. Secondo alcuni
critici però la composizione sarebbe stata “più vicina allo stile dell’opera
che a quello della musica chiesastica”.
Ciononostante lo
Stabat Mater, pubblicato a Londra nel 1749, divenne la composizione musicale
più stampata del XVIII secolo e fu
considerata a lungo un modello stilistico ineguagliabile nella musica sacra.
Dalla metà del secolo venne eseguito in
tutta Europa, nei paesi di lingua tedesca e più a nord fino in Scandinavia, sia
nella versione originale, che trascritto per altre formazioni strumentali.
Molti musicisti ammirarono lo Stabat pergolesiano e ne fecero trascrizioni ed
adattamenti. Tra essi troviamo J.S. Bach (Tilge, Höchster, meine Sünden, BWV
1083) ma anche Paisiello e Salieri, solo per citarne alcuni.
Non si ha la certezza che lo Stabat sia stato completato
effettivamente da Pergolesi in punto di morte, in ogni caso l’artista era
gravemente malato nel periodo della sua composizione. Probabilmente la malattia influì anche nel clima generale dell’opera,
calata in una dimensione di affettuosa e delicata malinconia. Dal punto di
vista musicale si tratta di una partitura tutt’altro che semplice dove ogni
linea melodica e contrappuntistica è estremamente trasparente e richiede la
massima precisione esecutiva.
In questa occasione l’Orchestra della Scuola Musicale
Pergolesi sotto la direzione del maestro Stefano Campolucci eseguirà per la
prima volta un’opera integrale del compositore jesino accompagnando il soprano
Giorgia Mancini e il mezzosoprano Olga Salati.
Il contesto della chiesa di San Marco sembra quanto mai
appropriato per valorizzare l’intimità della partitura che ben si sposa con la
stupenda chiesa gotico-romana del XIII secolo, uno scrigno d’arte che non tutti
conoscono. Ma l’elemento che più di ogni altro carica il concerto di una
particolare suggestione è certamente la presenza della Crocifissione di scuola
riminese raffigurata nell’abside. Il soggetto drammatico dell’affresco,
risalente al ‘300 ed il soggetto dell’opera del giovane compositore jesino,
completato in punto di morte, si saldano in una rappresentazione unitaria che
va ad incastonarsi nel periodo che precede la Pasqua.
fonte: Voce della Vallesina, 14 aprile 2019
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