lunedì 22 settembre 2025

Di uomini così, ne nasce uno ogni mille anni

Di uomini così, ne nasce uno ogni mille anni. Duemila anni fa abbiamo avuto Gesù. Nel millennio precedente avevamo avuto Buddha. Nel millennio successivo abbiamo avuto san Francesco. Vedremo cosa ci attende ora, in questo millennio appena cominciato. Che, se non daremo retta a san Francesco, se non seguiremo il suo amore per la natura e il suo rispetto per la dignità umana, potrebbe essere l’ultimo.

Francesco e Buddha

La storia di Gesù è nota. La raccontano i Vangeli, peraltro non così letti come crediamo che siano. La storia di Buddha è stata narrata in molti testi e scolpita nella pietra di Borobudur, sull’isola di Giava. Borobudur è un tempio alto come una montagna: forse il luogo che più mi ha colpito al mondo, insieme con gli splendidi affreschi di Cimabue e del suo allievo Giotto nella basilica di San Francesco ad Assisi. La grande differenza è che ad Assisi c’è il vero volto di Francesco, il ritratto che vedete sulla copertina di questo libro. E c’è il suo corpo: nascosto, ritrovato, venerato. A Borobudur non c’è il corpo di Buddha, che fu arso sulla pira funebre. E vengono raccontate non una, ma molte storie: perché Buddha non è uno solo, così come il nostro tempo, il nostro mondo non è l’unico. Secondo il buddhismo, molti mondi si sono succeduti e si succederanno; e ognuno ha avuto il proprio Buddha. Il Buddha «storico», quello del nostro tempo, era un principe. Si chiamava Siddharta Gautama, era figlio di un sovrano che regnava sull’attuale Nepal, alle pendici dell’Himalaya. E la sua storia ha sorprendenti punti di contatto — oltre a ovvie differenze — con quella di Francesco(…).

Siddharta è il Buddha «storico», il nostro Buddha; ma prima di lui ne sono vissuti molti altri, e anche le loro storie sono in parte raccontate a Borobudur. C’è un bassorilievo che mi ha colpito in modo particolare. Raffigura un re nel suo palazzo. Dalla finestra entra un passero, inseguito da un falco. Il passero si rifugia presso il re, che lo prende sotto la sua protezione. Ma il falco protesta: per salvare il passero, il re condannerà a morte lui, destinato a morire di fame. Colpito, il re offre al falco il proprio stesso corpo: si taglierà la quantità di carne pari al peso del passero, e la darà in cibo al falco. Ma prodigiosamente la carne del re, posta sulla bilancia, non eguaglia mai il peso dell’uccellino. Alla fine il sovrano, per salvare sia il passero sia il falco, dovrà sacrificare se stesso. Per evitare che altri muoiano, sarà lui a morire. Proprio quel supremo gesto di amore, di bontà, di carità farà di lui un Buddha: l’illuminato, il risvegliato, il salvato dal ciclo delle rinascite e quindi dalla schiavitù del dolore. A noi cristiani viene in mente il sacrificio di Gesù sulla croce, e anche la carne martoriata di san Francesco: l’amore che vince su ogni cosa, pure sul dolore e sulla morte (…).

Siddharta è il titolo di un libro di enorme successo di Hermann Hesse. Meno noto è che Hermann Hesse abbia dedicato un libro anche a san Francesco. È un libriccino breve, ma prezioso. Perché ci fa capire l’eccezionalità di Francesco. Proprio come quella di Buddha e di Gesù. Francesco, scrive Hesse, fa parte di quelle straordinarie creature che «hanno portato Dio vicino a tutti gli uomini e hanno restituito nuovamente valore al mistero della creazione». Creature che «si ponevano nude di fronte alla terra e al cielo, come se fossero stati i primi uomini, mentre noialtri riteniamo di poter vivere solo nell’involucro di sicure rappresentazioni e di abitudini acquisite». Non è meraviglioso? Francesco, come Gesù, come Buddha, si spoglia di se stesso, e si pone nudo davanti al mondo; come se fosse il primo uomo, il nuovo Adamo, un altro inizio per l’umanità. Nudo non in senso metaforico, ma letterale. Francesco si spoglia nella piazza del suo paese, tra lo scandalo e l’incredulità generale. Non soltanto restituisce i suoi vestiti al padre; rinuncia a essere suo figlio. Il suo vero padre è Dio; per questo lui è l’alter Christus , un altro Gesù. Per questo chiama fratelli e sorelle tutte le creature: il sole, le stelle, la luna, il vento, il cielo, le nuvole, i frutti, i fiori. Tutti gli elementi: l’aria, l’acqua, la terra, il fuoco. E tutte le avversità: la malattia, il dolore, financo la morte.

I crociati e gli eretici

San Francesco visse in un tempo grandioso e terribile. Il tempo dell’imperatore Barbarossa, che nel 1176 era stato sconfitto dai milanesi e dai loro alleati del Nord Italia, e di suo nipote Federico II, che si innamorò del Sud e fu chiamato Stupor Mundi, stupore del mondo. Il tempo di Saladino, che riconquistò Gerusalemme, e di Gengis Khan, che devastò l’intero Oriente e morì meno di un anno dopo Francesco. Il tempo in cui Fibonacci fa risorgere la matematica in Occidente, individuando una sequenza di numeri presente in molte forme naturali; mentre in Sicilia Cielo d’Alcamo getterà, pochi anni dopo Francesco, le fondamenta della nostra letteratura, scrivendo anche lui versi nella lingua del popolo. Il tempo di Papi potenti e spietati, che erano i veri sovrani d’Italia e tenevano testa all’imperatore. Il tempo in cui vengono gettate le fondamenta del mondo moderno. San Francesco visse nell’epoca delle città e delle università. L’epoca in cui comincia a circolare molto denaro, in cui vennero inventate le banche, la finanza, la borghesia; e Francesco, prima di scegliere la povertà, apparteneva a una famiglia ricca, alla nuova classe sociale che si era elevata dalla massa dei contadini senza disporre dei privilegi della nobiltà: appunto, la borghesia. Era l’epoca in cui si eressero cattedrali dalle guglie lanciate verso il cielo e dalle grandi vetrate inondate di luce. L’epoca delle crociate e degli eretici. San Francesco partecipò a una crociata, ma non per uccidere infedeli; per convertirli, o per cercare il martirio. E san Francesco rischiò di essere bruciato come eretico.

C’era nella sua santità una vena di follia. E non soltanto perché parlava con le piante e con gli animali (e aveva una particolare venerazione per gli uccelli e per gli agnellini). Ma perché rifiutava i vestiti, il cibo, una cavalcatura, un letto. Abbracciava i lebbrosi. Si lasciava picchiare, ferire, umiliare dai prepotenti. Non aveva alcuna ambizione se non quella di servire. E confondeva i ricchi mettendo loro in mano monete d’oro.

La nascita del capitalismo non poteva che creare una reazione. Finiva il tempo dell’economia di corte, chiusa, agricola, segnata dallo scambio e dal baratto, e iniziava un tempo nuovo in cui in poche mani si accumulavano enormi ricchezze, senza alcuna forma di redistribuzione che non fosse la carità. Tutto questo generò scontento e inquietudine, che presero a volte la direzione della rivolta, altre volte quella della rinascita spirituale. Proprio in quel tempo di Papi sempre più potenti e di mercanti sempre più ambiziosi, crescevano indomabili la volontà di giustizia, l’aspirazione alla povertà, l’ansia di riscoprire il Vangelo, il sogno di vivere come Gesù. Sorgevano profeti, veggenti, penitenti. Alcuni pagarono quel sogno con la vita. San Francesco seppe metterlo al servizio della Chiesa e della sua possibile rinascita. Era animato da un’energia indomabile, da una forza di ribellione, da una «violenta sete di infinito e di eterno».

San Francesco era determinato sin dalla giovinezza a fare qualcosa di eroico, di nobile, di grandioso, che fosse davvero all’altezza della sua epoca; finì per fare qualcosa di eterno, che l’avrebbe proiettato al di fuori del tempo, lontano dai limiti di tutto ciò che si disintegra, si corrompe, si consuma, sino ad arrivare, intatto e anzi più forte che mai, ai giorni nostri. Quando finalmente, dopo otto secoli, è sorto un Papa di nome Francesco. E dopo di lui è venuto un Papa che ha scelto il nome dell’amico del cuore di Francesco: Leone.

Perché è il primo italiano

La celebre definizione di san Francesco — «il più italiano dei santi» — viene attribuita di solito a Mussolini, oppure a Papa Pio XII. In realtà è di Vincenzo Gioberti, che scrisse Del primato morale e civile degli italiani , un’opera che all’inizio del Risorgimento restituì orgoglio ai nostri compatrioti, ai nostri antenati, negli anni in cui l’Italia unita non era che un sogno. E Gioberti definisce Francesco «il più amabile, il più poetico e il più italiano de’ nostri santi». In un primo tempo avevo pensato di usare questa espressione come sottotitolo del libro. Poi ho preferito quella che avete letto: il primo italiano. Non è una citazione. Non appartiene a nessuno. Me ne assumo la responsabilità. Consapevole che sarà molto criticata. San Francesco non si è mai definito italiano. Non ha mai parlato di Italia. Il suo scenario era Assisi, e il mondo. Ma, se è per questo, neppure Dante, che invece di Italia parla moltissimo, la pensava come uno Stato, o una nazione. Del resto, il concetto attuale di Stato, di nazione, di patria è un’invenzione dell’Ottocento. Quando Sancho Panza torna a casa con don Chisciotte dopo mille pagine di peripezie, si inginocchia a benedire la patria, il luogo dove ci sono i suoi morti e i suoi ricordi: che era appunto il paesello della Mancha, non la Spagna, al tempo un’espressione geografica (c’era l’impero, e c’era una monarchia assoluta), proprio come l’Italia.

Eppure credo che Francesco possa davvero essere considerato il primo italiano. Non è una tesi scientifica. È un’adesione spirituale. Un moto dell’anima. San Francesco è il primo italiano perché è una figura fondamentale, anzi fondativa, della nostra identità. E non perché oggi è il patrono d’Italia. Quella è solo una conseguenza. Francesco è il primo italiano perché è il primo a scrivere una poesia meravigliosa, il Cantico delle Creature, nella nostra lingua: il volgare, la lingua del popolo, l’antenato dell’italiano moderno. Francesco è il primo italiano perché nacque, morì e fu sepolto nel cuore della penisola, abitò i luoghi più segreti e ameni dell’Italia centrale, e per l’Italia viaggiò, nelle città e nei boschi, a Firenze e nei romitori, a Bologna e nei santuari di montagna. Perché ha inventato il presepe vivente, matrice dei grandi presepi custoditi nelle chiese e dei tanti piccoli presepi che sono in ogni casa, in ogni famiglia italiana. Perché, comunicando il Vangelo attraverso la parola, la musica, il mimo, il gesto, ha consentito lo sviluppo del teatro e delle rappresentazioni. Perché ha ispirato i più grandi italiani della storia: sono stati terziari francescani, quindi appartenenti al suo ordine sia pure da laici o da sacerdoti, Giotto, Dante, Petrarca, Boccaccio, Tasso, Cristoforo Colombo, Amerigo Vespucci, forse anche Galileo Galilei, di sicuro Alessandro Volta, Luigi Galvani, Guglielmo Marconi, Alessandro Manzoni, don Bosco, fino ad Alcide De Gasperi. Perché per primo, incarnando il Vangelo, ha sostenuto non solo a parole ma con l’esempio che tutti gli uomini nascono liberi e uguali, e che tutti siamo uguali davanti a Dio. Perché ha riconosciuto la dignità a ogni essere umano. Ha trattato le donne da pari a pari. Ha amato e difeso i bambini, in un tempo in cui erano considerati adulti più piccoli. Si è preso cura dei malati, dei deformi, dei lebbrosi, delle persone ai margini della società. E così ha posto le fondamenta della lettura italiana del cristianesimo: una fede non incompatibile con la ragione, incentrata non solo su Dio ma anche sull’uomo, capace di dialogo e di rispetto verso gli altri popoli e le altre religioni, che è poi l’essenza dello spirito di Assisi.

Francesco è il primo italiano perché è il precursore dell’umanesimo, che è il grande contributo dato dall’Italia alla civiltà universale.

Francesco è il primo italiano anche perché, riscoprendo il creato, lodando la natura, parlando agli animali, proclamando che ogni cosa è nostra sorella, ha cambiato la nostra visione del mondo. E ha ispirato generazioni di artisti. Ha restituito vita all’arte. Ha indotto i pittori a sostituire il fondo oro con il paesaggio. Prima i santi erano dipinti come se fossero già in Paradiso, circonfusi di luce, in una dimensione astratta, eterea, distanziante. San Francesco viene raffigurato in mezzo alla natura, sempre circondato da piante, animali, profili di montagne, cieli pieni di nuvole; così lo spettatore diventa parte dell’opera. Noi che guardiamo siamo lì, accanto a Francesco, con lui, e quasi lo ascoltiamo parlare. Per questo possiamo considerare eredi di Francesco anche i più grandi artisti del Trecento, Giotto nella pittura e Dante nella parola.

Giotto e Dante

Giotto ad Assisi ha costruito quello che per secoli sarebbe stato l’immaginario del santo. Dante lo adorava. Frequentava la chiesa dei francescani fiorentini, Santa Croce. E gli dedicò versi meravigliosi: «Del suo grembo l’anima preclara/ mover si volle, tornando al suo regno/ e al suo corpo non volle altra bara». San Francesco volle essere sepolto nella nuda terra. Come Papa Francesco. E il grembo da cui, secondo Dante, la sua anima luminosa si mosse per salire in cielo è quello della donna amata: la povertà.

La povertà non fu certo inventata da san Francesco. Al suo tempo la maggioranza degli esseri umani era povera; e nessuno può capirlo meglio di noi, nati al tempo del trionfo della borghesia e della classe media, e vissuti al tempo del suo impoverimento. Ma Francesco dimostrò che la povertà può essere non soltanto imposta e subìta, ma scelta, accettata. E se sarebbe disumano che tutti volessimo essere poveri, tutti possiamo capire che non siamo al mondo solo per guadagnare denaro, assegnare bonus milionari ai manager che licenziano, trafficare in bitcoin, fare soldi con altri soldi, e portarli nei paradisi fiscali.

Francesco il primo italiano: più ci penso, più mi piace, più mi emoziona. Libero il lettore di interpretare «il primo italiano» in senso cronologico, o in senso morale e spirituale. Perché Francesco è la nostra aspirazione al bene e al bello. Francesco è la parte migliore di noi.

tratto da «Francesco. Il primo italiano» di Aldo Cazzullo 



Torna la festa dedicata a San Francesco

Il 4 ottobre del 2026 tornerà a essere la festa nazionale di San Francesco. È un’ipotesi che si sta concretizzando, alla luce di una proposta avanzata lo scorso anno ad Assisi dal poeta Davide Rondoni che attualmente ricopre l’incarico di presidente del Comitato nazionale per le celebrazioni dell’ottavo centenario della morte del santo.

Il 2026 sarà costellato di eventi dedicati a questa ricorrenza che vede già fiorire numerose iniziative. Gli anni appena trascorsi sono stati contraddistinti dalla memoria di altre tappe essenziali nella vita del povero di Assisi: il primo Presepe a Greccio, le Stimmate, la composizione del Cantico delle Creature.

Ci è data l’opportunità di vivere la tempesta molto tragica del presente sentendoci affiancati dalla presenza di un uomo santo, e Patrono d’Italia, che visse fino in fondo la prostrazione, e ne fece germogliare una voce di letizia. Questo è lo sfondo sostanziale di queste ricorrenze e anche il motivo per celebrare nuovamente una festa nazionale che esisteva ed è stata ridotta a festa civile nel 1977.

Dalla proposta di Rondoni si è arrivati a un provvedimento che è attualmente al vaglio del Governo (il 17 settembre si è votato alla Camera, poi si passerà alla valutazione del Senato) ed è frutto di due testi presentati da Maurizio Lupi (Noi moderati) e Lorenzo Malagola (Fratelli d’Italia). La relatrice alla Camera è stata Elisabetta Gardini (Fratelli d’Italia) che ha spiegato: «Si tratta di riconoscere che i valori incarnati da San Francesco, la pace, la fraternità, la solidarietà, la cura degli ultimi, il rispetto per la natura sono oggi più che mai necessari e sono valori che parlano a tutti, credenti e non credenti».

Non sarà una festività obbligatoria, ed è una precisazione su cui la Commissione Bilancio ha insistito per non gravare ulteriormente sulle casse degli istituti scolastici e sulle amministrazioni locali. L’invito, dunque, è quello di cogliere l’occasione della festa per favorire attività culturali, iniziative di approfondimento educativo che mettano a tema i valori di cui ha dato testimonianza san Francesco. Povertà, attenzione al creato, accoglienza dell’altro e pace. Sono temi, apparentemente, in perfetta sintonia con molte urgenze attuali.

Ma il santo di Assisi non fu semplicemente un ambientalista ante litteram e neppure un visionario romantico, per questo abbiamo chiesto a Davide Rondoni un affondo sul motivo autentico per cui è un segno essenziale che il nostro calendario sia dettato, anche, dal passo di Francesco.

Come presidente del Comitato san Francesco hai lanciato la proposta di ripristinare la festa nazionale del 4 ottobre. Qual è la situazione allo stato attuale?

Ho lanciato la proposta il 4 ottobre dell’anno scorso ad Assisi, sottolineando che il santo della pace, il santo dei malati, il santo che ci salvò dagli estremismi religiosi deve essere posto al centro dell’attenzione. Questo invito è stato ascoltato sia dalla premier Meloni sia dalle altre forze politiche che hanno messo in moto l’iter parlamentare per arrivare alla conclusione, in modo che il 4 ottobre del 2026 si possa celebrare definitivamente. Si è votato alla Camera, poi si passerà al Senato. Spero che non ci si divida su San Francesco.

Una possibile obiezione potrebbe essere sul fatto che la cronaca ci impone di inquadrare la nostra attualità come crivellata di guerre, di criticità drammatiche. Rispetto alle priorità ritenute imprescindibili, tirare fuori la parola «festa» potrebbe sembrare fuori luogo o di importanza molto secondaria. Perché abbiamo bisogno di questa celebrazione?

La festa dedicata a un santo ha proprio lo scopo di ricordarci che abbiamo dei patroni in cielo e non dei padroni sulla Terra. La povertà, tanto elogiata nella storia di Francesco, è riconoscere che non siamo i padroni nel mondo e non siamo i padroni di nessuno. Mai come adesso è urgente ricordarci di questo, che anche i signori della guerra non sono i padroni del mondo. Avere dei patroni in cielo aiuta a mettere a fuoco, a dire con chiarezza non solo che i grandi poteri fanno la guerra, ma che fanno la guerra nella vita delle persone, con l’alleanza di molte persone.

Nel sentire comune, il giorno di festa è un giorno in cui ci si ferma, ci si riposa. Possiamo intenderlo come un invito a fermarci, a riconsiderare che il tempo non è una nostra proprietà di cui abbuffarci e di cui spremere ogni secondo? Penso, banalmente, alle attività che sono aperte h 24 e 7 giorni su 7. Dobbiamo farci aiutare dai santi a scandire il tempo?

La festa è un segno offerto a chi vuole, ovviamente, non è obbligatoria. Si può festeggiare oppure no, ma è un segno. Più che sul tempo, insisterei proprio sul segno. Una civiltà che non lascia segni, lascia solo i marchi. È molto importante riaffermare il valore dei segni che san Francesco ha lasciato a tutta la civiltà europea. Sul tema, invece, del fermarci e della lentezza sono un po’ titubante. Riduciamo i termini della questione all’essere di corsa o andare lenti. Il punto non è se uno si ferma o non si ferma, ma a cosa guarda mentre va, e che ci siano dei segni mentre uno va rende migliore il cammino. Si può essere contemplativi anche di corsa.

Fonte: Tempi, settembre 2025

Padre Bruno 90


 

Festa delle Stimmate 2025


 

sabato 13 settembre 2025

"Al reverendo padre in Cristo, frate Crescenzio, per grazia di Dio ministro generale"

Al reverendo padre in Cristo, frate Crescenzio, per grazia di Dio ministro generale, frate Leone, frate Rufino e frate Angelo, che in passato furono compagni, senza esserne meritevoli, del beato padre Francesco, esprimono la loro doverosa e devota riverenza nel Signore.


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Poiché per disposizione del Capitolo generale testè celebrato e vostra, i frati sono tenuti a comunicare alla paternità vostra i miracoli e i prodigi del beatissimo padre Francesco che essi conoscono o che possono reperire,


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noi, che siamo vissuti più a lungo insieme con lui, malgrado non ne fossimo degni, abbiamo ritenuto opportuno di presentare alla santità vostra, guida la verità, alcune tra le molte gesta di lui, delle quali siamo stati spettatori o di cui abbiamo attinto notizie da altri santi frati. E specialmente da frate Filippo, visitatore delle Povere Dame, frate Illuminato dell'Arce, frate Masseo da Marignano e frate Giovanni, compagno del venerabile frate Egidio, che raccolse numerose informazioni sia da frate Egidio stesso che da frate Bernardo, di santa memoria, primo compagno del beato Francesco.


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Non ci accontentiamo però di narrare solo dei miracoli, i quali palesano ma non fanno la santità; nostro intento è anche di mostrare alcuni aspetti salienti della sua santa vita e la intenzione della divina volontà, allo scopo di lodare e glorificare il sommo Dio e il santo padre Francesco, e di edificare quanti vogliono seguire i suoi esempi.

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Non ci proponiamo tuttavia di scrivere una vita, dal momento che della sua vita e dei miracoli che Dio ha compiuto per mezzo di lui sono già state redatte delle <<leggende >>; bensì abbiamo colto, come da un prato rigoglioso, un mazzo di fiori, quelli che ci sono parsi i più belli, senza però disporli in ordine cronologico. E di proposito abbiamo tralasciato molti fatti, già raccontati in modo veridico ed elegante nelle leggende su ricordate: in esse voi potrete far inserire, se lo riterrete opportuno, questi nostri ricordi. Siamo invero persuasi che, se a quei valenti biografi fossero stati noti i presenti ricordi, non li avrebbero passati sotto silenzio; anzi, li avrebbero, almeno in parte, abbelliti con il loro stile, tramandandoli così alla memoria dei posteri.

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Possa la santa paternità vostra stare sempre bene nel Signore Gesù Cristo; nel quale noi, figli devoti, ci raccomandiamo alla santità vostra con umiltà e devozione.

   Dal luogo di Greccio, 11 agosto dell'anno del Signore 1246


L'importanza di questa lettera -- che si dichiara scritta da Greccio (11 agosto 1246) da tre compagni di Francesco, e precisamente Leone, Rufino e Angelo -- non è tale da fare passare in secondo ordine l'infinità di discussioni che ha sollevato. Soprattutto perché non risulta chiaramente, oggi, l'individuazione dei materiali biografici che i firmatari hanno inteso inviare << in allegato >>.


La lettera ci è stata tramandata, concordemente, in apertura della cosiddetta Leggenda dei tre compagni, a partire dalla fine del secolo XIII o inizio del XIV.

Essa palesa tuttavia un'evidente estraneità con una Leggenda che segue un andamento strettamente cronologico, aderendo alla trama della Vita prima di Tommaso da Celano, sia pure con diversità di toni e di dettati. Le intenzioni dichiarate dei compagni di Greccio erano di non scrivere una Vita di Francesco, bensì di portare un contributo nuovo, inedito, raccogliendo << come da un prato rigoglioso, un mazzo di fiori, quelli che ci sono parsi i più belli, senza però disporli in ordine cronologico >>. Il materiale inviato sembra, pertanto, doversi riconoscere, sostanzialmente, nella seconda parte della Vita seconda di Tommaso da Celano (1246/1247), a cui la raccolta -- intimata dal Capitolo Generale di Genova del 1244 e da Crescenzio da Iesi -- era destinata. Tale parte presenta, infatti, senza seguire alcun ordine cronologico, tutta una serie di fatti, gesti, volontà di Francesco che ben sembrano corrispondere alle intenzioni dei compagni di Greccio, anche se questo non significa che essa abbia incorporato tutta, o esclusivamente, la documentazione venuta da Greccio.


   

"Si guardino bene i frati di non accettare assolutamente chiese se non fossero come si addice alla santa povertà"

 

Il Signore dette a me, frate Francesco, di incominciare a fare penitenza così: quando ero nei peccati mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi, e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia. E allontanandomi da loro, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza di animo e di corpo. E in seguito, stetti un poco e uscii dal secolo.

E il Signore mi dette tale fede nelle chiese, che io così semplicemente pregavo e dicevo: 

Ti adoriamo, Signore Gesù Cristo, anche in tutte le tue chiese che sono nel mondo intero e ti benediciamo, perché con la tua santa croce hai redento il mondo.

Poi il Signore mi dette e mi dà una così grande fede nei sacerdoti che vivono secondo la forma della santa Chiesa romana, a motivo del loro ordine, che se mi facessero persecuzione, voglio ricorrere proprio a loro.

E se io avessi tanta sapienza, quanta ne ebbe Salomone, e trovassi dei sacerdoti poverelli di questo mondo, nelle parrocchie in cui dimorano, non voglio predicare contro la loro volontà.

E questi e tutti gli altri voglio temere, amare e onorare come miei signori. E non voglio considerare in loro il peccato, poiché in essi io discerno il Figlio di Dio e sono miei signori. E faccio questo perché, dello stesso altissimo Figlio di Dio nient’altro vedo corporalmente, in questo mondo, se non il santissimo corpo e il santissimo sangue suo, che essi ricevono ed essi soli amministrano agli altri. E voglio che questi santissimi misteri sopra tutte le altre cose siano onorati, venerati e collocati in luoghi preziosi. E i santissimi nomi e le parole di lui scritte, dovunque le troverò in luoghi indecenti, voglio raccoglierle, e prego che siano raccolte e collocate in luogo decoroso. E tutti i teologi e quelli che amministrano le santissime parole divine, dobbiamo onorarli e venerarli come coloro che ci amministrano lo spirito e la vita. 

E dopo che il Signore mi dette dei fratelli, nessuno mi mostrava che cosa dovessi fare, ma lo stesso Altissimo mi rivelò che dovevo vivere secondo la forma del santo Vangelo. E io la feci scrivere con poche parole e con semplicità, e il signor papa me la confermò. E quelli che venivano per intraprendere questa vita, distribuivano ai poveri tutto quello che potevano avere, ed erano contenti di una sola tonaca, rappezzata dentro e fuori, del cingolo e delle brache. E non volevamo avere di più. Noi chierici dicevamo l’ufficio, conforme agli altri chierici; i laici dicevano i Pater noster, e assai volentieri ci fermavamo nelle chiese. Ed eravamo illetterati e sottomessi a tutti. 

E io lavoravo con le mie mani e voglio lavorare; e voglio fermamente che tutti gli altri frati lavorino di un lavoro quale si conviene all’onestà. E quelli che non sanno, imparino, non per la cupidigia di ricevere la ricompensa del lavoro, ma per dare l’esempio e tener lontano l’ozio. Quando poi non ci fosse data la ricompensa del lavoro, ricorriamo alla mensa del Signore, chiedendo l’elemosina di porta in porta.

Il Signore mi rivelò che dicessimo questo saluto: «Il Signore ti dia la pace!».

Si guardino bene i frati di non accettare assolutamente chiese, povere abitazioni e tutto quanto viene costruito per loro, se non fossero come si addice alla santa povertà, che abbiamo promesso nella Regola, sempre dimorandovi da ospiti come forestieri e pellegrini. Comando fermamente per obbedienza a tutti i frati che, dovunque si trovino, non osino chiedere lettera alcuna [di privilegio] nella Curia romana, né personalmente né per interposta persona, né a favore di chiesa o di altro luogo, né sotto il pretesto della predicazione, né per la persecuzione dei loro corpi; ma, dovunque non saranno accolti, fuggano in altra terra a fare penitenza con la benedizione di Dio. E fermamente voglio obbedire al ministro generale di questa fraternità e ad altro guardiano che gli sarà piaciuto di assegnarmi. E così voglio essere prigioniero nelle sue mani, che io non possa andare o fare oltre l’obbedienza e la volontà sua, perché egli è mio signore. E sebbene sia semplice e infermo, tuttavia voglio sempre avere un chierico, che mi reciti l’ufficio, così come è prescritto nella Regola. 

E tutti gli altri frati siano tenuti ad obbedire così ai loro guardiani e a dire l’ufficio secondo la Regola. E se si trovassero dei frati che non dicessero l’ufficio secondo la Regola, e volessero variarlo in altro modo, o non fossero cattolici, tutti i frati, ovunque sono, siano tenuti per obbedienza, ovunque trovassero qualcuno di essi, a farlo comparire davanti al custode più vicino al luogo dove l’avranno trovato. E il custode sia fermamente tenuto per obbedienza a custodirlo severamente, come un uomo in prigione giorno e notte, così che non possa essergli tolto di mano finché non lo consegni di persona nelle mani del suo ministro. E il ministro sia fermamente tenuto, per obbedienza, a mandarlo per mezzo di tali frati che lo custodiscano giorno e notte come un uomo imprigionato, finché non lo presentino davanti al signore di Ostia, che è signore, protettore e correttore di tutta la fraternità. E non dicano i frati: «Questa è un’altra Regola», perché questa è un ricordo, un’ammonizione, un’esortazione e il mio testamento, che io, frate Francesco piccolino, faccio a voi, fratelli miei benedetti, affinché osserviamo più cattolicamente la Regola che abbiamo promesso al Signore. 

E il ministro generale e tutti gli altri ministri e custodi siano tenuti, per obbedienza, a non aggiungere e a non togliere niente da queste parole. E sempre abbiano con sé questo scritto accanto alla Regola. E in tutti i capitoli che fanno, quando leggono la Regola, leggano anche queste parole. 

E a tutti i miei frati, chierici e laici, comando fermamente, per obbedienza, che non inseriscano spiegazioni nella Regola né in queste parole dicendo: «Così devono essere intese»; ma come il Signore ha dato a me di dire e di scrivere con semplicità e purezza la Regola e queste parole, così voi con semplicità e senza commento cercate di comprenderle, e con santa operazione osservatele sino alla fine. 

E chiunque osserverà queste cose, sia ricolmo in cielo della benedizione dell’altissimo Padre, e in terra sia ricolmo della benedizione del suo Figlio diletto con il santissimo Spirito Paraclito e con tutte le potenze dei cieli e con tutti i santi. E io frate Francesco piccolino, vostro servo, per quel poco che posso, confermo a voi dentro e fuori questa santissima benedizione.


Testamento di San Francesco