domenica 17 dicembre 2017

Valleremita: la Porziuncola delle Marche


Il villaggio di Valleremita trae nome dall’antico cenobio benedettino che ospitò, secondo la tradizione, San Francesco (1210) nel suo passaggio a Fabriano.

Nel 1405 passò di proprietà a Chiavello Chiavelli, signore di Fabriano, e forse in quell'occasione si adornò del prezioso polittico di Gentile, che le spoliazioni napoleoniche trasferirono alla costituenda Pinacoteca di Brera nel 1811. 

Passato quindi ai francescani, il convento divenne nel Seicento uno dei maggiori della regione; oggi il fabbricato, riedificato col materiale di spoglio originale conserva un suo innegabile fascino, anche grazie al forte legame che San Francesco ha avuto con Fabriano, come attestano diversi studiosi. L'eremo è immerso nella vegetazione e circondato da un bosco di secolari faggi.

fonte: www.turismo.marche.it






Il polittico è composto da cinque scomparti a doppio registro. Il pannello centrale mostra l'Incoronazione della Vergine con una rappresentazione della Trinità e un coro di angeli musicanti in basso. Questa scena fu disegnata ispirandosi ai mosaici bizantini che Gentile aveva visto a Venezia nella Basilica di San Marco, come dimostra soprattutto l'eterea sospensione nel cielo delle figure, l'astratta parte inferiore e l'abbacinante fondo oro. Come tipico delle migliori opere del pittore, l'oro è poi lavorato con grande maestria e raffinatezza, col disegno di raggi di luce incisi direttamente sulla superficie o con altre tecniche, come nelle decorazioni delle vesti e in altri decori, talvolta resi a rilievo grazie all'uso della "pastiglia" in gesso. La veste di Gesù è poi disegnata su lamina d'argento.
Del tutto nuova è la capacità del pittore di lavorare le superfici, soprattutto gli abiti, dove riesce a trasmettere il senso della diversa consistenza materica, grazie a una stesura a tratti soffici della pittura.
I quattro pannelli laterali ospitano altrettante figure di santi: da sinistra si vedono San Girolamo con un modellino della chiesa in mano, San Francesco d'AssisiSan Domenico e la Maddalena. Queste figure sono poste in un giardino, appoggiate con passo leggero, ma saldo, su un prato fiorito dove sono dipinte svariate specie botaniche con la massima precisione. Tra i brani di virtuosismo pittorico si annoverano la morbida veste di pelliccia bianca della Maddalena o gli espressivi piedi di san Francesco, coperti di soffice peluria. Nella Maddalena è estremamente raffinato il gesto indolente con cui regge l'ampolla degli unguenti, suo attributo tradizionale, indolentemente appoggiata sulla punta delle dita (l'ampolla è incisa nell'oro, non dipinta, come un oggetto della più raffinata oreficeria coeva). Nonostante l'astrattezza di finezze come questa, un'importante novità rispetto agli stilemi del gotico è la saldezza con cui i santi si appoggiano al suolo. Girolamo regge una chiesa gotica, simbolo della Chiesa romana stessa o dell'edificio fatto restaurare. Estremamente tortuoso è il ricadere degli orli dei manti, che creano curve sinuose e ritmate.
L'opera mostra una serie di influenze fabrianesi, lombarde, venete ed umbre, è composta in maniera poco omogenea: l'Incoronazione e i quattro santi nei pannelli laterali hanno un'aria contemplativa, mentre le scene nelle cuspidi sono più concrete, interessate alla caratterizzazione personale dei santi attraverso la scelta degli episodi e delle ambientazioni. L'insieme è comunque equilibrato e dotato di maggiore solidità rispetto alle coeve opere lombarde.


La Maddalena


Nel Martirio di Pietro da Verona la scena è ambientata sullo sfondo di una vivace veduta cittadina, con effetti di resa materica nella giubba dello sgherro, trattata con effetto di denso pointillisme per dare l'idea della lana appallinata. Nella scena il carnefice vibra un colpo di mannaia sul capo del santo. I pannelli di San Giovanni e San Francesco sono speculari e ambientati in un brullo paesaggio collinare quasi identico, che richiamava la religiosità ascetica dei francescani di Val di Sasso, isolati nel proprio eremo. Nel pannello del Battista nel deserto il pittore si concentrò soprattutto nel definire con cura i peli della casacca del santo o i cespugli spinosi, lumeggiati con una visione nitida e lenticolare.I quattro pannelli superiori, entro le cuspidi, mostrano invece San Giovanni Battista in preghiera nel deserto, il Martirio di Pietro da VeronaSanto francescano in lettura e San Francesco che riceve le stimmate.



Polenta francescana!






Il venerabile frate Pierpaolo 






San Giacomo della Marca
Tra la prima e seconda metà del Quattrocento trovarono accoglienza a Valleremita illustri figure di francescani come S. Bernardino da Siena, S. Giovanni da Capistrano e S. Giacomo della Marca.


Nel paese di Valleremita


Il miracolo di Camporege

sabato 2 dicembre 2017

A Sefro, la più antica immagine di San Francesco



SEFRO – La più antica immagine di San Francesco conservata nelle Marche si troverebbe a Sefro. È quanto risulta dalle indagini della studiosa Maria Giannatiempo Lopez, della Soprintendenza per i beni artistici e storici delle Marche, che illustrerà la sua scoperta giovedì 30 novembre alle 16.30 durante il convegno “Francescani nelle Marche tra devozione e contestazione” tenuto all’interno de “I giovedì del Dipartimento” di Studi Umanistici dell’Università di Macerata, il ciclo di incontri aperto al grande pubblico nella sede di corso Cavour.
«Il convegno – spiega Lopez – sarà l’occasione utile per presentare un ciclo di affreschi della Chiesa di San Tossano di Agolla, a Sefro, nei quali, in particolare nell’affresco della parete di fondo, viene inserita la figura di un santo francescano. La tesi di Alfredo Vergani, esperto di storia dell’arte medioevale dell’Università di Macerata, è che si tratti di Sant’Antonio da Padova. I miei studi relativi alla raffigurazione del santo e allo stato devozionale, invece, mi fanno elaborare una tesi contraria alla sua e, cioè, che si tratti della prima raffigurazione di San Francesco».
L’incontro sarà aperto dai saluti del sindaco di Sefro Giancarlo Temperilli, del direttore del Dipartimento Carlo Pongetti, del Ministro provinciale dei Frati Minori delle Marche Ferdinando Campana. «Si tratta di una tesi affascinante – commenta il sindaco Temperilli – che riempie di valore, oltre che artistico anche simbolico e religioso, un luogo senza tempo quale è l’Eremo di San Bernardo da Quintavalle a Sefro e, più in particolare, la chiesetta di S. Tossano di Agolla. Tutto testimonia la presenza della comunità francescana sul nostro territorio, ma non solo. Quell’affresco pare rivelare la prima effigie di San Francesco in assoluto, raffigurata proprio nelle Marche e proprio nel comune di Sefro. Una ricerca e uno studio quindi, che scavando nella storia dei nostri luoghi, può svelare davvero preziosissime sorprese».
Al convegno interverranno anche Raimondo Michetti dell’Università di Roma Tre sul libro “Bernardo da Quintavalle e la tradizione dei compagni di Francesco nelle Marche” e Roberto Lambertini, docente di storia medievale di Unimc, a proposito del libro “I Fratres di Angelo Clareno” di Arnaldo Sancricca. Modera Francesca Bartolacci, Unimc.
fonte: Centro Pagina 28 novembre 2017

mercoledì 29 novembre 2017

Ritratto di San Giacomo


San Giacomo della Marca (1393-1476) spese la sua vita al servizio della Chiesa, divenendone nel XV secolo una delle figure di spicco assieme agli amici Bernardino da Siena e Giovanni da Capestrano, che con lui contribuirono allo sviluppo dell’osservanza francescana e a mantenere viva la fede attraverso una predicazione instancabile. Prima di entrare tra i frati osservanti, che si proponevano di tornare a una stretta osservanza della regola francescana e si trovavano in contrasto con i cosiddetti conventuali (favorevoli a una regola più morbida), il santo si laureò in diritto a Perugia e per qualche anno esercitò come giudice e notaio in Toscana. Entrato in contatto con i francescani, la meditazione sulla Redenzione e sulla bellezza del creato fece sorgere la sua vocazione religiosa.
Dall’insegnamento e dal carisma di san Bernardino trasse la devozione per il Santissimo Nome di Gesù (che contribuì a diffondere), oltre a molti aspetti della  predicazione del maestro, dalle tecniche vocali e gestuali alla struttura del sermone, fino ad alcuni contenuti morali e all’uso di esempi. Giacomo predicò perlopiù in volgare, trattando temi come la superstizione, il lusso, il gioco, la bestemmia e l’usura; in particolare, per aiutare le persone in difficoltà finanziarie e liberarle dagli usurai, promosse i Monti di Pietà, che concedevano prestiti di piccola entità in cambio di un pegno quale garanzia per la restituzione. Il santo trascorreva poi il suo tempo offrendo a Dio continue penitenze, nutrendosi in modo frugale, scrivendo libri, favorendo la costruzione di chiese, conventi e altre opere pubbliche come pozzi e cisterne, e usando la sua competenza giuridica per stendere gli statuti di varie città e proporre la creazione della figura istituzionale del paciere.
Per lo zelo nella cura delle anime e l’erudizione divenne uomo di fiducia di diversi pontefici e tra i numerosi incarichi che gli vennero affidati ci fu anche quello di inquisitore. Contrastò i movimenti ereticali del tempo come i fraticelli (che assoldarono sicari per attentare alla sua vita e a quella di san Giovanni da Capestrano, con il quale condivise spesso le missioni), i bogomili e gli hussiti, percorrendo buona parte dell’Italia centrale e settentrionale e predicando in altre regioni europee come la Boemia, la Bosnia e l’Ungheria. In più occasioni gli fu assegnato il compito di predicare la crociata per difendere l’Europa cristiana dai Turchi, che nel 1456 assediarono Belgrado, venendo poi costretti alla fuga dalle forze riunite sotto la guida del condottiero ungherese Giovanni Hunyadi e di Giovanni da Capestrano.
Nell’ultima fase della sua vita, segnata dalla malattia che unì al sacrificio di Cristo, trovò pure il tempo per fondare una biblioteca nel convento di Santa Maria delle Grazie a Monteprandone, dove raccolse quasi duecento codici (alcuni dei quali copiati di persona), comprendenti testi biblici, esegetici, patristici, uniti a volumi giuridici e degli autori classici. Nel suo calvario ricevette per sei volte il sacramento dell’estrema unzione e morì dicendo: “Gesù, Maria, benedetta la Passione di Gesù”.


fon   La nuova bussola quotidiana 

mercoledì 1 novembre 2017

mercoledì 4 ottobre 2017

Alla scoperta del gioiello nascosto



Voce della Vallesina, 24 settembre 2017


La presentazione del libro, Voce della Vallesina 15 ottobre 2017

"Venite a me, voi tutti !" La Parrocchia di San Francesco in festa






1 ottobre 2017: i frati in compagnia di alcuni esponenti del gruppo folk "La damigiana"




Una delegazione della Fraternità Ofs di San Francesco d'Assisi (da sinistra l'ex Ministra Grazia Rossetti, la Ministra in carica Donatella Filonzi, il diacono Antonio Quaranta, l'ex Ministra Lina Sagramola, Mancini, l'ex Ministra Maria Zenobi)


Un nuovo Parroco per San Francesco

Voce della Vallesina, 24 settembre 2017

domenica 24 settembre 2017

Cupramontana: un calice avvelenato per San Giacomo

San Giacomo della Romita

La chiesa si trova all’interno del convento dei Frati Minori, del secolo XII, intitolato al Beato Giovanni Righi, che qui è sepolto. Ha una pianta ad aula divisa in cinque campate di ampiezza diversa, alle quali segue un grande presbiterio quadrato, quindi il coro e poi l’abside semicircolare. L’ingresso avviene direttamente dall’ampio piazzale antistante, previo passaggio nel nartece. Il complesso del convento si sviluppa su due piani fuori terra, ha struttura in muratura e prospetti in laterizio.
La zona di ingresso, e quindi la facciata principale, è caratterizzata da un nartece a tre fornici con campate a volta a crociera; questo elemento contribuisce ad alleggerire il fronte in laterizio che si presenta con questo avancorpo porticato, dotato di tre finestre al livello superiore e di una copertura a falda unica, parallela al profilo della facciata. Il corpo della navata emerge al di sopra del tetto del nartece e mostra la sua tripartizione ad opera di lesene, che sostengono l’architrave del timpano di coronamento; la grande specchiatura centrale è dominata da una finestra di stile misto tra Cinquecento e Settecento.
L’interno della chiesa è scandito da una fitta articolazione volumetrica dei muri longitudinali, lungo i quali si alternano per ogni campata nicchie diverse sia per forma che per dimensione. Le più grandi, due su ogni lato, sono strutturate per contenere delle pale d’altare, e in alto vi corrispondono delle aperture di grandi finestre. Il catino absidale e la volta a botte ribassata della navata sono realizzate in cannicciata, posta a coprire la struttura a capriate del tetto. La composizione architettonica dell’interno è caratterizzata dalla distinzione della parte inferiore da quella superiore per mezzo di un alto architrave composito, che sembra essere sostenuto dalle tante paraste con stilobate e capitello. La parte superiore della chiesa è segnata dalla prosecuzione di questi elementi in forme però più semplici. Degno di nota è il bellissimo coro ligneo alle spalle dell’altare, separato da quest’ultimo attraverso un tendaggio.


Tra i tanti spazi che fanno parte del convento va evidenziata una deliziosa cappella ad aula, collocata in senso perpendicolare al muro sinistro della chiesa e accessibile da questa attraverso una scala che scende alla sua quota di calpestio. Qui vi è sepolto il Beato Righi. La cappella è stata realizzata e costruita da Angelo Sandroni.
Il convento di San Giacomo della Romita era un priorato monastico camaldolese ed è anteriore al secolo XIII. L’annessa chiesa è quindi anteriore al secolo XII. Romita indica tutto il territorio che ha come asse la strada che porta al convento stesso. Nel 1426 il priore don Venanzo accolse nel convento San Giacomo della Marca. I Francescani presero possesso del monastero nel 1452; la chiesa era in pessime condizioni e così, all’inizio del XVI secolo, i Francescani la ricostruirono decorandola anche con un bellissimo quadro in terracotta, opera di Pierpaolo Agabiti, rappresentante la Madonna, San Giuseppe e San Giacomo della Marca. Negli anni 1516/1517 trascorse nel convento il suo periodo di noviziato Ludovico Tenaglia da Fossombrone, iniziatore della riforma cappuccina. Nel 1539 morì nel convento il Beato Giovanni Righi da Fabriano, dopo avervi condotto un’austera vita di solitudine, di preghiera e di penitenza. Il corpo del Beato riposa ancora nella chiesa annessa al convento. Nel secolo XVIII i religiosi Osservanti cedettero il posto ai Riformati, che nel 1782 rinnovarono completamente la chiesa su disegno del frate camaldolese Padre Apollonio Tucchi, eremita del vicino Eremo delle Grotte. 
I lavori durarono dal 1782 al 1786. Con il decreto napoleonico di soppressione degli ordini religiosi del 25 aprile 1810 i religiosi furono espulsi. Il convento, con gli annessi orto e selva, fu acquistato da un tale Antonio Beutherin, francese domiciliato ad Ancona. I religiosi tornarono nel convento nel 1817, ma solo nel 1828 si potè recuperare una parte dell’edificio con un tratto di terra per l’orto. L’eremo, insieme alla chiesa, venne chiuso per decreto del 7 luglio 1866, e i monaci furono nuovamente cacciati a forza. Quando vi tornarono non trovarono molti dei loro beni, compresa la ricca biblioteca. Fortunatamente l’esilio durò un tempo limitato: convento e chiesa furono riaperti l’11 giugno 1874. Alcuni restauri eseguiti in quegli anni resero il convento come lo si vede oggi. 
Una targa posta sulla pavimentazione esterna sotto al nartece ricorda il rifacimento della stessa nel 1955, con il contributo della Cassa di Risparmio di Cupramontana. Il forte terremoto che colpì l’Umbria e le Marche nel 1997 arrecò notevoli danni sia alla chiesa sia al convento stesso; si resero pertanto necessari lavori di recupero e ripristino. Nel 2000 terminarono i lavori di restauro e ristrutturazione dell’intero complesso, in particolare della chiesa, anche internamente. Con l’occasione è stata rivista la situazione impiantistica all’interno dell’edificio di culto, con il rifacimento degli impianti elettrico e di illuminazione.
fonte: http://www.iluoghidelsilenzio.it/chiesa-di-s-giacomo-della-romita-cupramontana-an/

“Dum enim sanctissimus noster papa Nicolaus V, 1449, de mense novembris, miserat venerabilem patrem fratrem Ioannem de Capistrano et me fratrem Iacobum de Marchia, ordinis minorum, ad reducendum illa castra haeretica Maioreti, Massatii, Podii et Meruli – quae reducta sunt ad gremium fidei et abiurata sunt in manibus nostris…” (Dialogus contra fraticellos, n.111)

Dunque, nel 1449, Jacobus de Marchia, ovvero S. Giacomo della Marca, si trovava a Jesi insieme a Giovanni da Capestrano. Quell’anno segna la vittoria finale sulla setta eretica dei “fraticelli”, diffusa nella Vallesina, con insediamenti particolarmente consistenti a Maiolati, Poggio Cupro, Mergo e Massaccio (l’odierna Cupramontana).

L’opera di “normalizzazione” – culminata con la condanna al rogo di circa una decina di fraticelli – era iniziata 25 anni prima. Per combattere la setta, Giacomo aveva incardinato un gruppo di francescani nel monastero camaldolese della Romita, con lo scopo di presidiare la zona.

Ma chi erano e cosa volevano i tanto temuti fraticelli?

Chiamati anche Michelisti (dal nome di Michele da Cesena che abbiamo già conosciuto come superiore generale dell’Ordine, poi scomunicato e proscritto) in nome della Povertà, avevano assunto atteggiamenti di aperta ribellione contro la Chiesa, ormai considerata retta da Papi illegittimi, a partire da Giovanni XXII (morto nel 1334) accusato di simonia.

E’ lo stesso Giacomo della Marca che nel celebre “Dialogo contro i fraticelli”, immaginando uno scontro dialettico tra un cattolico e un fraticello, fa dire a quest’ultimo: “Noi vedemo che li primi fundatori de la fede cristiana fondarno la sancta chiesa in omne sanctita insegnando et ammaestrando cum parole et cum facti, como se devesse desiderare et abracciare le cose celestiale et rinunciare et desprecare le cose terrene. Et non adunando et multiplicaro tanti campi, tante possessione et ricchece, ne le quale et per le quale la mente humana se suffoca et perisce, si como fanno oggedi li prelati ecclesiastici. Noi honoramo Cristo et li suoi apostoli dicendo et tenendo che loro non havero alcuna cosa, ma como homini celestiali cercavano solo le cose celestiale et non lecose terrene como homini terreni” (nn. 64 e 82).

Tali posizioni di radicale fedeltà al Vangelo, secondo la storiografia di tendenza ecclesiastica non vennero suffragate da comportamenti coerenti.

A Cupramontana, in via Bovio, sono tuttora riconoscibili i resti di un antichissimo edificio (probabilmente un serbatoio dell’acquedotto di epoca romana) tradizionalmente chiamato “barlozzo”; secondo la leggenda tale edificio era luogo di notturno convito dei fraticelli per celebrare cerimonie orgiastiche.
Giacomo accredita, in capo agli eretici, la nomea di empietà: “Io frate Giacomo, dell’Ordine dei Frati Minori, grido a tutto il mondo e testifico di fronte a Dio che tutti questi fraticelli contro i quali io e frate Giovanni da Capestrano fummo inquisitori, li abbiamo riscontrati che sono scellerati, fornicatori, sodomiti e abili ingannatori di donne, sebbene alla faccia delle persone appariscano uomini santi e celestiali”.

Proprio a Cupramontana, i fraticelli tentarono di assassinare S. Giacomo propinandogli del vino avvelenato durante la Messa: al momento della Consacrazione, tuttavia, la testa di un serpente si disegnò sul fondo del calice.

Il francescano provvidenzialmente si avvide del pericolo ed ebbe salva la vita.

Uguale sorte non era toccata, venti anni prima, ad Angelo da Massaccio, altro implacabile difensore dell’ortodossia, il quale morì martire per mano dei fraticelli l’8 maggio del 1429.

Chiostro del Beato Angelo


Di rilevante interesse è lo stralcio di un verbale relativo ad un processo tenutosi a Roma nel 1466 contro alcuni eretici (fonte: codice vaticano latino 4012): tra i fraticelli sottoposti ad inquisizione all’interno di Castel S. Angelo (per lo più mediante utilizzazione di sistemi di tortura) spicca la figura di Niccolò da Massaccio, assurto ai vertici della gerarchia della setta con il titolo di Vescovo.

Sono ben 17 i capi di imputazione che i Commissari dell’Inquisizione (Stefano, Arcivescovo di Milano, Roderigo, Vescovo di Zamora, Niccolò, Vescovo di Lesina e frate Giacomo di Egidio, maestro di Sacro Palazzo) contestano al Vescovo dei fraticelli.

In particolare, vengono chieste spiegazioni in merito all’empio rito del “barilotto” ed alla cerimonia cosiddetta delle “polveri”.

Niccolò da Massaccio conferma il carattere orgiastico della pratica del barilotto: dopo la celebrazione della Messa eretica, spente le luci e pronunciate le parole “Alleluia, alleluia”, ogni fraticello si congiungeva carnalmente con una donna, ritenendo di compiere atto supremo di carità.
Quanto alle “polveri”, pare che tale rito assumesse i connotati dell’infanticidio: “I fraticelli, riuniti in una chiesa, sinagoga o luogo, talvolta accendevano un grande fuoco, ponendosi intorno a circolo, e prendevano un bambino nato tra loro e concepito nei detti adulteri; intorno a quel fuoco si passavano il bambino di mano in mano l’un l’altro fino a che questo rimaneva morto ed essiccato, e quindi ne facevano polvere, la ponevano in un recipiente da vino e al termine della loro perversa messa ne davano da bere ai presenti”.

E’ da rilevare, peraltro, che tali agghiaccianti descrizioni, estorte mediante metodi coercitivi, sono accolte con riserva dagli storici. Purtroppo il panorama delle fonti è pressoché unilaterale e risulta alquanto problematica una ricostruzione obbiettiva dei fatti.

Resta il fatto che il repertorio delle accuse rivolte ai fraticelli (antropofagia, licenze sessuali e omicidi rituali) costituisce uno stereotipo utilizzato in sede inquisitoria anche contro altre esperienze ereticali.

In epoca recente, lo scrittore cattolico inglese Gilbert Keith Chesterton (1874-1936) ha espresso un giudizio durissimo in merito all’esperienza dei fraticelli:

“I Fraticelli si dichiararono i veri figli di San Francesco e si sottrassero alle condizioni imposte da Roma, in omaggio a quello che chiamavano << il programma completo di Assisi>>. In pochissimo tempo, questi bislacchi francescani apparvero feroci come i Flagellanti. Lanciavano violenti anatemi, denunciavano le unioni matrimoniali, minacciavano l’umanità. In nome del più umano fra i santi, dichiaravano guerra al genere umano.
Non fu la persecuzione ad annientarli: alcuni, alla fine, si convertirono e gli altri non realizzarono niente che avrebbe potuto, seppure lontanamente, ricordare il vero San Francesco. Quella gente era formata da mistici, che non erano null’altro che mistici; mistici ma non cattolici, mistici ma non cristiani, mistici ma non uomini.
E deviarono dalla giusta via, perché non vollero ascoltar ragione, nel vero senso della parola”.

(Mauro Torelli, 800 anni, ma non li dimostra)



A poche centinaia di metri dal convento sgorgano le Fonti della Romita (anche conosciute come del Coppo) intorno alle quali si svilupparono per decenni fiorenti attività ricreative e turistiche.


La situazione attuale del bar presso le Fonti

domenica 17 settembre 2017

Sul Monte San Vicino




Sotto il profilo meteorologico, l’estate del 2017 verrà ricordata per il caldo torrido che ha caratterizzato la maggior parte delle giornate di giugno, luglio e agosto e per l’assenza di precipitazioni significative.

La ricerca del refrigerio ha spinto gli abitanti della Vallesina verso le mete tradizionali: in primo luogo la costa adriatica ma anche le alture dell’entroterra.

Il monte San Vicino, con i suoi 1480 metri, ha offerto una soluzione “low cost” per quanti non hanno potuto raggiungere le località alpine.

Quest’anno, per di più, il San Vicino è assurto a maggior notorietà per essere stato incluso tra le tappe della tournèe musicale di RisorgiMarche, promossa dall’attore Neri Marcorè.

D’altra parte, per chi risiede a Jesi e nei Castelli, l’inconfondibile profilo montano “a forma di elmo”, rappresenta un riferimento familiare durante le varie stagioni dell’anno.

Insieme alla Gola della Rossa, il San Vicino costituisce il fondale naturale della vallata del fiume Esino ed è particolarmente apprezzato per la suggestione dei paesaggi e la ricchezza dei boschi, meta di frequenti escursioni domenicali.

Non a caso, il monte ha ispirato, nel corso dei secoli, pittori e poeti della nostra terra.
Il cuprense Luigi Bartolini, celebre autore di “Ladri di biciclette” gli dedicò, nel 1959, un nostalgico racconto dal titolo "Se scoppiasse una nuova guerra":
E', tale, la montagna che, nelle Marche, sa d'eliconio Parnaso; io lo conosco di già, da tanti anni: da quando ero fanciullo. Oh, come lo conosco bene per il suo lungo ed il suo largo! Nonché per i suoi mille metri d'altezza sopra il paese di Frontale”. 

Ma il San Vicino è anche luogo di spiritualità, legato indissolubilmente alla storia dei Camaldolesi e al loro fondatore San Romualdo che a Valdicastro morì attorno al 1027.

Meno conosciute, ma altrettanto significative, sono le memorie di impronta francescana che si possono scoprire nel territorio del monte.

Un’antica tradizione accredita la presenza di San Francesco d’Assisi in una grotta, a doppio ingresso, situata sul versante sud occidentale alla quota di circa 1250 m, al di sopra della fascia rocciosa che si erge al limitare del bosco.
Un ambiente angusto, di quattro o cinque metri di profondità ed altrettanti di altezza, raggiungibile da Elcito mediante il sentiero n. 173 B.

Non esiste prova certa del passaggio del Santo,  ma è quanto mai attendibile la presenza dei suoi seguaci nella zona.

Il capitolo 42 dei  Fioretti - testo mirabile della prima letteratura italiana composto alla fine del Trecento – racconta la vicenda miracolosa di Frate Bentivoglia di San Severino il quale “dimorando ad Trave Bonanti (Ponte la Trave, a sud di Camerino), solo, ad guardare et servire ad uno lebbroso, avendo comandamento dal prelato (di) partirsi quivi et andare a un altro luogo, lontano da quello quindici miglia, non volendo abbandonare lo lebbroso, con gran fervore di carità se lo puose in su la spalla, portandolo da l’aurora fino al levare del sole per tutta quella via di quindici miglia, fino al detto luogo ov’era mandato, che si chiama monte San Vicino: quale viaggio, essendo stato un’aquila, non aria possuto sì presto volare. Et di questo divino miracolo fu sì grande stupore e ammirazione ad tutto quel paese (codice Bibl. SS. Apostoli.ms.XIV.C.XXI. , a cura di Mariano da Alatri).


Nel XIV secolo, una comunità di Clareni (impegnata, su impulso del predicatore Angelo Clareno, per il ritorno alla stretta osservanza della regola francescana,) si insediò nell’eremo di San Giacomo a Braccano, località situata sul versante matelicese del monte.

Nell’aprile del 1529, alle pendici del San Vicino in località Acquarella, si svolse il primo capitolo generale dei frati Cappuccini, durante il quale vennero redatte le costituzioni della nuova congregazione, nata a seguito di una scissione dal movimento francescano dell’Osservanza.

Nella tradizione religiosa universale, la salita in montagna viene considerata come il simbolo dell’ascesi, un viaggio interiore  che richiede coraggio e resistenza, capacità di ascolto e di silenzio, solidarietà e fiducia in se stessi e nei compagni che, insieme con noi, condividono la fatica del sentiero.

Al termine del periodo estivo, l’augurio è che possiamo sperimentare del salmista: “Sollevo gli occhi verso i monti: da dove mi verrà l’aiuto? Il mio aiuto viene dal Signore: egli ha fatto cielo e terra” (Salmo 121).

Mauro Torelli (Voce della Vallesina, 3 settembre 2017)