sabato 23 novembre 2024

Lo zendale rimboccato di Luigi Bartolini

 

Voce della Vallesina, 17 novembre 2024

Quasi in sordina è circolata, nelle scorse settimane, la notizia della ristampa, a cura della casa editrice “La nave di Teseo”, del romanzo “Ladri di biciclette”, capolavoro di Luigi Bartolini, pubblicato per la prima volta nel 1946.

L’inguaribile ritrosia dei marchigiani rischia di sottovalutare la rilevanza dell’evento editoriale, con la conseguenza di lasciare in ombra il talento multiforme di questo figlio di Cupramontana, apprezzato per le eccelse qualità di incisore (tra i migliori del Novecento) e per le singolari doti di scrittore e poeta (“La sua prosa è crepitante, miracolosamente in bilico tra l’estro capriccioso e una sapiente classicità” Geno Pampaloni).

Non è facile individuare nella realtà artistica del secolo scorso, altro autore che possa uguagliare Luigi Bartolini (1892-1963) per varietà e mole di produzione. Ammontano ad oltre 1300 le lastre incise nel corso della sua attività, più di 80 sono i titoli dei suoi libri, cui si aggiungono un numero imprecisato di quadri e di saggi nelle maggiori riviste letterarie dell’epoca (“Fieramosca”, “Il Frontespizio”, “Il Selvaggio”).

Ladri di biciclette”, all’inizio stampato in appena 150 copie, fu rieditato dalla Longanesi nel 1948 e dalla Vallecchi nel 1954. Nel corso degli anni, il testo ha raggiunto livelli di diffusione straordinari, come attestato da ben quindici traduzioni (persino in norvegese, svedese ed ebraico).

Non a caso, Valerio Volpini ebbe a definire “Ladri di biciclette” come uno dei romanzi “più riusciti e felici di questo dopoguerra”.

All’opera letteraria si ispirò (non senza vibranti contestazioni da parte dell’autore) la sceneggiatura dell’omonimo film di Vittorio de Sica, Premio Oscar nel 1954.

Il romanzo è ambientato a Roma nel settembre del 1944, a pochi mesi dall’avvenuta liberazione ad opera delle truppe del Generale Clark: il protagonista viene derubato del suo unico mezzo di locomozione, indispensabile per poter lavorare (“La bicicletta d’alluminio, bella, leggera, del peso di cinque chili, con i copertoni seminuovi, il manubrio da corsa, il portapacchi”).

Nell’attività di indagine per ritrovare il bene sottratto, Bartolini trascina il lettore nei quartieri malfamati della capitale (“Siamo nei paraggi di Campo de’ Fiori, covo d’antichi ladri e d’attuali, centuplicati. Via dei Baullari, via dei Coronari, vicolo del Cinque; lì sono i covi, le case, le osterie, i bar, le botteghe, i ripostigli, i bordelli, i ricettacoli dei ladri”): una sorta di girone infernale in cui vige suprema la legge del furto.

Di fronte a tale tragedia morale, Bartolini matura una personale forma di pietas laica, frammista ad elementi umoristici: “L’uomo è, del resto, ladro per natura. Esistono teorie politiche che ammettono il furto. Lo stesso San Francesco accenna, nella sua Regola, al seguente: si può, andando per campagne, togliere, a un albero, tanti fichi, o tanta uva, quanti fichi o uva entrino in un fardello. San Francesco dà anche la misura del fardello: che non deve superare quella d’uno zendale rimboccato”.

Nella visione bartoliniana, la ricerca ossessiva della bicicletta assume un valore esemplare per spiegare il senso autentico della vita: “Non si tratta, vivendo, che di ritrovare il perduto. Lo si può ritrovare una, due volte, tre, come io, per due volte sono riuscito a ritrovare la bicicletta. Ma verrà la terza volta e ritroverò più nulla. Così, è, ripeto tutta l’esistenza. E’ un correre a ritroso, per finalmente perdere o morire (…). Si cercan fin troppe cose prima di morire. Ed io cercherò un volto amico e troverò soltanto quello di Luciana, se lo troverò: che sarebbe, per i miei ultimi dolori, già un morire con il sole davanti agli occhi”.

Proprio in questi giorni l’amatissima figlia Luciana ha voluto donare al Comune di Jesi un’opera del padre (“Il bambino cinese”, olio su cartone del 1952), “a testimonianza del profondo legame che Bartolini ha sempre intrattenuto con l’atmosfera culturale di questi luoghi”.

In effetti, la formazione artistica di Luigi Bartolini ebbe inizio a Jesi con la frequenza della Scuola Tecnica (si diplomò nel 1907 con un dieci in disegno), per poi proseguire a Siena, Roma e Firenze e dispiegarsi, nella maturità, in tante città italiane.

Mai, tuttavia, si affievolirà la nostalgia per il paese natio (“La bella Cupreo. Cupreo in greco significa rame corrusco e, dunque, Cupramontana significa colle fiammeggiante”) e per i suoi fieri abitanti.

Mauro Torelli

sabato 2 novembre 2024

Il mare amarissimo

 

Ritratto di santa Camilla Battista da Varano, olio su tela, Monastero Santa Chiara di Camerino. Iscrizione: L.B.M. SORA BATTISTA. VARANI/ FIGLIOLA. DEL. DVCA. FON(D)ATRICE/ DEL. SACRO. MONASTERO. DI./ SANTA.CHIARA.DI CAMERINO./16(?)3

Nei giorni scorsi il Ministro generale dell’Ordine dei Frati Minori, fr. Massimo Fusarelli, ha scritto una lettera in occasione del quinto centenario della morte di santa Camilla Battista Varano, avvenuta il 17 ottobre 1524, che nella ‘Vita spirituale’, redatta nel 1491 ed indirizzata al frate francescano Domenico da Leonessa, scrive: ‘Mi pare di poterla chiamare con tutta sincerità infelicissima felicità.. Ornarmi e leggere le cose vane,… in suonare, cantare, ballare, pazzeggiare e altre cose giovanili e mondane… Mi erano in tanto fastidio le cose devote e i frati e le suore, che non [ne] potevo vedere nessuno’.

Da qui prende spunto la lettera del Ministro generale, che analizza il testo della Santa: “Il testo rivela in filigrana le doti letterarie non comuni di questa donna, ma soprattutto dischiude al mistero dell’incontro tra la giovane Camilla e il ‘suo Signore’, rivelandoci i tratti di una relazione viva e vivace che giungerà alla fecondità mistica del percorre la ‘via del Divino Amore’ giungendo a ‘vedere tanto amore, immenso come il mare e sviscerato, senza alcun ordine e misura che Dio portava alla creatura, che non mi potevo trattenere dal dire: O pazzia! O pazzia!’ Nessun vocabolo mi pareva più vero e conveniente a tanto amore’… Il desiderio di donarsi al Signore maturerà solo alcuni anni dopo, durante la quaresima del 1479, ravvivato dall’ascolto di un’altra predica, questa volta del frate minore Francesco da Urbino”.

Alcuni anni dopo fa la professione di fede: “Così il 14 novembre 1481 entra nel monastero delle clarisse di Urbino e cinque mesi dopo farà la sua ‘amara professione’ nella vita religiosa, come la definì alcuni anni dopo nei Ricordi di Gesù Cristo rievocando i molti ostacoli affrontati…

Ad Urbino Camilla Battista trovò ‘il dolcissimo canto delle preghiere devote, la bellezza dei buoni esempi, i segreti giacigli delle grazie divine e dei doni del cielo’. Nel 1484, dietro le pressioni paterne e in obbedienza al Papa, rientra, con otto sorelle, a Camerino, in un antico monastero restaurato per l’occasione dal padre. Qui Camilla Battista introduce la regola di santa Chiara di Assisi, con la scelta inequivocabile e ferma di osservare l’altissima povertà, rifiutando ogni dispensa, pena lo scioglimento istantaneo della comunità, ostacolando così il disegno del duca di dotare il monastero di rendite e benefici”.

Nel 1484 compone l’opera ‘I dolori mentali di Gesù Cristo nella sua passione’: “Custodendo la ‘continua e dolce memoria della Passione di Cristo, arca dei tesori celesti, fonte inesauribile d’acqua viva, pozzo profondissimo dei segreti di Dio’, Camilla Battista, guidata da Gesù, giunge a penetrare il mistero della passione attraverso una nuova prospettiva, come lei stessa rivela:

‘Durante quel tempo fui introdotta, per mirabile grazia dello Spirito Santo, nel cuore di Gesù, vero e solo mare amarissimo, insondabile ad ogni intelletto angelico e umano. E mi fu mostrato che tanta differenza c’è tra chi si appaga delle pene mentali di Gesù Cristo e chi invece si appaga solo nella umanità appassionata di Cristo, quanta differenza c’è tra il vaso ricolmo di miele e il vaso che fuori è irrigato un poco da quello che sta dentro’…

E accade il prodigio: Cristo le dischiude il suo cuore, ‘quel cuore trafitto dalla lancia, quel cuore che ha sopportato tutte le vicende umane, che non si è ritratto di fronte al rischio cui l’esponeva l’amore, né si è rinchiuso in se stesso perché il suo amore fiammante non veniva corrisposto’, e in quel cuore, attraverso il costato ferito, all’amata è dato di contemplare il sigillo della promessa: ‘Io ti amo Camilla’. Ecco perché santa Camilla Battista giungerà alla vertiginosa richiesta di rimanere lì, ai piedi di quel crocifisso, per sempre”.

La lettera del ministro generale si sofferma sulla spiritualità della santa camerte: “Negli anni seguenti al rientro, Camilla Battista rimarrà a Camerino fino alla morte avvenuta il 31 maggio 1524 a causa della peste. La permanenza è interrotta solo da rare occasioni legate a missioni come quella affidatale nel 1505-1507 dal papa Giulio II per la riforma del monastero delle clarisse di Fermo e quella analoga del 1521-1522 presso la comunità di San Severino Marche…

La vicenda storica e familiare di Camilla Battista ci introduce a quel mistero che rappresenta ogni santo per la Chiesa di Dio. Tra le pieghe degli eventi e delle vicissitudini liete e drammatiche, nobili e contraddittorie, si nasconde l’avventura spirituale e mistica di questa grande donna. La figura di Camilla Battista appartiene alla numerosa schiera di mistiche, non solo francescane e italiane. Nel suo profilo spirituale trovano una straordinaria sintesi la fede e l’umanità, la mistica e la quotidianità, lo spirito e la carne, la ragione e l’emozione, la terra e il cielo, l’amore e il dolore”.

Infatti la mistica è la chiave di lettura per comprendere un’esperienza di santità: “La mistica, quale chiave di lettura dell’esperienza di un santo, indica a ciascuno di noi la meta della nostra sequela di Cristo e rappresenta una finestra aperta sul mistero della compartecipazione dell’essere umano al disegno d’amore del Padre. L’esperienza mistica di Camilla Battista ci aiuta a guarire la costante tentazione di espellere dal nostro cammino spirituale quanto di reale, contraddittorio, scandaloso e banale sperimentiamo nella nostra vita”.

La mistica è un aiuto a vivere la quotidianità: “Ci aiuta a salvare il contatto con la realtà, sempre complessa e caotica. Ci insegna e ci ricorda che la vera mistica non elude il quotidiano, non rifugge l’angoscia, non teme la vita reale. Anzi, è proprio la vita reale, con le sue imprevedibili e sfiancanti sfide, il luogo in cui la vera mistica prende carne e si sviluppa, mediante l’ascolto, la lotta e l’amore, ossia riconoscendo la presenza discreta ma efficace di Colui che fa nuove tutte le cose”.

Ed ha tracciato alcune caratteristiche di santa Camilla: “Camilla Battista innanzitutto è una donna che ascolta, nel senso biblico e mariano di questo termine. Ascolta e mette in pratica. Non appena capisce di aver incontrato qualcosa che può farla progredire nel cammino spirituale, come accadde durante l’ascolto della ‘predica della lacrimuccia’ di fra Domenico da Leonessa e quella della ‘scintilla’ di fra Francesco da Urbino: decide, delibera, si assume la responsabilità della propria vita e la fedeltà tenace a questi piccoli impegni diventa la goccia che scava in lei il canale per il passaggio della grazia”.

Quindi la mistica non è una rinuncia: “Un’altra caratteristica della spiritualità della Varano è quella della lotta, passaggio ineludibile e inevitabile di qualsiasi esperienza cristiana. Camilla non si arrende alle prime difficoltà, non si scoraggia quando sopravvengono le intemperie, non si lamenta giustificando la propria passività, ma resta in una posizione attiva, adulta, consapevole della complessità, ma anche dell’obiettivo del proprio lottare. Ed è proprio l’amore, ardente e appassionato, verso il suo Dolcissimo Sposo, che costituisce la ragione, lo scopo, il premio e la beatitudine di questa santa”.

In questa ‘lotta’ santa Camilla entra in ‘relazione’ con Cristo: “Nel mare sconfinato del Cuore di Cristo, Camilla Battista immerge tutta la sua umanità, i suoi desideri più profondi, il suo anelito alla pienezza di vita e di bene. E’ infatti la relazione con Cristo il senso autentico di ogni mistica, che ci spoglia continuamente del nostro attaccamento al fare, all’apparire e al piacere per concederci la vertiginosa esperienza dell’essere-con e dell’essere-in.

La figura di questa Santa ci mostra come la chiamata alla santità non si colloca a livello del ‘cosa fare’, ma del ‘di chi essere’ o ‘a chi appartenere’. Da questa intimità con Cristo, coltivata e rinnovata ogni giorno, lei ci insegna a ricevere ogni giorno la nostra identità, ad apprendere l’autentica conoscenza di Dio, delle nostre capacità e limiti, degli altri e del mondo”.

Tale anniversario è un’occasione per ‘convertire’ il proprio rapporto con la storia e con se stessi: “Molto spesso quello che ostacola il nostro cammino spirituale e soprattutto la sua continua crescita ed evoluzione, sono eventi che accadono nella storia; e poi l’esperienza drammatica della sofferenza e del dolore, e persino elementi della nostra umanità, sempre in tensione tra fragilità e autentica forza, tra le immaturità affettive e il desiderio di relazioni buone.

San Francesco alla Verna ha vissuto la sua ‘grande tentazione’, sciolta in un incontro nuovo con il Cristo. Da parte sua, Camilla Battista di fronte a queste tre sfide ci offre una pista, una luce, per attingere dalla sua esperienza criteri e strumenti per il discernimento nella vita concreta di ogni giorno”.

Quindi la ‘lezione’ della mistica camerte è quella di rimanere ‘incarnati’ nella realtà: “La mistica camerte ci ricorda invece che ogni cammino spirituale, per essere veramente incarnato, deve restare, per tutto il tempo della nostra vita, ancorato alla nostra realtà di creature, con i suoi ineliminabili chiaroscuri. Camilla Battista non ha paura di mostrarsi a noi nella sua fragilità umana e di donna, nelle sue passioni e desideri, perché, senza togliere o cancellare nulla, tutto di lei ha saputo convergere verso Cristo, orientare verso il Regno”.

E’ questa la santità proposta da santa Camilla: “Per questo ci propone e restituisce, oggi, una santità e una mistica integrata e integrale. Oggi riconosciamo che le ferite che segnano il corpo e lo spirito di san Francesco non lo rendono un essere celeste, ma ci consegnano l’immagine viva di Cristo proprio in un’umanità fragile e ferita, percossa e amata incondizionatamente. Un annuncio di speranza per tanti!”           

lunedì 14 ottobre 2024

“Laudato si’, mi’ Signore, per sor’aqua, la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta” - Il primo acquedotto di Jesi


Ricorderemo questa estate per le temperature roventi e per i preoccupanti livelli di siccità.

L’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale ha registrato, nelle Marche, uno scenario di “severità idrica”, definizione tecnica che sintetizza uno stato di rilevante criticità: le portate in alveo risultano inferiori alla media, il fabbisogno di acqua è superiore alla norma, i volumi accumulati negli invasi e nei serbatoi non sono in grado di garantire i consueti tassi di erogazione per gli utilizzi idropotabili, irrigui e industriali.

Questa congiuntura rende probabili danni al sistema economico e impatti negativi sull'ambiente.

Dalla realtà in atto, dovremmo trarre alcuni insegnamenti.

E’ necessaria una crescita di sensibilità della popolazione per un utilizzo appropriato delle risorse idriche, con l’obiettivo di scongiurare sprechi e dispersioni.

Nel contempo, deve aumentare il grado di responsabilizzazione delle istituzioni pubbliche sulle questioni dell’impiantistica idraulica e della manutenzione delle reti.

La banalità del gesto quotidiano di aprire un rubinetto sminuisce la necessaria consapevolezza sull’estrema complessità del sistema di approvvigionamento: dalla captazione alla sorgente fino alla distribuzione nelle nostre case.

Meritano riconoscenza quegli amministratori comunali che, agli inizi del ‘900, dedicarono il loro impegno alla costruzione degli acquedotti.

Non dimentichiamo che appena un secolo fa, l’attingimento dell’acqua per usi domestici veniva ancora effettuato attraverso punti di rifornimento collettivo.

E’ il caso, per quanto riguarda Jesi, della Fontana dei leoni, collocata al centro della Piazza del Plebiscito (l’odierna Piazza della Repubblica) alla quale si aggiungevano altre fonti periferiche: Tornabrocco, Piccitù, San Marco, San Giovanni, San Floriano, Porta Valle, Mastella.

L’acquaiolo, dietro compenso, prelevava l’acqua dalle fontane pubbliche, per poi trasportarla ai clienti su carretti muniti di appositi fori per la sistemazione in sicurezza delle brocche in terracotta.

La memoria popolare tramanda il ricordo di Nennè (Anna Stacchini), l’acquaiola impegnata, fino a tarda età, ad effettuare consegne con un pesante carriolo a sei buche.

Per diversi secoli, le fontane cittadine vennero alimentate con l’acqua proveniente dalla sorgente di Fontesecca (toponimo alquanto singolare!) situata nella zona dove sorgeva la chiesa di San Francesco al Monte (attuale Casa di Riposo in via Gramsci).

Nel 1890, durante la sindacatura del marchese Luciano Honorati, vennero avviati i primi studi per la costruzione dell’acquedotto cittadino.

Soltanto 22 anni dopo, nel 1912, si completò la progettazione dell’opera per la quale fu previsto uno stanziamento pari ad un milione e 96 mila lire. L’avvio dei lavori porta la data del 10 agosto 1913, mentre era a capo dell’Amministrazione il repubblicano Gugliemo Gatti.

La spinta definitiva per la realizzazione dell’acquedotto, è riconducibile all’azione di Giuseppe Abbruzzetti, Sindaco liberale in carica durante la prima guerra mondiale.

Anche grazie all’impiego forzato dei prigionieri austriaci, l’impianto idrico fu costruito in meno di quattro anni ed attivato nel 1917.

Un intervento, per l’epoca, di dimensioni ingegneristiche colossali: una tubazione in acciaio lunga oltre 36 chilometri collegava la sorgente di Rio delle Grotte (situata località Trocchetti di Albacina) alla nostra città.

Finalmente l’acqua corrente era a disposizione degli jesini!

Con un avviso pubblico datato 20 febbraio 1918, il Sindaco Abbruzzetti aprì la sottoscrizione per gli abbonamenti all’uso dell’acqua potabile.

Gli interessati - previa domanda in carta da bollo da una lira - potevano esprimere un’opzione tra cinque tipologie di fornitura: 1000 litri al giorno (costo 55 lire annue), 750 litri (45 lire annue), 500 litri (30 lire annue), 250 litri (18 euro annui) e 125 litri (10 lire annue).

L’acquedotto di Trocchetti è rimasto in funzione per oltre sessanta anni anni, fino all’attivazione, negli anni ‘80, del nuovo impianto di Gorgovivo, la cui acqua ha un grado di durezza di meno della metà di quella di Rio delle Grotte.

A Trocchetti rimane, comunque, una straordinaria testimonianza architettonica di quel primo acquedotto. Attraverso un sentiero, è ancora raggiungibile l’edificio di servizio su cui campeggia, a caratteri cubitali, la scritta Aesinae Genti, simbolo orgoglioso della jesinità.

Nel periodo primaverile, una cascata di oltre venti metri lambisce una parete della struttura, immersa in un bosco.

Noi contemporanei, oltre ad essere grati per la lungimiranza degli avi, siamo chiamati a riflettere sul valore dell’acqua, riconoscendone, ora più che mai, quella preziosità già mirabilmente cantata - esattamente 800 anni fa - da Francesco d’Assisi:

Laudato si', mi' Signore, per sor'aqua, la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta”.


Mauro Torelli



 

mercoledì 18 settembre 2024

“Nelle sue mani e nei suoi piedi, incominciarono ad apparire segni di chiodi”




Otto secoli fa, sul monte della Verna, Francesco di Assisi riceveva le stimmate: secondo le parole di Bonaventura da Bagnoregio, “nelle sue mani e nei suoi piedi, incominciarono ad apparire segni di chiodi”. Un episodio che ha ispirato grandi artisti, come Giotto, o (forse) Coppo di Marcovaldo nella Pala Bardi a Firenze, il Maestro di san Francesco nella basilica inferiore di Assisi, o Bonaventura Berlinghieri nella chiesa di san Francesco a Pescia.

L’intera vita del Poverello ha affascinato i grandi: oltre a Giotto, van Eyck, Filippo Lippi, Raffaello, Pinturicchio, Caravaggio, tanto da farci chiedere come mai un uomo che aveva deciso di farla finita con la società e la sua cultura sia divenuto poi protagonista non solo dell’arte, ma della letteratura e della musica.
Lo stesso Franz Liszt, quando a Villa d’Este di Tivoli compose la prima delle due Leggende, dedicata a san Francesco che predica agli uccelli (l’altra era su San Francesco di Paola), chiese perdono per aver “impoverito” la ricchezza di un testo e di un’esistenza che non hanno eguali.
Per non parlare di musical come “Forza venite gente” che hanno affascinato l’immaginario collettivo di giovani che avevano abbandonato la fede, o di un album di Angelo Branduardi, oltre che a molte altre canzoni “leggere”, quanto si vuole, ma che non si sono sottratte al fascino senza tempo del Poverello.
Il fatto è che Francesco ha attirato a sè non solo credenti, ma anche scettici o intellettuali orientati in senso materialista, come è accaduto ad uno scrittore italiano del Novecento, Paolo Volponi, attento alla questione operaia, che vide nel Cantico di Frate Sole il mirabile apparire di un pensiero che rivalutava quella che lo scrittore chiamava la materia, vale a dire il creato, le piante, gli animali. Ed un altro scrittore e critico, stavolta cattolico, Carlo Bo, sosteneva che quel Cantico e la vita tutta del santo erano un vero e proprio attacco all’economia d’occidente.
Ma una delle radici di tutti i richiami successivi a Francesco è certamente il Dante dell’undicesimo canto del Paradiso, uno degli episodi dell’intera Commedia in cui la struttura retorica e metrica fa fatica a contenere la commozione di fronte ad una scelta talmente affascinante da spingere Bernardo, Egidio e Silvestro ad abbandonare tutto per seguire scalzi quello che molti ritenevano un folle.
Si parlava prima di un fascino che ha raggiunto non solo i cattolici: si pensi a Hermann Hesse e ai suoi due viaggi in Italia, quando, pur avendo alle spalle una famiglia missionaria protestante, e sulla via della scoperta dell’oriente e del Buddha, rimase, al contrario di Goethe, talmente colpito dalle testimonianze scoperte ad Assisi da scrivere un libro intero sul santo, chiamandolo commosso “saluto di Dio alla terra”.
Chesterton, nel suo libro dedicato a Francesco, sosteneva come il santo avesse sconfitto il dualismo cataro, convinto che la materia fosse il male e lo spirito il bene. Il santo d’Assisi dimostrò come l’amore fosse il punto di unione tra l’anima e una natura di splendente bellezza, donatoci da Dio. Una provocazione non solo nei confronti dei Catari, ma di tutti noi.
Non è un caso che l’esempio di Francesco abbia affascinato Carducci, massone non tenero con la Chiesa: in “Santa Maria degli angeli” emerge una commossa evocazione da parte di un uomo che abbandona per un attimo la sua ostilità alla religione per cercare una traccia di Francesco nella campagna umbra.
Senza tralasciare le varie trascrizioni filmiche da parte di Zeffirelli, di Liliana Cavani, e, in un rovesciamento al femminile della conversione francescana, l’ Özpetek di “Cuore sacro”, ovviamente non molto apprezzato da parte di una certa critica che non tollera “invasioni” che sappiano lontanamente di Altro.

fonte: Marco Testi, 

domenica 28 luglio 2024

Obiettivo raggiunto!

Corriere Adriatico, 23 giugno 2024

 

Nuovi studi su Federico II

Corriere Adriatico, 23 luglio 2024

 

La superstar del medioevo

 



mercoledì 24 luglio 2024, ore 21
JESI, PIAZZA FEDERICO II


FRA’
San Francesco, la superstar del medioevo


di e con Giovanni Scifoni
musiche originali di Luciano di Giandomenico
strumenti antichi Luciano di Giandomenico, Maurizio Picchiò e Stefano Carloncelli
regia Francesco Ferdinando Brandi
Una coproduzione Teatro Carcano – Mismaonda – Viola Produzioni


Tutti conoscono San Francesco. Perché è così irresistibile? Era un artista, forse il più grande della storia: nessuno ha mai raccontato Dio con tanta creatività. In un monologo orchestrato con laudi medioevali, Giovanni Scifoni si interroga sulla figura del santo più pop che ci sia e percorre la vita del poverello di Assisi e il suo sforzo ossessivo di raccontare il mistero di Dio in ogni forma, fino al logoramento fisico che lo porterà alla morte.

«Come si fa a parlare di San Francesco D’Assisi senza essere mostruosamente banali?». E’ questa la domanda che si pone l’attore Giovanni Scifoni (in questi giorni sul set della nuova serie di Doc – Nelle tue mani per Rai 1) nel suo nuovo spettacolo Fra’. San Francesco, la superstar del medioevo che debutta stasera al Comunale Luca Ronconi di Gubbio (Pg) mentre domani sarà a Todi.

Il lavoro, scritto e interpretato da Scifoni con la regia di Francesco Brandi, nasce per gli 800 anni del Presepe di Greccio e sarà poi in tour con tappe, tra le altre, dal 5 dicembre alla Sala Umberto di Roma e dal 16 gennaio al Teatro Carcano di Milano. Scifoni, che già nel programma di Tv2000 Beati voi e su Youtube ci aveva abituati a una interpretazione vivace e personale della santità, ora affronta la figura di Francesco in un monologo, orchestrato con laudi medievali e strumenti antichi.

Giovanni, lei aveva già incontrato Francesco nello spettacolo “Mani bucate”….

Questo è uno spettacolo completamente nuovo. Comincia chiedendosi quanti spettacoli e film su Francesco si fanno. Quest’anno siamo in quattro, io, Ascanio Celestini, Simone Cristicchi e Alessandro Barbero. Il problema è che Francesco ti interroga, ti sequestra, quando leggi le fonti francescane lui non ti molla.

Come mai?

Perché lui parla di noi, non siamo noi che parliamo di Francesco. Noi non possiamo fare nient’altro che parlare di noi con la faccia di Francesco. Il me che ha messo in luce Francesco, e che racconterò, è il grande problema che lui aveva con il suo ego. Era un grande attore e artista, le sue prediche erano pazzesche. Altroché i Maneskin, Francesco parlava davanti a 5000 persone, che erano tantissime nella Assisi nel 1200, senza mezzi di comunicazione riusciva a radunare le folle, in più non c’erano microfoni. E’ incredibile. Le persone lo stavano a sentire, perché si sapeva muovere, sapeva usare i gesti. Francesco aveva imparato le mosse dai giullari e trovatori che la mamma francese gli aveva fatto conoscere da piccolo. La gente capiva tutto. Il problema è che io sono un attore molto meno bravo di Francesco.

Intorno a quali punti ruota lo spettacolo?

Francesco era una persona che aveva vissuto sulla sua pelle le tre grandi tentazioni di Gesù nel deserto: trasformare le pietre in pane che sono il denaro e i piaceri, poi gettarsi dal pinnacolo per essere accolto dagli angeli che è la tentazione del potere, e poi possedere tutto il mondo che è il successo. I piaceri, il potere e il successo: Francesco era molto ricco, questo spiega perché stia così in fissa sulla povertà, combattendo con forza l’avarizia e la cupidigia. Poi Francesco aveva un enorme potere, i frati facevano tutto quello che lui diceva, mangiavano coi lebbrosi, dormivano per terra… E poi aveva un successo incredibile, era uno degli uomini più famosi del mondo. Avrà avuto problemi di ego. Qualunque artista ha queste tre tentazioni: gli artisti finiscono male per questo motivo, ho visto moltissimi artisti rovinarsi perché nessuno li metteva in guardia.

E san Francesco come riesce a superare queste tentazioni?

Lui sposa Madonna povertà, rinuncia a tutto, anche al successo e al potere, nel finale della vita rinuncia anche all’ordine che ha fondato. A un certo punto i frati gli dicono che è contraddittorio e gli chiedono di scrivere una regola. E lui riporta paro paro il Vangelo delle Beatitudini. «Quella regola se la faccia lui, noi ce ne facciamo un’altra» rispondono. Lui poteva fare due cose: o mandarli via o rinunciare e dire “continuate voi, io mi tolgo di mezzo”. E lui lo ha fatto. Quale artista rinuncia al proprio capolavoro? Questo è un atto di grande umiltà.

Lei nei suoi spettacoli sui santi spesso fa riflettere attraverso la risata...

Alternare pensiero e risate è un obbligo. San Francesco diceva che voleva gente che ridesse intorno a lui. Era ossessionato dalla risata. I frati che predicavano ridevano anche quando presi a bastonate dalle guardie. Si ride anche di un riso disperato, si ride disperatamente di noi, della nostra pochezza della nostra miseria, di come siamo imperfetti, lontani dalla santità.

Raccontare la fede è difficile in un’era desacralizzata come la nostra?

Noi cattolici non siamo molto bravi a parlare di cattolicesimo, sono più bravi gli altri. Su questo argomento ha fatto più Dario Fo che nessun altro. Il fatto è che è cambiata la committenza. La Chiesa cattolica è stata committente per 1400 anni, poi sono arrivati nuovi committenti, il fascismo, il partito comunista, mentre oggi il grande committente sono le grandi major, le industrie americane come Apple, Google, Amazon. E queste hanno un nuovo paradigma ideologico che vogliono venga celebrato dall’artista. Oggi raccontare il cattolicesimo è molto difficile, perché un artista lo deve fare da solo ed è complesso.

Francesco quanto è attuale oggi?

Non ha mai smesso di esserlo, tutti se ne appropriano, destra, sinistra. Oggi è diventato un archetipo, quasi non c’è più Francesco, ma resta quel che lui diceva. Quello che colpisce tanto oggi è il discorso della rinuncia, la rinuncia all’ego, all’apparenza, lo scomparire perché siamo una società dell’avere più che dell’essere. Rinunciare all’avere è molto più profondo, vuol dire anche rinunciare alla propria fanbase. Ad esempio Papa Francesco ha capito di Francesco una cosa molto importante: che il cristianesimo è una cosa molto semplice, fatta di cose molto concrete: si ama Dio nei poveri, nelle persone che ci stanno accanto, nell’amore per la Creazione.

E del Presepe che si dice?

Il Presepe è una delle grandi performance di Francesco, un grande artista che inventa questa sacra rappresentazione a Natale. Presepe significa mangiatoia. Lui ha detto: mettiamo la mangiatoia vuota, senza bambino e mettiamo l’asino e il bue. Nessuno l’aveva mai fatto nella storia. Questo genera un cortocircuito nel popolo di Greccio, sono talmente emozionati che, durante la messa di Natale quando lui canta il Vangelo e lo mette sulla mangiatoia, succede qualcosa di straordinario: qualcuno vede il bambino, qualcuno vede san Gregorio armeno con Maradona… Il grande potere di Francesco è fare immaginare cose che non c’erano.

A casa Scifoni che presepe si fa?

A casa Scifoni si fa ma è un’operazione difficile (ride): innanzitutto bisogna liberare spazio, non c’è un comodino libero dai panni. Poi il presepe è una cosa elaboratissima: coi miei figli bisogna andare a prendere le scatole, la cartapesta, i sassi di fiume, la ghiaia, il muschio, un macello… Poi ci sono da appendere gli angeli, una fatica… Alla fine si riesce a fare il 26 dicembre e si toglie a Ferragosto.


Fonte: Avvenire,   27 novembre 2023

42^ Marcia Francescana: Vivo con Te


 

domenica 23 giugno 2024

Sanfra in festa 2024



 


Il genius loci di Jesi: il dibattito

 

Voce della Vallesina, 12 maggio 2024

Voce della Vallesina, 19 maggio 2024

Voce della Vallesina, 2 giugno 2024


Voce della Vallesina, 14 luglio 2024

Ho letto con vivo interesse l’intervento di Silvano Sbarbati dedicato a Valeria Moriconi (“L’anima di Jesi”, Voce della Vallesina n. 25).

L’autore coglie l’occasione per rilanciare il dibattito sul “genius loci”, iniziato su queste colonne nel mese di maggio.

Condivido in pieno l’intuizione di Sbarbati, il quale individua nella grande attrice, un’incarnazione della jesinità.

A riprova, è doveroso trascrivere, per intero, quell’autentico atto d’amore che Valeria Moriconi vergò di suo pugno:

A Jesi sono nata,

a Jesi ho respirato appena venuta al mondo,

a Jesi c’è la mia casa,

a Jesi ho camminato per la prima volta in vita mia,

a Jesi dormono le persone che mi hanno dato la vita,

a Jesi torno a respirare quando in altre parti sto soffocando,

a Jesi per la prima volta i miei occhi hanno visto il cielo azzurro,

a Jesi ho amato, ho pianto, ho riso, sono stata felice.

Che dire di più?

Jesi è la mia anima.


Sbarbati prosegue la sua riflessione, ponendo alcune domande di ardua risposta: “Come è fatta la jesinità? Arriva come patrimonio genetico o la si conquista?”.

Viviamo nelle Marche: la regione al plurale.

L’unica, in Italia, con un toponimo che indica una sommatoria di zone geografiche distinte.

A tutti sono note le differenze (di tipo storico, economico, idiomatico) tra le varie parti della regione. E molto spesso, le diversità riguardano porzioni di territorio all’interno  di una stessa Provincia: Jesi è ben diversa da Ancona, ma anche da Senigallia e da Fabriano.

Tra i rischi della globalizzazione, è inclusa la perdita delle identità locali. L’intensificazione degli scambi economici a livello planetario, genera una condizione di interdipendenza sociale e culturale, con un conseguente appiattimento delle peculiarità territoriali. L’uniformità del globo annulla le differenze.

Credo, invece, che la jesinità sia una ricchezza e, in quanto tale, vada preservata e trasmessa alle nuove generazioni, attraverso un percorso educativo.

Sono consolato nel vedere, ogni anno, decine e decine di scolaresche e insegnanti salire nella Residenza Municipale per incontrare i Sindaci e farsi raccontare le vicende storiche della nostra Jesi.

Posso azzardare che anche per Valeria Moriconi, la jesinità fu il frutto di un percorso educativo, in questo caso coltivato in famiglia.

Valeria era la nipote di Giuseppe Abbruzzetti (1870-1950), per due volte Sindaco, in carica durante la prima guerra mondiale.

Colui che si trovò a gestire il drammatico periodo post bellico, inaugurò il primo acquedotto cittadino, promosse la realizzazione dello Stradò (l’odierno Viale della Vittoria), disegnò l’assetto urbanistico dei quartieri nella zona della Stazione, come ancora oggi li conosciamo.

Colui che, mai iscritto al Partito Fascista, fu chiamato, dopo l’8 settembre 1943, a risollevare le sorti di una città in ginocchio, ricoprendo il ruolo di Commissario Prefettizio all’età di 73 anni.

Possiamo affermare che Valeria Moriconi respirò la jesinità fin sulle braccia del nonno Giuseppe.

E vogliamo sperare che nel 2025, in occasione del ventennale della morte, questa attrice possa essere degnamente celebrata nella sua città, come auspicato da Franco Cecchini e dai tantissimi che l’ammirarono per la sua vicenda artistica e per la continua testimonianza di jesinità.


Mauro Torelli

domenica 28 aprile 2024

L'ultimo miglio

Voce della Vallesina, 28 aprile 2024

 

Lo spirito di appartenenza alla propria comunità può innescare un fenomeno di contagio collettivo!

L’andamento della raccolta dei fondi per San Marco è la prova inconfutabile dell’assunto.

A poco più di due mesi dal lancio pubblico del crowdfunding per la progettazione degli interventi di restauro dell’insigne chiesa francescana, il Comune ha registrato un introito di quasi 15.000,00 euro, pari al 75 % dell’obiettivo prefissato.

Al di là dei numeri, il risultato più significativo è rappresentato dalla crescita di una coscienza civica attorno ad un bene culturale di primaria rilevanza, sino ad ora non valorizzato appieno nelle sue potenzialità.

Nel periodo tra marzo e aprile, due corali cittadine (la “Brunella Maggiori” e la “Santa Lucia”) e la Scuola Pergolesi hanno organizzato tre esibizioni all’interno di San Marco, richiamando centinaia di cittadini, molti dei quali ignari della rara bellezza di questo gioiello del XIII secolo.

Determinante è stato anche l’apporto di due neonati Comitati di Quartiere (Erbarella/San Pietro Martire e Coppi/Giardini), impegnati in prima linea nella promozione degli eventi, a fianco dell’instancabile prof. Vittorio Massaccesi, tenace ideatore della campagna di raccolta fondi.

Una sorta di appello alla collettività per la rinascita e la valorizzazione di un simbolo religioso e artistico del nostro territorio.

A buon diritto si potrebbe parlare, per il caso in questione, di una felice concretizzazione degli ideali dell’art. 9 della Costituzione (“la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”) e del nostro Statuto (“il Comune di Jesi opera per favorire la protezione del suo patrimonio storico-artistico. (...) L’identità culturale di Jesi e del suo territorio è l’elemento di coesione che unisce la comunità ed al tempo stesso è il modo migliore con cui la stessa comunità si offre a chi la incontri per conoscerla, siano visitatrici, visitatori o nuovi residenti”).

E’ ora necessario compiere l’ultimo tratto del percorso, per raggiungere l’obiettivo finanziario prefissato e dare avvio all’attività di progettazione.




Un primo risultato è stato comunque brillantemente conseguito: centinaia di “riflettori civici” sono stati idealmente accesi su un monumento relegato, per troppo tempo, in una zona d’ombra.

Purtroppo, il declino di San Marco ha una storia antica.

La collocazione della chiesa su un’amena altura - in posizione isolata e al di fuori delle mura cittadine – sicuramente agevolò la dimensione contemplativa, ma determinò, nel contempo, una condizione di pericolo per l’incolumità dei frati.

Il fosso San Giovanni, situato nell’area oggi occupata dal Viale della Vittoria, costituiva un ulteriore elemento di separazione tra il convento e la zona intramuraria.

Durante il XV secolo, nell’arco di pochi anni, Jesi conobbe le invasioni degli eserciti di Braccio da Montone, Carlo Malatesta e Francesco Sforza.

Scrive lo storico Gustavo Parisciani: “Bande di esuli e fuoriusciti ronzavano in permanenza. La collina a settentrione della città era un ottimo punto di osservazione, un comodo rifugio per agguati e la cantina dei frati un gradevole campo di ristoro. Resistere alla violenza di tale soldataglia poteva portare all’effusione del sangue”.

Il 6 agosto 1437 una delegazione di frati di San Marco si recò in Comune per chiedere l’autorizzazione al trasferimento del convento nella chiesa di San Floriano.

La risposta delle autorità civili fu positiva e trovò conferma nel parere favorevole reso dal Vescovo Innocenzo nel 1439.

Da quel momento San Marco cessò di essere sede conventuale e fu pressoché abbandonata.

Di fatto, le diatribe interne al movimento francescano ostacolarono ogni soluzione alternativa.

Nel 1450, il tentativo del Comune di offrire la chiesa ai Minori dell’Osservanza per l’insediamento di una nuova fraternità, si rivelò non percorribile a causa della ferma opposizione dei precedenti “inquilini” Conventuali, fieri avversari del nuovo ramo francescano, considerato scissionista.

Nel corso dei secoli successivi, la funzionalità della chiesa sarà limitata a pochi eventi celebrativi, quali la processione annuale per la festa di San Marco e le messe domenicali.

In epoca napoleonica, San Marco divenne addirittura un deposito di munizioni e una stalla.

Nella seconda metà dell’800, Il Vescovo Cosimo Corsi, con il sostegno finanziario di Papa Pio IX, si adoperò meritoriamente per i restauri della chiesa, affidando l’incarico all’architetto Angelo Angelucci.

Come è noto, con la fine dello Stato Pontificio, il Comune divenne proprietario del bene.

Si devono all’opera silenziosa delle Suore Carmelitane, la custodia e l’officiatura della chiesa, sino ai giorni nostri.

La strada per il rilancio di San Marco è stata aperta. Molte e non facili saranno le tappe del percorso.

Nel frattempo, il Comune ha presentato ufficialmente la candidatura della chiesa per essere inserita nei Cammini Francescani nelle Marche, a ricordo del passaggio del Santo a Jesi, secondo la memoria tramandata nel corso dei secoli.


Mauro Torelli


domenica 14 aprile 2024

mercoledì 6 marzo 2024

Il cuore di Jesi batte forte !

 

Prosegue la campagna di raccolta fondi destinati alla predisposizione del progetto di restauro della chiesa gotica di San Marco.

Immediata è stata la risposta di tanti cittadini, interessati alla salvaguardia a alla valorizzazione di quello che è stato definito dagli studiosi “il più bel monumento di architettura religiosa della città ed uno dei più rappresentativi e compiuti di questo stile nelle Marche” (Fabio Mariano).

Secondo la memoria tramandatasi nel corso dei secoli, San Francesco sostò a Jesi attorno al 1218, proveniente dall’Abbazia di Chiaravalle.

Fu in quella circostanza che la comunità locale dei Benedettini decise di fargli dono del romitorio dedicato a San Marco.

Una fonte documentale del 1244 attesta l’insediamento di una fraternità francescana a San Marco, “presso le mura della città, a distanza del lancio di una pietra (“apud moenia civitatis ad intervallum unius iactus lapidis”).

Il rinnovamento nelle forme attuali - con tre ampie navate, di cui quella centrale suddivisa in cinque campate, coperte da volte a crociera e sorrette da pilastri ottagonali - fu voluto dai Frati Minori nel corso della seconda metà del sec. XIII.

A Giuliano da Rimini è stato attribuito il mirabile ciclo di affreschi (Storie di Gesù e Storie della Vergine) conservatosi solo in parte.

Un’imponente e drammatica Crocifissione accoglie ancora oggi il visitatore, suscitando sentimenti di commossa partecipazione.

E quel Calvario di dolore rappresenta, oseremmo dire, il simbolo della sorte travagliata della chiesa di San Marco nel corso di otto secoli di storia.

A seguito del trasferimento dei Frati all’interno della città murata (San Floriano), San Marco fu abbandonata a se stessa.

Chiusa al culto nel corso del ‘600, la chiesa subì l’ingiuria del tempo e degli uomini: venne prima trasformata in magazzino e, durante il periodo napoleonico, in deposito di munizioni.

Nel 1854 il vescovo Cosimo Corsi affidò incarico all’architetto Angelo Angelucci per l’effettuazione dei restauri, i cui costi furono finanziati da Papa Pio IX.

San Marco fu riconsacrata al culto dal Card. Morichini il 4 aprile del 1860.

Ma appena cinque mesi dopo, il contesto politico registrò un cambiamento epocale, con l’ingresso dell’esercito piemontese a Jesi (15 settembre 1860).

In attuazione dei Decreti del Regio Commissario Generale Straordinario nelle Provincie delle Marche Lorenzo Valerio, la chiesa divenne di proprietà del Comune di Jesi.

Analoga sorte, come è noto, toccò a tanti altri beni ecclesiastici. La Famiglia Francescana fu, in assoluto, la più colpita.

San Francesco al Monte, appartenente ai Frati Zoccolanti, venne demolita e l’annesso convento fece posto al Ricovero, tuttora in funzione.

La chiesa di San Floriano, retta dai Frati Conventuali, venne sconsacrata e nel 1869 diventò sede della biblioteca comunale. I locali dell’ex convento furono trasformati in sede di istituti scolastici.

Il Monastero della SS. Annunziata  diventò sede del Regio Istituto Tecnico Pietro Cuppari.

Per San Marco fu, invece, preservata l’originaria destinazione religiosa, peraltro in una situazione di sostanziale ambiguità gestionale. L’innaturale separazione tra il soggetto proprietario (ovvero il Comune, tipica istituzione aconfessionale) e il soggetto utilizzatore (ovvero la Diocesi) non poteva che innescare scintille e screzi tra le Autorità civile e religiosa di Jesi.

A tale proposito, siamo in grado di rievocare una pagina pressoché inedita della storia jesina, risalente a poco meno di cento anni fa.

Il 30 ottobre 1930 un violento terremoto, di magnitudo 5.8, colpì la zona di Senigallia.

L’evento sismico, che provocò 18 vittime e il crollo di centinaia di edifici, ebbe ripercussioni anche a Jesi provocando gravi lesioni a numerosi edifici pubblici (Palazzo della Signoria, Palazzo Carotti, Residenza Comunale, scuole di Mazzangrugno, Roncaglia, Coppetella, Colle Paradiso, San Floriano) nonché alla chiesa di San Marco.

Il 22 febbraio 1931 Don Ferdinando Senesi, Canonico della Cattedrale e Custode di San Marco, scrisse, in tono deciso, al Podestà della Regia Città di Jesi: “In seguito al moto tellurico del passato Ottobre, cotesto Ufficio Tecnico fece sgombrare la locale Monumentale Chiesa di San Marco. Dovendosi nei giorni 10, 11 e 12 del prossimo Marzo celebrare le tradizionali funzioni per la Solenne Esposizione del Santissimo Sacramento, a scanso di eventuali responsabilità, prego la S.V. compiacersi di farmi assicurare che, nonostante la mancata esecuzione delle necessarie riparazioni, la incolumità delle persone non ne può avere pregiudizio alcuno.

Caso contrario prego vivamente sia provveduto in merito non potendosi lasciare le predette funzioni senza lamento dei fedeli”.

Non conosciamo i contenuti della risposta del Podestà, ma abbiamo visionato una seconda lettera, datata 7 marzo 1931, con la quale Don Ferdinando Senesi si rivolge nuovamente al Podestà per comunicare che, stante l’impossibilità di accedere a San Marco in condizioni di sicurezza, le programmate funzioni religiose sarebbero state celebrate nella “Chiesa comunale di S. Maria delle Grazie”.

Nell’occasione rivolgo viva preghiera perché la S.V. disponga l’esecuzione delle progettate riparazioni al tetto e alle volte di questo Monumentale tempio, in modo che vi si possa celebrare la annuale Festa di San Marco, Titolare della Chiesa, il 24 Aprile prossimo”.

E’ certo che l’auspicio di Don Senesi non poté avverarsi. Soltanto con la deliberazione n. 83 del 21 agosto 1931, il Podestà di Jesi Giuseppe Pace autorizzava l’Ufficio Tecnico Municipale ad eseguire in economia la riparazione di 11 fabbricati comunali (tra cui la Chiesa di San Marco), per una spesa complessiva di Lire 132.065, 77.

All’edificio di San Marco vennero destinate risorse per un importo pari a Lire 15.500.

Il 5 novembre 1932, l’Ingegnere Capo del Comune scrisse al Podestà, con vena sottilmente polemica verso la Diocesi:“In seguito ai lavori di riparazione ai danni, cagionati alla Chiesa di S. Marco dal terremoto del 30 ottobre 1930, lavori or ora ultimati, la Chiesa stessa può essere nuovamente aperta al pubblico.

Nell’occasione non si ritiene del tutto ozioso far presente che un’opera d’arte così insigne, qual è appunto quella Chiesa, meriterebbe di essere valorizzata e non lasciata in completo abbandono, come pur troppo si è praticato per il passato”.

Nel 1946, ad avvenuta conclusione della II guerra mondiale, il Vescovo Carlo Falcinelli autorizzò le Monache Carmelitane ad utilizzare San Marco “per la recita dell’Ufficio Divino, l’assistenza alla Messa e alle sacre funzioni e per l’esercizio delle pratiche di pietà della Comunità intera”, in accordo con Mons. Senesi, ancora nel ruolo di rettore della chiesa.

Ulteriori interventi di restauro, di minore portata, vennero realizzati negli anni Sessanta e negli Ottanta. Le ultime azioni manutentive – riguardanti la ripulitura del paramento murario esterno ed il restauro del manto di copertura – vennero effettuate, a cura del Comune, in occasione del Giubileo del 2000.

A distanza di circa 25 anni, si rendono necessari nuovi interventi manutentivi, a tutela della struttura e dell’apparato pittorico.

E’ indispensabile, allora, poter giungere, in tempi rapidi, alla stesura di un progetto complessivo, da utilizzare per la ricerca di finanziamenti pubblici e privati.

Il cuore di Jesi batte forte!

Mauro Torelli