lunedì 30 settembre 2013

La deposizione del Lotto

"Troveremo dipinto il monogramma YHS (iniziali maiuscole delle lettere greche iota, eta e sigma)  al vertice della celebre Pala della Deposizione  realizzata  nel 1512 da Lorenzo Lotto proprio su commissione della Confraternita del Buon Gesù.



La realizzazione dell’opera d’arte  è legata ad una curiosa vicenda contrattuale: inizialmente la Confraternità aveva commissionato la Deposizione a Luca Signorelli, pattuendo esplicitamente con il pittore l’obbligo di svolgere il lavoro a Jesi  (ovverosia sotto il diretto controllo dei committenti).



Tale clausola aveva lo scopo di impedire che l’opera venisse realizzata da mano diversa rispetto a quella del maestro designato! 



Il Signorelli, chiamato successivamente in Vaticano per decorare alcune stanze pontificie, preferì rinunciare all’incarico della Confraternità, in quanto evidentemente meno prestigioso.



Quella di Lorenzo Lotto fu, dunque, per la Confraternita, una scelta, per così dire, di “ripiego”, favorita probabilmente da una segnalazione dell’umanista jesino Angelo Colocci, all’epoca Segretario Apostolico presso la Curia Romana ed estimatore delle doti artistiche del pittore veneziano.



La Pala - straordinario capolavoro oggi  esposta nella Pinacoteca Civica di Palazzo Pianetti -  rende chiara testimonianza del grande ruolo acquisito dalla Confraternita di ispirazione francescana, la cui azione si indirizzò anche sul versante dell’assistenza sanitaria fino alla soppressione decretata nel 1781, dopo oltre tre secoli e mezzo di attività."

dal libro: "800 anni, ma non li dimostra!" (seconda edizione, 2010), capitolo: "Nel nome di Gesù"


"La Deposizione di Jesi, è chiaramente ispirata al modello della Deposizione Borghese di Raffaello, dove verifichiamo lo stesso problema: il numero dei personaggi si pone drammaticamente intorno al corpo di Cristo, la Madonna alza le braccia secondo lo schema raffaellesco, ma quello che al pittore viene meno, in questa sua volontà di confrontarsi fino in fondo anche con la punta più avanzata della civiltà figurativa del momento, avendo sperimentato tutto il resto, è il senso dell'azione drammatica, del movimento che è risolto non solo da Raffaello o da Michelangelo, anche da Tiziano". 

Vittorio Sgarbi, Piene di grazia, Bompiani




"Ci sono artisti che devono attendere secoli per essere compresi, e questo per certi versi è la misura della loro resistenza, la capacità di non esaurirsi nel tempo in cui sono vissuti, ma è anche la dimostrazione che l'avanzamento della ricerca aggiunge qualcosa alle opere rispetto a quello che esse apparivano o sono state.
Lorenzo Lotto condivide con Caravaggio di essere un pittore del Novecento: questa affermazione potrà stupire, perchè sembra pertinente per De Chirico e Moorandi o Sironi, artisti che hanno vissuto il Novecento. Alcuni artisti però sono stati pienamente compresi nel Novecento: ed è questo il caso di Lorenzo Lotto come di Caravaggio.
Il tempo dell'arte non corrisponde al tempo reale, è bensì un tempo interiore che il filosofo Henri Bergson ha indicato, negli anni dell'Impressionismo, come un tempo che non si misura con l'orologio.
In questa prospettiva, l'ora di Lorenzo Lotto coincide con l'ora di Sigmund Freud e con l'inizio della psicoanalisi. 
Ordinando la pittura del Rinascimento, Bernard Berenson dedicò particolare attenzione a Lorenzo Lotto, mantenendo una distanza che, alla fine degli anni Cinquanta, gli fa dire di essere ben consapevole che Tiziano era più grande di Lotto. Quando poi gli toccò di scrivere "I pittori del Rinascimento" dedicò sei pagine a Tiziano e soltanto una e mezza a Lorenzo Lotto. Probabilmente Berenson sbagliava, perché  è vero che l'impresa di Lotto è più ristretta, o perlomeno è psicologicamente più delineata, rispetto alla rappresentazione del mondo di Tiziano, in cui ogni emozione è contemplata e ogni sensibilità è indagata. In Lorenzo Lotto tutto è più confinato. Ma per Lorenzo Lotto tutto ciò che è confinato non è meno universale, anche perché arriva più in profondità rispetto a Tiziano, come è proprio della psicoanalisi. Chi si sottopone ad analisi da parte di uno picoanalista tenta di risolvere un nodo che non è sciolto dentro di sé, qualcosa che riguarda l'esistenza. Lorenzo Lotto, in questo senso, è il primo pittore psicoanalista. Guarda nel cuore degli uomini e cerca di capire qual è il nodo di dolore che è dentro di loro, l'ansia, la sofferenza, il desiderio. Sostare davanti a un quadro di Lorenzo Lotto dà un emozione perfino più forte, certamente più sottile, di quella che offre la contemplazione di un'opera di Tiziano".

Vittorio Sgarbi, "Lorenzo Lotto. I volti e l'anima", L'Artistica editrice, 2013 

domenica 29 settembre 2013

Alla Romita per l'VIII giornata diocesana della custodia del creato

Voce della Vallesina, 22 settembre 2013

Cronaca della giornata (Voce della Vallesina, 13 ottobre 2013)

sabato 28 settembre 2013

800 anni


800 ANNI, MA NON LI DIMOSTRA!


breve storia del francescanesimo jesino
da Crescenzio Grizi ad Oscar Serfilippi   

                                                            a cura di Mauro Torelli                                  
                                                          
                                                          
                                                        
                                                         
                                                                                        in ricordo di Padre Alberto M. Teloni,
                                                                                            educatore gigante (in tutti i sensi)




PREFAZIONE ALLA SECONDA EDIZIONE


La benevola accoglienza ricevuta, nel 2009, da “800 anni, ma non li dimostra!”, ha convinto il recalcitrante autore a ritornare a lavorare per una seconda edizione.
Il volumetto che avete tra le mani non è la semplice ristampa della prima edizione, quanto, piuttosto, l’esito di una rivisitazione della stesura originaria con l’inserimento di nuovi capitoli, l’arricchimento contenutistico di diversi paragrafi,  la correzione di alcuni refusi.
Intatte rimangono le finalità divulgative, l’impostazione concettuale  e, soprattutto,  la caratura dilettantistica di chi ha scritto!

Un rinnovato augurio di buon viaggio nella storia del francescanesimo jesino.

Jesi, novembre 2010

        800 anni,  noi dimostra!
 di Mauro
LA MEMORIA DEL PASSATO

Otto secoli fa, in un paese dell’Umbria,  un giovane della borghesia mercantile di nome Francesco, poco più che ventenne ed in piena crisi esistenziale, decise di mettersi alla ricerca dell’Assoluto.
Fra la derisione dei compaesani e lo sconcerto del padre Bernardone, trovò il coraggio di denudarsi nella piazza di Assisi e di baciare un lebbroso incontrato sulla via: da quel momento la sua esistenza fu segnata per sempre dall’Amore.
Nel 1209,  Francesco volle recarsi a Roma con i suoi primi undici compagni per ottenere un riconoscimento ufficiale da parte del Signor Papa : Innocenzo III, dopo un’iniziale esitazione,  lo incoraggiò a perseverare nel cammino intrapreso. 
Nell’arco temporale di appena dodici anni i  frati divennero più di 5.000 e a loro si aggiunsero Chiara con le vergini consacrate e una moltitudine di laici desiderosi di seguire Francesco nel suo stile di vivere il Vangelo alla lettera.
La diffusione del movimento fu impetuosa ed inarrestabile!
In particolare, la terra marchigiana, confinante con l’Umbria, fu subito conquistata dal carisma del Santo di Assisi: veramente, come scrisse lo storico Sabatier, “la Marca d'Ancona doveva divenire e  rimanere la provincia più francescana di ogni altra”.
Anche la città di Jesi accolse il messaggio di Francesco e divenne, in breve tempo, il più importante centro di irradiazione per la Vallesina.
E questo si verificò, si noti bene, in una realtà socio-ambientale attraversata da correnti di matrice ghibellina, fortemente ostili alla Chiesa istituzionale.
Secondo lo storico Urieli, il sentimento anticlericale costituisce “una componente atavica, ancestrale, essenziale dello spirito jesino” e può essere fatta risalire addirittura “agli albori stessi della vita del libero Comune”.
Eppure sarebbe ingiusto sottovalutare  o,  addirittura,  dimenticare il ruolo di un’altra componente della storia locale ovvero quella che, sempre Urieli,  definiva “sacrale” o “religiosa”: “una religiosità che influiva nella realtà locale, in ogni suo aspetto e in ogni momento, ma che non si traduceva mai in un atteggiamento clericale; che anzi potrebbe definirsi laico, quando non laicista, mentre la Chiesa Romana era vista e considerata più come entità politica e regime dominante, meno come realtà mistica”.
In questo contesto, un ruolo centrale è esercitato dal movimento che si ispira a Francesco di Assisi.
La simpatia suscitata universalmente dai frati è motivata dall’impronta popolare del carisma francescano: “I frati devono godere quando vivono in mezzo alle persone vili e disprezzate, fra i poveri, i deboli, gli infermi, i lebbrosi e coloro che stanno a mendicare lungo la strada” (FF 194).
Sin dalle origini del francescanesimo, Jesi diventerà il crocevia di personaggi e avvenimenti di fondamentale rilievo.
Per il numero e l’importanza di quanti (frati conventuali e osservanti, riformati e cappuccini, minori, clarisse e terziari), in 800 anni, hanno tramandato l’ideale di Francesco nella nostra città, non è, dunque, azzardato parlare di una storia del francescanesimo jesino.

* * * * *

L’autore di questo scritto non è uno storico di professione, quanto piuttosto un semplice cultore della materia, con una predilezione per le vicende locali.
Essere stato allievo di  Don Costantino Urieli (lui sì, vero e indimenticato storico di spiccato profilo) ha consentito, a me come ad altri compagni di Liceo, di coltivare la passione per la storia della nostra terra.
L’idea di scrivere l’opuscolo che avete sotto gli occhi, è scaturita dalla constatazione dell’estrema frammentarietà delle fonti di conoscenza in tema di francescanesimo locale.
Tale situazione comporta oggettive difficoltà nella ricostruzione delle vicende del movimento.
Il tentativo è stato quello di “cucire” una serie di informazioni disseminate in una pluralità di documenti, di livello e provenienza diversificati.
Lo stile vuole essere, quanto più possibile, divulgativo (termine che non ha nulla da spartire con approssimativo), ovvero di agevole lettura, di facile comprensione, non riservato agli addetti ai lavori.
Ovviamente - ma non è inutile sottolinearlo - tale scelta stilistica non vuole pregiudicare in alcun modo  l’attendibilità dei contenuti e la serietà della ricerca.
Il lavoro è articolato in due parti, tra loro interconnesse: nella prima viene presentato un excursus della storia del movimento francescano dalla morte del fondatore (1226) alla riforma cappuccina (1528).
Trattasi, in larga misura, di vicende – talvolta anche drammatiche - che si sono svolte nelle Marche, a conferma della “vocazione” francescana di questa regione, non a caso definita la “Terra dei Fioretti”.
La seconda parte è interamente dedicata alla storia locale, a partire dal Ministro generale dell’Ordine Crescenzio Grizi (XIII secolo) fino a Padre Oscar Serfilippi (2006).
I due capitoli  vanno letti “in parallelo”, in considerazione dei ripetuti richiami alle vicende nazionali e locali.
Sotto il profilo metodologico si è cercato di assimilare l’autorevole lezione di Marc Bloch, secondo cui l’analisi cronologica di un fenomeno storico, sia pur collocato all’interno di un territorio di dimensioni circoscritte, assume comunque una valenza paradigmatica rispetto alla complessità.
Sotto il profilo pratico, accettando il rischio delle omissioni, si è deciso di "contenere" la ricerca in appena 40 cartelle e ciò al fine di non atterrire i nostri 25 lettori!
Buon viaggio nella storia!
Jesi, dicembre 2009























                                                           
                                      

PARTE PRIMA
LA PROVINCIA FRANCESCANA
PER ECCELLENZA



ANNO DOMINI 1208: DUE PAZZI SI AGGIRANO PER LA MARCA



Francesco unitamente a Egidio andò nella Marca di Ancona, gli altri due (Bernardo e Silvestro) si posero in cammino verso un'altra regione. Andando verso la Marca, esultavano giocondamente nel Signore. Francesco, a voce alta e chiara, cantava in francese le lodi del Signore, benedicendo e glorificando la bontà dell'Altissimo. Tanta era la loro gioia, che pareva avessero scoperto un magnifico tesoro nel podere evangelico della signora Povertà, per amore del quale si erano generosamente e spontaneamente sbarazzati di ogni avere materiale, considerandolo alla stregua di rifiuti.
 
E disse il Santo a Egidio: “ Il nostro movimento religioso sarà simile al pescatore, che getta le sue reti nell'acqua e cattura una moltitudine di pesci, poi, lasciando cadere nell'acqua quelli piccoli, ammucchia nelle ceste quelli grossi ”. Profetava con questa similitudine l'espansione del suo Ordine.

L'uomo di Dio non teneva ancora delle prediche al popolo ma, attraversando città e castelli, tutti esortava ad amare e temere Dio, a fare penitenza dei loro peccati. Egidio esortava gli uditori a credere nelle parole di Francesco, dicendo che dava ottimi consigli.
 Gli ascoltatori si domandavano l'un l'altro: “ Chi sono questi due? cosa ci stanno dicendo? ”. A quei tempi l'amore e il timor di Dio erano come spenti nei cuori, quasi dappertutto; la penitenza era ignorata, anzi la si riteneva una insensataggine. A tanto erano giunte la concupiscenza carnale, la bramosia di ricchezza e l'orgoglio, che tutto il mondo pareva dominato da queste tre seduzioni diaboliche. Su questi uomini evangelici correvano perciò opinioni contrastanti. Alcuni li consideravano dei pazzoidi e dei fissati; altri sostenevano che i loro discorsi provenivano tutt'altro che da demenza. Uno degli uditori osservò: “ Questi qui o sono uniti a Dio in modo straordinariamente perfetto, o sono dei veri insensati poiché menano una vita disperata: non mangiano quasi niente, camminano a piedi nudi, hanno dei vestiti miserabili ”.
Ciò nonostante, vedendo quel modo di vivere così austero eppure così lieto, furono presi da trepidazione. Nessuno però osava seguirli. Le ragazze, al solo vederli da lontano, scappavano spaventate, nella paura di restare affascinate dalla loro follia.
Percorsa che ebbero quella provincia, fecero ritorno al luogo di Santa Maria
(Leggenda dei tre compagni 33,34).

A distanza di ottocento anni, nella Vallesina sono ancora visibili tracce alquanto significative dei passaggi del Santo.
Presumibilmente nel 1210,  Francesco ed Egidio provenienti da Valleremita,  si diressero al monastero benedettino di S. Urbano dell’Esinante;  i monaci, conquistati dal fervore spirituale dei due pellegrini, posero a  loro disposizione un'area boscosa situata nei pressi del castello di Favete, a due miglia da Apiro.
Nella zona saranno, in seguito, realizzati un conventino e una chiesetta in pietra dedicata a S. Francesco (oggi in condizioni fatiscenti, dopo il terremoto del 1997) sulle cui pareti è ancora parzialmente visibile un pregevole affresco del 1490 con i ritratti della Madonna che allatta Gesù, affiancati da San Francesco e S. Antonio.












                                                       

Proseguendo il viaggio verso il fiume Musone, un’altra tappa del percorso fu la contrada delle Crocette, nel territorio di Staffolo. I due frati, stanchi per il cammino, ebbero il desiderio di dissetarsi e pregarono il Signore per il dono di sorella acqua.
Secondo la tradizione, dalla terra scaturì, per miracolo, una polla d’acqua ancora oggi zampillante.
Nel 1244, il Ministro Generale dell’Ordine  Crescenzio Grizi, di cui tratteremo in un paragrafo successivo, fece apporre, sul luogo del prodigio, una lapide con il seguente contenuto:
Hanc (aquam) eduxit oratio B. Francisci
cum Frate Aegidio precantis
anno Domini 1210
Frater Crescentius de Aesio
fieri fecit A.D. 1244

Questa (acqua) fece scaturire la preghiera del beato Francesco in preghiera insieme a frate Egidio nell’anno del Signore 1210. Frate Crescenzio da Jesi fece realizzare (questa lapide) nell’anno del Signore 1244.
In prossimità della sorgente, luogo di frequenti pellegrinaggi per gli effetti benefici di quell’acqua, nel 1796 fu edificata un’umile chiesa, in onore del Santo di Assisi.
La “follia” di Francesco fu straordinariamente contagiosa! In meno di 20 anni da quel primo viaggio il numero degli insediamenti si moltiplicò a dismisura.
Nel 1226, anno della morte del Santo, il movimento francescano era già organizzato in sei Province religiose: la Thuscia (Toscana, Umbria, Sabina e Lazio), la Lombardia (da Rimini alle Alpi), la Terra Laboris (Abruzzo e Campania), l’Apulia (Capitanata, Terre di Bari, Lecce e Otranto), la Calabria (unitamente alla Sicilia) e la Marca Anconetana (dal Tronto al Foglia con  Massa Trabaria e il Montefeltro).
Quest’ultima Provincia, nonostante la limitatezza del territorio, poteva già annoverare oltre trenta Fraternità: Acquaviva, Ancona, Ascoli Piceno, Camerino, Castel d’Emilio, Castiglioni d’Appignano, Cessapalombo, Civitanova, Fabriano, Falerone, Fano, Faggiola di Macerata Feltria, Favete di Apiro, Forano, Fratterosa, Jesi, Lunano, Massa Fermana, Matelica, Mercatello, Mondaino, Mondavio, Montalto, Mombaroccio, Montefalcone, Morrovalle, Polesio detto poi Poggio Canoso, Pontelatrave, Recanati, Saltara, San Leo, Roccabruna di Sarnano, Sirolo, Venarotta  e forse Osimo, Penna e Pesaro.
Ma proprio nelle Marche emersero, come vedremo, le prime profonde inquietudini provocate da divergenti interpretazioni della volontà del fondatore.
Nel suo Testamento, Francesco, dopo aver ripercorso con commozione le origini della sua straordinaria esperienza, aveva formulato chiare indicazioni operative per il futuro dell’Ordine:
 “E dopo che il Signore mi dette dei frati, nessuno mi mostrava che cosa dovessi fare, ma lo stesso Altissimo mi rivelò che dovevo vivere secondo la forma del santo Vangelo. Ed io la feci scrivere con poche parole e con semplicità, e il signor Papa me la confermò.
E quelli che venivano per abbracciare questa vita, distribuivano ai poveri tutto quello che potevano avere, ed erano contenti di una sola tonaca, rappezzata dentro e fuori, del cingolo e delle brache. E non volevamo avere di più.
Noi chierici dicevamo l'ufficio, conforme agli altri chierici; i laici dicevano i Pater noster, e assai volentieri ci fermavamo nelle chiese. Ed eravamo illetterati e sottomessi a tutti.
Ed io lavoravo con le mie mani e voglio lavorare; e voglio fermamente che tutti gli altri frati lavorino di un lavoro quale si conviene all'onestà. Coloro che non sanno, imparino, non per la cupidigia di ricevere la ricompensa del lavoro, ma per dare l'esempio e tener lontano l'ozio.
Quando poi non ci fosse data la ricompensa del lavoro, ricorriamo alla mensa del Signore, chiedendo l'elemosina di porta in porta.
Il Signore mi rivelò che dicessimo questo saluto: “Il Signore ti dia la pace!”.
Si guardino bene i frati di non accettare assolutamente chiese, povere abitazioni e quanto altro viene costruito per loro, se non fossero come si addice alla santa povertà, che abbiamo promesso nella Regola, sempre ospitandovi come forestieri e pellegrini.
Comando fermamente per obbedienza a tutti i frati che, dovunque si trovino, non osino chiedere lettera alcuna [di privilegio] nella curia romana, né personalmente né per interposta persona, né per una chiesa né per altro luogo né per motivo della predicazione, né per la persecuzione dei loro corpi; ma, dovunque non saranno accolti, fuggano in altra terra a fare penitenza con la benedizione di Dio”.

D’altra parte la Regola (capitolo VI)  conteneva disposizioni di analogo tenore:

I frati non si approprino di nulla, né casa, né luogo, né alcuna altra cosa. E come pellegrini e forestieri in questo mondo, servendo al Signore in povertà ed umiltà, vadano per l’elemosina con fiducia. Né devono vergognarsi, perché il Signore si è fatto povero per noi in questo mondo. Questa è la sublimità dell’altissima povertà, quella che ha costituito voi, fratelli miei carissimi, eredi e re del Regno dei cieli, vi ha fatto poveri di cose e ricchi di virtù. Questa sia la vostra parte di eredità, quella che conduce fino alla terra dei viventi. E, aderendo totalmente a questa povertà, fratelli carissimi, non vogliate possedere niente altro in perpetuo sotto il cielo, per il nome del Signore nostro Gesù Cristo”.

Che la povertà costituisca il tratto qualificante dell’esperienza umana di Francesco (non a caso chiamato Pater pauperum dal Celano), è cosa tanto certa quanto   universalmente nota, non solo ai  seguaci e ai credenti, ma anche all’immaginario collettivo, come risulta attestato anche da innumerevoli testimonianze artistiche.

Se volessimo considerare il poeta come un testimone qualificato della società del proprio tempo, scopriremmo che i massimi autori di tutte le epoche sono rimasti affascinati dal rapporto tra il Santo di Assisi e Madonna Povertà.

Agli estremi temporali di questi otto secoli di francescanesimo, Dante Alighieri (1265 – 1321) e Alda Merini (1931 – 2009) si sono posti in contemplazione di questa singolare relazione amorosa.

Dal Canto XI del Paradiso, apprendiamo che la Povertà, rimasta vedova di Cristo, suo primo sposo, dovette attendere la nascita di Francesco per essere nuovamente corteggiata (“privata del primo marito, millecent’anni e più dispetta e scura, fino a costui si stette sanza invito”).

L’amore tra Francesco e la povertà ebbe conseguenze dilaganti “tanto che ‘l venerabile Bernardo si scalzò prima” e, subito dopo “scalzasi Egidio, scalzasi Silvestro dietro a lo sposo, sì la sposa piace”.
Al momento della morte, ai suoi frati, come legittimi eredi, Francesco “raccomandò la donna sua più cara, e comandò che l’amassero a fede”.

Dal “Canto di una creatura” della Merini, cogliamo, invece,  il senso di gioia e di gratitudine  di Francesco per la sua vita in povertà:

“Felice Colui
che mi ha rivestito di un saio
che è diventato un pavimento di rose.
Non ho mai sentito
l’asperità di questo tessuto,
ma odorava di fresco,
odorava di mattino,
odorava di resurrezione.
Le mie spalle sono diventate deboli ma forti:
sono diventato un contadino di fede.
Aravo solo la terra di Dio, la sua volontà”.




INIZIANO LE DIVISIONI…


Come era umanamente prevedibile, il carattere radicale della volontà testamentaria di Francesco finì per creare, nei suoi seguaci, serie difficoltà sul piano operativo.

A pochi anni dalla morte del Fondatore, si assistette ad un fenomeno di clericalizzazione dell’Ordine (la definizione è riferita dallo storico Bartoli): con le Costituzioni del 1239 vengono impartite precise indicazioni normative in base alle quali “nessuno può essere accolto nell’Ordine se non sia chierico così da essere competente in grammatica, istruito in logica, o in medicina, o nel diritto canonico, o in quello civile, o in teologia”.

Con il medesimo atto si dispone che “i frati non stiano per strada o nei luoghi pubblici a chiedere l’elemosina”, in evidente controtendenza rispetto a quanto previsto dalla Regula non bullata (“Et cum necesse fuerit, vadant pro elemosynis” FF 31)

L’applicazione dei nuovi orientamenti , che coincide con la fase di abbandono dei primitivi insediamenti periferici e il conseguente trasferimento nelle zone urbane, determina una svolta identitaria e suscita sconcerto e confusione soprattutto tra alcuni frati della “prima ora”.

E’ il caso di Frate Ginepro protagonista di un episodio straordinario (anche perché percorso da una sottile vena di “umorismo” di tipica marca francescana):

“Tanta pietà aveva alli poveri Frate Ginepro e compassione, che quando vedea alcuno che fusse vestito male o ignudo, di subito toglieva la sua tonica, o lo cappuccio della sua cappa, e davalo al così fatto povero; e però il Guardiano gli comandò per obbedienza, ch’egli non desse a nessuno povero tutta la sua tonica, o parte del suo abito. Avvenne caso, che a pochi dì passati scontrò uno povero quasi ignudo, domandando a Frate Ginepro limosina per lo amore di Dio: a cui con molta compassione disse: Io non ho ch’io ti possa dare, se non la tonica; ed ho dal mio prelato per la obbedienza, che io non la possa dare a persona, né parte dello abito: ma se tu me la cavi di dosso, io non ti contraddico.
Non disse a sordo; che di subito cotesto povero gli cavò la tonica a rovescio, e vassene con essa, lasciando Frate Ginepro ignudo. E tornando al luogo, fu addomandato dove era la tonica, risponde: Una buona persona la mi cavò di dosso, e andossene con essa. E crescendo in lui la virtù della pietà, non era contento di dare la sua tonica, ma dava e’ libri, paramenti e mantella, e ciò che gli venia alle mani dava ai poveri. E per questa cagione li Frati non lasciavano le cose in pubblico, perocchè Frate Ginepro dava ogni cosa per l’amore di Dio, e a sua laude”.

D’altra parte, la dissidenza all’interno del francescanesimo non era altro che il riflesso della più vasta “questione pauperistica”, simbolo di una lacerante contraddizione che stava attraversando la vita della Chiesa durante il medioevo.

Mentre parte dell’Ordine propugnava il primato assoluto della “santa povertà”, altri esponenti (sostenuti dalla Curia Romana) vollero coltivare un obiettivo di proselitismo e di penetrazione francescana nella società dell’epoca:  tale strategia poteva essere perseguita  attraverso l’edificazione di nuovi conventi e lo sviluppo territoriale di una solida struttura organizzativa.

Molto presto i fautori della spinta apostolica entrarono in conflitto con i sostenitori del carisma contemplativo delle origini: con la bolla Quo elongati del 1230, Gregorio IX – ovvero proprio colui che, da Cardinale, era stato il protettore di Francesco - giunse a dichiarare che i frati non erano obbligati alla stretta osservanza del Testamento.

La presa di posizione del Papa fece divampare lo scontro tra la componente degli zelanti (strenui “custodi” del Testamento) e quella dei lassisti.

La situazione di crisi fu affrontata, attorno al 1240, dallo jesino Crescenzio Grizi (sesto successore di San Francesco), il quale si contrappose apertamente agli zelanti, in sintonia con l’autorità papale.

Appartenente a una delle più nobili famiglie della città, in gioventù aveva avuto moglie e prole. Alla morte della coniuge, aveva deciso di entrare, insieme ad un figlio, nell’Ordine francescano.

Le Fonti così descrivono l’operato del Grizi:

Entrato nell’Ordine già vecchio, esperto in diritto canonico e in medicina. Non molto tempo dopo fu fatto Provinciale della Marca anconetana. Vi trovò una setta di uomini superstiziosi, che non camminavano secondo le verità del Vangelo (…) ritenendosi più spirituali degli altri e volendo vivere secondo il proprio arbitrio, attribuendo tutto questo alla mozione dello Spirito. Frate Crescenzio, mentre era ministro provinciale li sterminò con mano forte”(FF 2671)

Controverso fu il giudizio dei contemporanei sull’opera di Crescenzio: un giudizio sicuramente condizionato dalle contrapposte appartenenze dei suoi critici.

La fazione avversaria degli zelanti gettò discredito su di lui considerando la sua azione “inutile” ed “insufficiente” (FF 2671)

Per altri, al contrario, “il suo zelo era infiammato dalla carità, modellato dalla scienza e fortificato dalla fermezza”.

Quella di Crescenzio,  tuttavia, si dimostrò una vittoria momentanea, poiché appena dopo pochi anni il testimone degli zelanti fu raccolto, con maggior vigore,  dal nuovo gruppo degli spirituali, anche essi paladini intransigenti del principio evangelico della povertà.

Questa volta la famiglia francescana si trovò divisa tra i frati della comunità  (nucleo storico dei conventuali) e i frati spirituali, i cui massimi esponenti marchigiani furono Angelo Clareno da Fossombrone e Pietro da Macerata.

Con l’intenzione di comporre la spaccatura interna, nel 1279 Papa Nicolo III emanò la bolla Exiit qui seminat  nella quale veniva esplicitata una singolare soluzione alla “questione pauperistica” consistente in un artificio giuridico: la Santa Sede avrebbe avocato a sé tutte le proprietà dell’Ordine per poi riaffidarle alle Fraternità nella forma dell’usufrutto.

In tale maniera, si sarebbe realizzata la separazione tra il soggetto titolare della proprietà (la Chiesa) e il soggetto mero utilizzatore dei beni (l’Ordine), garantendosi il formale rispetto della volontà testamentaria di Francesco.

Il conflitto all’interno dell’Ordine fu tremendo: 5  Province (tra cui quella delle Marche) invocarono e ottennero pesanti sanzioni contro i capi della fazione spirituale.
Angelo e Pietro furono privati della libertà, fino a quando non ottennero dal Papa Celestino V l’autorizzazione a separarsi dall’Ordine per creare la Fraternità dei Poveri Eremiti.

Ma la condizione di  autonomia organizzativa cessò molto presto a causa dell’ascesa al soglio pontificio, nel 1294, di Bonifacio VIII il quale, come suo primo atto, dichiarò nulle tutte le decisioni assunte dal suo predecessore.

Le frange più estremiste degli spirituali aderirono alle dottrine di Gioacchino da Fiore, considerate eretiche dalla Curia romana. Da quell’area di pensiero sorsero i Fraticelli di cui tratteremo nella seconda parte.

La disputa sulla povertà sembra giungere ad una svolta nel 1316, anno nel quale vengono eletti, a distanza di pochi mesi, il nuovo Papa Giovanni XXII e il nuovo Generale dell’Ordine Michele da Cesena.

Il Papa chiese al Generale di  stroncare la corrente degli Spirituali. Di fronte all’esitazione di Michele, Giovanni XXII avviò un periodo di persecuzioni culminate in scomuniche e condanne a morte.

Nel 1322, mentre il Capitolo dei frati  era riunito a Perugia, il Papa  lanciò a Michele un ultimatum, sotto forma di un quesito capzioso destinato a saggiare l’ortodossia dell’Ordine sulla questione della povertà: Utrum asserire quod Christus et Apostoli non habuerunt aliquid sive in proprio sive in communi sit hereticum ovvero “è eresia affermare che Cristo e gli Apostoli non possedettero alcunché né in proprio né in comune?

La risposta del Capitolo fu chiara e univoca: Gesù e gli Apostoli erano stati effettivamente e sicuramente  poveri.

Il Papa, il quale aveva formulato il quesito in termini ingannevoli pensando al ruolo di amministratore della “cassa comune” svolto da Giuda Iscariota (Gv. 12,6), reagì con impeto alla risposta del Capitolo di Perugia.

Con la bolla Cum inter nonnullos dichiarò eretica la proposizione del Capitolo e convocò Michele alla Corte di Avignone affinché rendesse conto della sua posizione.

Con mossa imprevedibile, Michele e i suoi più stretti collaboratori respinsero l’ordine del Papa e cercarono protezione presso l’Imperatore Ludovico il Barbaro, suo  acerrimo nemico.

Nel maggio del 1328 era stato proprio Ludovico - molto interessato, per motivi di supremazia, alla disputa sulla povertà – a sostenere l’elezione dell’antipapa Niccolò V, proveniente dalla corrente dei francescani spirituali.

A questo punto Giovanni XXII non esitò a deporre Michele dalla carica di Generale dell’Ordine e a scomunicarlo.

La nuova condizione di Michele – esplicitamente contrastante con il voto di obbedienza verso la Chiesa che aveva sempre caratterizzato l’insegnamento di Francesco – provocò il venir meno del consenso di tanti sostenitori del  movimento spirituale, segnandone – di fatto – l’inesorabile declino.

Con il Capitolo del 1329 iniziò la fase della “normalizzazione”: il conventuale Guiral Ot (Geraldo di Oddone) venne eletto nuovo Generale, confermando totale obbedienza al sacro soglio. Nel frattempo l’imperatore Ludovico, detestato dagli stessi ghibellini italiani, fece ritorno in Germania e Niccolò V, rimasto privo di protezione, si sottomise all’autorità di Giovanni XXII.



LA RIFORMA DELL’OSSERVANZA

                                                                                                 
                                                 


Nelle Marche la sconfitta del movimento degli spirituali non riuscì a soffocare l’anelito di quanti volevano abbracciare l’ideale dell’altissima povertà.
                          
Mentre nella Vallesina continuava a svilupparsi – in una logica di deviazione dottrinale – la setta dei fraticelli, nell’altopiano di Colfiorito, a Brogliano, prendeva vita la nuova esperienza dell’Osservanza.

Nel 1334 un piccolo gruppo di frati, guidato da Fra Giovanni della Valle, seguace di Angelo Clareno, ottenne dai superiori l’autorizzazione ad osservare la Regola in condizione eremitica.

La Curia Romana, che aveva guardato con sospetto al sorgere di una nuova realtà di matrice radicale, ordinò ben presto la fine dell’esperienza.

Ma nel 1368 Frate Paoluccio Trinci da Foligno ebbe un nuovo permesso per ritirarsi a Brogliano: da allora l’Osservanza conobbe una crescita incessante.

Già nel 1415 il movimento accoglieva oltre 200 frati, distribuiti in 34 comunità marchigiane, le più importanti delle quali posizionate a Forano, Massa Fermana e Montefalcone Appennino.

Dopo il Concilio di Costanza (1418) i membri, ormai presenti anche in altre regioni d’Italia e d’Europa, vennero ufficialmente chiamati “frati minori della regolare osservanza”.

Tra i massimi esponenti dell’Osservanza, accanto a Bernardino da Siena e Giovanni da Capestrano, si erge la figura di Giacomo della Marca (Monteprandone 1393 – Napoli 1476).

Implacabile difensore dell’ortodossia contro le eresie dei Fraticelli in Italia, dei Manichei in Bosnia, degli Ussiti e Patareni in Boemia, Austria e Ungheria, Nunzio e Legato al servizio di sette Pontefici, ispiratore di Statuti comunali, promotore dei Monti di Pietà contro la piaga dell’usura, apostolo della devozione al SS. Nome di Gesù.

Alla “seconda generazione” dell’Osservanza  appartennero i tre Beati, Domenico da Leonessa, Pietro da Mogliano e  Marco da Montegallo.

Quest’ultimo (1425 - 1496) , incline all’impegno sociale a favore dei poveri e compagno di Giacomo della Marca in molteplici missioni di pacificazione civile, fu il teorico dei Monti di Pietà “unico humano refugio” del popolo cristiano “stracciato e devorato” dagli usurai.

Con il trascorrere degli anni, i rapporti tra le due componenti francescane dei Conventuali e degli Osservanti, finirono per deteriorarsi in maniera irreversibile: con la bolla Ite et vos del 1517, Papa Leone X sancì la divisione del primo Ordine nei due rami.

Ma neppure questa volta la drammatica sequenza delle scissioni era destinata ad interrompersi.

Dal tronco della famiglia degli Osservanti, nasceranno la famiglie dei Cappuccini (di cui parleremo nel paragrafo successivo), la famiglia dei Frati Minori Riformati ( chiamati anche “della più stretta Osservanza”) ufficialmente approvata da Clemente VII nel 1532 e la famiglia dei Recolletti (1632).

Invece, in seno ai Conventuali, nasceranno, nel 1562, gli Alcantarini (chiamati anche Scalzi o Pasqualiti).


HABITELLO STRETTO ET CAPUCCIO AGUZZO



Eremo dell’Acquarella

L’indomito anelito alla radicalità – di chiara matrice spirituale – emerse con rinnovato vigore proprio dal grembo dell’Osservanza marchigiana.

Nell’anno giubilare 1525 un frate decide di fuggire dal convento di Montefalcone Appennino e di dirigersi a Roma. Veste un “habitello stretto et capuccio aguzzo”, cammina scalzo e porta una croce. Ė fra Matteo da Bascio (l’odierna Pennabilli), e lascia il convento per vivere con rigore la Regola di Francesco d’Assisi. 

A Roma ottiene da papa Clemente VII il permesso verbale, ma il Provinciale dell’Osservanza Giovanni da Fano, nel corso di un drammatico Capitolo celebrato proprio a Jesi, punisce l’atto di disobbedienza, facendo imprigionare il frate ribelle a Forano.

Grazie all’intervento della duchessa di Camerino Caterina Cybo - che aveva conosciuto Matteo e i suoi primi compagni - il Papa riconobbe ufficialmente la riforma cappuccina (1528).

L’anno successivo, ad Albacina, presso l’eremo dell’Acquarella,  oltre 500 frati di riunirono per il primo Capitolo Generale dei cappuccini.

Non mancarono le crisi interne :  clamorosa fu quella suscitata dal passaggio al protestantesimo di uno tra i più prestigiosi esponenti, Bernardo Ochino, con la conseguenza di  attirare su tutti i Cappuccini il sospetto di eresia.

Si attribuì a Papa Paolo III l’intenzione di sopprimere l’Ordine. Ma il superiore della comunità, Francesco da Jesi, dopo un’ inchiesta, poté dimostrare che mai i Cappuccini si erano discostati dalla fedeltà al Pontefice.




ANCHE GLI UOMINI AMMOGLIATI E LE DONNE MARITATE...



Dai Fioretti apprendiamo che Francesco, recatosi a predicare a Savurniano (Cannara, secondo altri codici), venne “assediato” dagli abitanti del luogo, desiderosi di cambiare vita e di seguirlo senza indugio.

Il Santo si vide costretto a contenere l’empito di conversione di quella gente:“Non abbiate fretta ed io vi ordinerò quello che vo’ dobbiate fare per salute dell’anime vostre. E allora pensò di fare il terzo ordine per universale salute di tutti”.

Una testimonianza ulteriore dell’influsso del carisma francescano sui laici è riferita nella Leggenda dei Tre Compagni: “Anche gli uomini ammogliati e le donne maritate, non potendo svincolarsi dai legami matrimoniali, dietro suggerimento dei frati, praticavano una più stretta penitenza nelle loro case”.

Con la “Lettera ai fedeli” (1215) Francesco assolve l’impegno preso e dona ai suoi seguaci una traccia di altissima spiritualità.
Successivamente la ineluttabile esigenza di una strutturazione anche organizzativa del nuovo Ordine laico, spinge Francesco alla pubblicazione del Memoriale Propositi (1221), scritto in collaborazione con il Cardinale Ugolino.

La cosiddetta Regula antiqua contiene una serie di minuziose prescrizioni riguardanti aspetti concreti della vita quotidiana dei penitenti: dal modo di vestire (“Gli uomini indosseranno panno umile non colorato, che non superi il prezzo di sei soldi ravennati. Le sorelle vestano mantello e tunica di stoffa della stessa umiltà. Indossino un ampio copricapo di lino senza crespature, il cui prezzo non superi dodici denari pisani”), ai digiuni, alla frequenza della preghiera (“Tutti dicano ogni giorno le sette ore canoniche, cioè mattutino, prima, terza, sesta, nona, vespri e completorio”), alla sepoltura dei defunti.


La ricostruzione della storia del Terz’Ordine delle Marche è impresa avvincente, ma molto spesso disperata, stante l’esiguità delle fonti documentali, riferite ai primi secoli di vita del movimento.
Le caratteristiche organizzative dell’Ordine e, in special modo, l’assenza di insediamenti stabili, non hanno favorito la conservazione degli atti.
Per attingere ad informazioni attendibili, unica possibilità è rappresentata dalla consultazione di fonti notarili o di documenti pontifici.

La più antica attestazione della presenza terziaria è costituita da un lascito testamentario a favore dei  Frati Minori di Ascoli Piceno  deciso, nel 1237, da una penitente francescana di nome Beldea.
Sempre ad Ascoli, la comunità dei penitenti è destinataria, nel 1255, di una lettera di Alessandro IV con la quale viene riconosciuta l’esenzione dalle pubbliche cariche.

Ma è, soprattutto, nel nord del Marche che rifulsero, tra i primi terziari, numerosi esempi di santità con il Beato Giovanni Pelingotto da Urbino (+ 1304) ed i pesaresi Beato Cecco Zanferdini (+ 1350) e Beata Michelina Metelli (+1356).


UNA CONSIDERAZIONE CONCLUSIVA


Al termine di questo capitolo dedicato alle vicissitudini del movimento francescano vorremmo condividere con il lettore una semplice considerazione: abbiamo potuto constatare come nell'arco di trecento anni, la storia dei seguaci di Francesco sia stata segnata da frequenti scissioni (zelanti, lassisti, frati della comunità, spirituali, conventuali, osservanti, cappuccini ...) con conseguenze alquanto dolorose per i singoli protagonisti e per le fraternità coinvolte.

La fedeltà al Testamento di Francesco e l'obbedienza alla Madre Chiesa hanno rappresentato i criteri discriminanti rispetto ai quali si sono manifestate, di volta in volta, situazioni di dissidio interne all’Ordine.

Ci sia consentito, per un attimo, di inoltrarci, in un suggestivo sentiero interpretativo in compagnia di Hans Urs von Balthasar: il teologo svizzero descrive la vita della Chiesa (ma lo stesso ragionamento vale anche per una famiglia religiosa) come una dinamica tra diversi principi o profili, che perpetuano e rendono vive le esperienze idealtipiche di alcune persone che hanno vissuto a fianco di Gesù (o, in questo caso, di Francesco).

In particolare, i due principi fondativi sono denominati “petrino” e “mariano”: il principio petrino sottolinea soprattutto la componente istituzionale, gerarchica, giuridica e oggettiva della vita della Chiesa, mentre quello mariano esprime la natura carismatica, popolare, orizzontale e fraterna.

I due principi, che nelle ultime sue opere Balthasar chiama “istituzionale” e “carismatico”, sono per lui complementari, non in conflitto tra di loro, ma piuttosto in rapporto dinamico e dialogico.

La storia della Chiesa (ma anche quella dell’Ordine francescano) può essere raccontata come lo sviluppo e l’intreccio di queste due dimensioni coessenziali della Chiesa: storia di istituzioni e storia di carismi.

Paradossalmente, crediamo che i fenomeni di dissidenza possano costituire la prova della straordinaria vitalità del carisma francescano: un pensiero veramente "vivo", pur tra le contraddizioni e le discordie, produce e diffonde energia attraverso i secoli, mentre una ideologia asfittica è destinata ad un inesorabile declino.

Questa tesi trova puntuale conferma anche in avvenimenti a noi più vicini.

Con la bolla “Felicitate quadam” del 1897, Papa Leone XIII dispose l’abolizione delle antiche denominazioni di Osservanti, Riformati, Discalciati o Alcantarini e Recolletti e l’aggregazione nell’unica famiglia dei Frati Minori “simpliciter dicti (in siglia O.F.M.), sotto la guida di un solo Ministro generale.

La riforma leonina incontrò, tra i frati delle diverse appartenenze,  tenaci resistenze di stampo conservatore, tant’è che nel 1940 si rese necessario un ulteriore provvedimento confirmatorio da parte del Papa Pio XII.

Da allora e sino ai giorni nostri, il Primo Ordine Francescano è articolato nelle tre famiglie dei Minori Conventuali (O.F.M. Conv.), Minori Cappuccini (O.F.M. Cap.) e, appunto, Minori "simpliciter dicti" (O.F.M.).

Ma forse neppure questo assetto può considerarsi definitivo: nuove esperienze, come, ad esempio, quella dei Frati Minori Rinnovati (Istituto diocesano sorto nel 1972 dal "ramo" dei cappuccini) continuano a nascere e diffondersi anche ai giorni nostri, sempre con l'obiettivo di far rivivere lo straordinario carisma delle origini..































PARTE SECONDA

LA  CITTA' DI FEDERICO
(MA ANCHE  DI FRANCESCO)



                                                    
E TU BETLEMME, CITTA’ DELLA MARCA, NON SEI LA PIU’ PICCOLA TRA LE GRANDI CITTA’ DELLA NOSTRA STIRPE”















La fama riconosciuta, nel corso dei secoli, alla città di Jesi è dovuta, in larga misura, ad un evento di natura probabilmente casuale verificatosi il 26 dicembre dell'anno 1194. In quel giorno, sotto una tenda collocata nella piazza principale, vide la luce Federico II Hohenstaufen, figlio dell’Imperatore Enrico VI e di Costanza di Altavilla, destinato ad essere  protagonista della storia europea per oltre mezzo secolo.
Non sappiamo se la città della nascita sia stata scelta in base ad una valutazione logistica preventiva (in effetti Enrico VI aveva avuto occasione di trattenersi a Jesi alcuni anni prima) ovvero per la necessità determinata dall’insorgere delle doglie del parto, durante il viaggio di trasferimento verso la Sicilia.
Secondo l'analisi del contesto ambientale formulata da Sturner, all'epoca, “la città stentava, conducendo un'esistenza modesta, favorita sì dalla posizione nella valle dell'Esino, importante collegamento del traffico tra l'entroterra e la costa, ma ostacolata dall'assenza di un proprio sbocco sul mare e dalla conseguente dipendenza dalle città portuali, in particolare dalla troppo potente Ancona”.
Dopo il glorioso periodo benedettino (attorno al Mille si contavano, nella Vallesina, non meno di 26 insediamenti), stava costituendosi la “Respublica Aesina”, epilogo di processi storici convergenti: da un lato l’affrancamento dei fondi rustici e urbani dal dominio religioso, dall’altro la fondazione e l’aggregazione  delle confraternite delle arti e dei mestieri artigiani.
In una fase di delicata transizione verso nuovi equilibri socio-economici, nel 1220 Papa Onorio III si vide costretto ad inviare nella Marca di Ancona un suo delegato, per richiamare le popolazioni ai doveri di sudditanza. Lo stesso pontefice il 5 luglio 1222 indirizzò una bolla all’Abate di San Savino, affinché gli Jesini gli prestassero obbedienza incondizionata.
Ma proprio Federico II, in lotta contro il Papato e desideroso di fomentare la ribellione, in una celebre lettera del 1239 si rivolse agli jesini con parole di commossa tenerezza:
Se il luogo nativo è oggetto di spontaneo amore ed affetto indifferentemente da tutti gli uomini; se l'amore della Patria natale spinge tutti con la sua dolcezza, né permette che ci si dimentichi di essa, Noi, per la stessa ragione, e secondo natura, siamo portati ed avvinti ad amare Jesi, nobile città della Marca, insigne principio della nostra vita, terra ove l'illustre nostra madre ci ha dato luce, ove la nostra culla risplendette, con che questa città, la nostra Betlemme, terra di Cesare e nostra origine, è incisa nella nostra mente e profondamente radicata nel nostro cuore. E tu Betlemme, città della Marca, non sei la più piccola tra le grandi città della nostra stirpe. Da te infatti è uscito il condottiero,  il principe dell'Impero romano chiamato a reggere e proteggere il tuo popolo e questi non permetterà che tu debba ancora essere sottoposta ad un governo nemico. Sorgi, dunque, prima genitrice e scuoti l'angusta oppressione del nostro oltraggiatore. Pertanto, commiserando il giogo al quale siete sottoposti, abbiamo deciso di liberare voi e gli altri nostri fedeli sia delle Marche che del Ducato di Spoleto. E poi che questi (il Papa), per sua evidente ingratitudine, si è dimenticato di noi e dell'Impero stesso -  vi sciogliamo dal giuramento che avete prestato alla Chiesa (…)”.
Se, per ipotesi,volessimo ricercare l'atto costitutivo ufficiale di quel sentimento filo-ghibellino impresso da secoli nel carattere della gente  jesina, credo che non potremmo prescindere da questa lettera di Federico II, cui non fa certamente difetto la chiarezza delle finalità antipapali.




                                                                  






                                                           
A più riprese gli storici si sono domandati se  Federico e Francesco, pressoché coetanei, si fossero mai incontrati.
Nessuna fonte documentale dà conto di un tale evento, che probabilmente rientra in un alone di leggenda.
Nella sua Cronologia della vita di San Francesco, il vescovo Arduino Terzi (vissuto, si badi bene, nel ‘900), riferisce un episodio che si sarebbe verificato attorno al 1220 nel castello svevo di Bari.

Federico II, 26enne,  all’apice della potenza per aver appena ricevuto la corona del Sacro Romano Impero, volle mettere alla prova le virtù del 38enne Francesco, che proprio in quel periodo stava predicando nel Regno di Sicilia.
Al termine di una cena organizzata in suo onore, l’Imperatore fece preparare per il frate un comodo letto con un focolare acceso.

Mentre il Poverello, come sua consuetudine, si accingeva a riposare sulla nuda terra, una donna bellissima entrò  nella sua camera invitandolo a coricarsi al suo fianco.

Il frate, imperterrito, raccolse dal fuoco alcuni carboni ardenti e li distese al centro della stanza, proponendo alla donna di stendersi lì sopra, accanto a lui.

Allora l’imperatore, che seguiva la scena di nascosto,  fece ingresso nella camera e con ammirato stupore si rivolse a Francesco: “Alzati, Dio è con te e vera è la parola detta dalla tua bocca”.

La scarsa attendibilità del racconto è provata dalla perfetta somiglianza con un episodio riportato nel cap. XXIV dei Fioretti, questa volta con protagonista il Sultano di Egitto al posto di Federico II.

Eppure, quasi a testimoniare il desiderio di un incontro con l’Imperatore, appare rilevante un passo della Leggenda Perugina  (riportato anche nello Specchio di Perfezione, 1814 FF), nel quale Francesco si rivolge idealmente a Federico II:

“Se avrò occasione di parlare con l’imperatore, lo supplicherò che per amore di Dio e per istanza mia emani un editto, al fine che nessuno catturi le sorelle allodole o facci a loro del danno. E inoltre, che tutti i podestà delle città e i signori dei castelli e dei villaggi siano tenuti ogni anno, il giorno della Natività del Signore, a incitare la gente che getti frumento e altre granaglie sulle strade, fuori delle città e dei paesi, in modo che in un giorno tanto solenne gli uccelli, soprattutto le allodole, abbiano di che mangiare. Dia inoltre ordine l’imperatore, per riverenza al figlio di Dio, posto a giacere quella notte dalla beata vergine Maria nella mangiatoia tra il bove e l’asino, che a Natale si dia da mangiare in abbondanza ai fratelli buoi e asinelli. E ancora in quella festività, i poveri vengano ben provvisti di cibo dai benestanti”(1669 FF).

Accertata – almeno allo stato attuale delle conoscenze storiche – la mancanza di prove su un incontro tra Francesco e Federico, non possiamo, tuttavia, sottacere l’esistenza di una sorta di presunzione di verosimiglianza,  tramandata, nel corso dei secoli, dalla tradizione popolare.

Il mondo dell’arte non ha mai cessato di alimentare tale suggestione, addirittura sino ai nostri giorni.
Nel film di Paolo Bianchini “Il giorno, la notte. Poi l’alba” (2006) si narra dell’incontro in Puglia tra Francesco, reduce dalla Crociata e Federico II, assillato dalle  pressioni  di Papa Onorio per l’organizzazione di una nuova spedizione a Gerusalemme, sotto minaccia di scomunica.

Entrambi i personaggi condividono sentimenti di avversione per la “guerra santa”.
Entrambi si pongono alla ricerca dell’armonia: intesa in senso mistico e religioso da Francesco ed in senso politico e artistico da Federico.
Entrambi diventano simboli  di tolleranza e  integrazione.




















                                                                         sigillo di Federico II di Svevia

Di ben altra consistenza è, invece, il patrimonio documentale  riguardante  le relazioni tra l’Imperatore ed il movimento francescano.

Si tratta di rapporti complessi e altalenanti, caratterizzati da fasi di sintonia ideologica cui fanno seguito periodi di virulenta ostilità.

E’ certamente paradossale che Federico II - scomunicato dalla Chiesa per ben tre volte (nel 1227 e nel 1239 da Gregorio IX e nel 1245 da Innocenzo IV) – si trasformasse in paladino della “questione pauperistica”, assurgendo al ruolo di strenuo difensore della radicalità evangelica:
E’ un’opera di carità togliere agli uomini di Chiesa le ricchezze di cui si circondano per la dannazione eterna delle loro anime. Seguiteci e insieme faremo in modo che essi, perdendo i beni superflui, possano servire il Signore contentandosi del necessario”.

E ancora più esplicitamente, in una lettera rivolta al sovrano greco di Nicea:
“Non vedi i cardinali, gli alti prelati portare armi di cavalieri e armature da guerra? Perché uno si chiama conte, l’altro duca, l’altro mangravio e governano delle provincie? Che ancora? Eccone uno che comanda un corpo d’esercito, eccone un altro che guida un’armata. Che dunque? Essi fanno la guerra, hanno corazze, armi e bandiere. Non sono dunque dei sacerdoti, ma dei lupi famelici”.

Parole di sostanziale sintonia con il pensiero del francescano S. Antonio da Padova, il quale non aveva esitato a sferzare il comportamento di sacerdoti avidi e viziosi: “Della religione hanno fatto culto del demonio, del deserto palazzi, dei chiostri castelli, della solitudine corte regale”.

La sincerità dei sentimenti dell'Imperatore in tema di fede,  fu posta in dubbio da più parti, per un sospetto mai smentito di strumentalità politica in funzione antipapale. A tale proposito, il francescano Salimbene de Adam insinuò che non era stato lo zelo religioso a spingere Federico II ad invocare la povertà della Chiesa, quanto piuttosto la sua cupidigia e l’avidità di potere.

D'altra parte, non meno drastica era stata la posizione di Papa Gregorio IX nei confronti dell'Imperatore, addirittura paragonato alla bestia dell'Apocalisse di San Giovanni:

“Una bestia furiosa è uscita dal mare, piena di parole bestemmiatrici; i piedi sono quelli di un orso, i denti quelli di un leone; assomiglia ad un leopardo ed apre le fauci solo per oltraggiare il nome di Dio.
Non teme neppure di scagliare insulti contro il tabernacolo divino e contro i santi che abitano nei cieli. Con gli artigli ed i denti d'acciaio vuole fare a pezzi il mondo e stritolarlo sotto i piedi. Per demolire la muraglia della fede cattolica, da molto tempo ha preparato gli arieti...
Smettete di meravigliarvi se alza contro di noi il pugnale dei suoi oltraggi, colui che già si erge per cancellare dalla terra il nome del Signore. Invece, per resistere alle sue menzogne con la verità manifesta e confutare i suoi inganni con la prova della parola, osservate la testa, il corpo e la coda di questa bestia, di questo Federico, di questo presunto imperatore.”

Data la situazione dei rapporti, appare francamente sconcertante che proprio uno dei massimi collaboratori di San Francesco diventasse un importante consigliere di Federico II.
Stiamo parlando di frate Elia da Cortona (1180 ca – 1253) , ovverosia di colui che lo stesso Francesco “aveva scelto come madre per sé e costituito padre degli altri frati”(1 Cel 98; FF 491).

Dotato di straordinarie capacità organizzative e diplomatiche, Frate Elia divenne - per diretta designazione del fondatore - prima Vicario e poi Ministro Generale dell'Ordine. In tale veste fu promotore del controverso progetto per l'erezione dell'imponente Basilica di San Francesco in Assisi, ritenuto da molti palesemente contrario alla testimonianza di vita del Santo della povertà.

Proprio a tale epoca risale lo scontro intestino tra l'ala oltranzista degli zelanti e quella moderata dei lassisti, di cui abbiamo ampiamente trattato nella prima parte della ricerca.
E sempre in quel periodo (anno 1236) l'Imperatore scrisse una lettera a Frate Elia in occasione della traslazione a Marburgo del corpo della sua parente terziaria francescana, la beata Elisabetta Regina d'Ungheria.

Nella missiva, Federico II  impetrava le preghiere dei francescani ed esprimeva apprezzamenti ed elogi per l'Ordine ed il suo Generale.

Deposto dalla carica di Ministro nel 1239 (probabilmente anche a motivo della sua vicinanza ideologica  alle posizioni dell'Imperatore, scomunicato per la seconda volta proprio in quell'anno) , Frate Elia  decise di abbracciare l'ideale ghibellino, accettando incarichi diplomatici direttamente da Federico II.

Per tale ruolo, esercitato al servizio di uno scomunicato, Frate Elia subì l'identica condanna ecclesiastica,  comminata – si noti bene -  da quel Papa Gregorio IX che, ancora Cardinale, lo aveva sostenuto ed incoraggiato  nel delicato compito di governo dell'Ordine francescano.

Dinnanzi al movimento francescano, l'Imperatore prese le difese di Frate  Elia, accusando apertamente il Papa di aver  tradito la volontà di San Francesco.

Ma l'Ordine rimase fedele alla Sede Apostolica, impegnandosi con determinazione in una capillare propaganda contro l'Imperatore.

In questo contesto si inserisce l'attività che, in termini moderni, potremmo definire di disinformazione organizzata da frate Salimbene de Adam il quale propalò l’infamante diceria secondo la quale Federico non era, in verità, figlio di Enrico VI e di Costanza d’Altavilla (all’epoca del parto molto attempata), bensì di un macellaio jesino.

Tale diceria ebbe notevole risonanza tanto che, lo stesso suocero di Federico, Giovanni Brienne, giunse ad insultare il sovrano apostrofandolo con l’epiteto di “Fi de becer”.



















Al di là del leggendario episodio dell’incontro di Bari, gli storici hanno riconosciuto in Francesco e Federico, pur nella differente concezione della vita, il tratto comune della modernità.

Il francese Emile Gebhart, nella sua opera Italie mystique (1906) considera entrambi i personaggi, ciascuno nella sua sfera, come “liberatori” dell’Italia rispetto agli schemi e alle tradizioni medievali.

Federico II, Stupor Mundi, segnò il suo tempo per una straordinaria capacità di innovazione nel diritto, nella cultura e nelle scienze.

Grazie a Francesco: “la libertà di spirito, l’amore, la pietà, la serenità gioiosa, la familiarità, costituiranno per lungo tempo la peculiarità del cristianesimo italiano, in controtendenza rispetto alla  fede farisaica dei bizantini, al fanatismo degli spagnoli, al dogmatismo scolastico della Germania e della Francia. Niente di ciò che, ovunque, ha ottenebrato o inceppato le coscienze, né la metafisica sottile, né la teologia raffinata, né le inquietudini della casistica, né l’eccesso di disciplina e di penitenza, né lo scrupolo estremo della devozione, più peserà sugli italiani”.






















ANNO DOMINI 1215: FRANCESCO A JESI?


                                                              Jesi, Chiesa di San Marco

La presenza dei seguaci di Francesco a Jesi risale addirittura alle origini del movimento.

Secondo un’antica tradizione, riferita da Tomaso Baldassini, il Santo d’Assisi passò nella città attorno al 1215, proveniente dall’Abbazia di Chiaravalle.

Fu in quell’occasione che la comunità locale dei Benedettini decise di fargli dono del romitorio dedicato a San Marco.

Per focalizzare, su fonte documentale, la storia del francescanesimo locale , dobbiamo, invece, riferirci alla Cronaca di Salimbene de Adam da Parma il quale fornisce testimonianza diretta di un suo soggiorno a Jesi nel 1239  presso un romitorio di ubicazione non precisata.

La successiva fonte documentale, questa volta dell’anno 1244, è contenuta in una esortazione del Papa Innocenzo IV al Vescovo di Jesi affinché consentisse l’insediamento della comunità francescana a San Marco, “presso le mura della città, a distanza del lancio di una pietra (“apud moenia civitatis ad intervallum unius iactus lapidis”).

Ottenuta l’autorizzazione, i francescani provvidero a costruire una chiesa attigua al convento; sulla fine del XIII secolo, al posto del primitivo edificio di culto, sorse il più importante tempio della Vallesina, la monumentale chiesa di San Marco, affrescata poi dai pittori di Scuola Giottesca Riminese ed ininterrottamente  officiata, sino al XVII secolo, dai frati Conventuali.

Jesi divenne sede di una Custodia francescana comprendente ben dodici insediamenti collocati in una vasta area tra i fiumi Cesano e Musone.

Paolino da Venezia nel suo Provinciale Ordinis Fratrum Minorum li elenca puntigliosamente: Jesi, Fabriano, Sassoferrato, Rocca Contrada (l’odierna Arcevia), Serra de’ Conti, Montenovo (Ostra Vetere), Senigallia, Montalboddo (Ostra), Serra San Quirico, Staffolo, Apiro e Matelica.

Verrebbe da chiedersi, quale sia stato il criterio per la scelta dei luoghi di insediamento: secondo un interessante studio di Luigi Pellegrini,  i francescani furono inevitabilmente spinti verso i centri urbani in quanto “costretti dallo stato di povertà mendicante a dipendere economicamente dagli altri, per la rinuncia a fonti proprie e autonome di sussistenza e di difesa”.

Solo nei centri socialmente più vivaci potevano confluire diverse comunità di religiosi impegnati nell’azione pastorale e nelle più disparate attività sociali; e soltanto i nuclei urbani economicamente più solidi erano in grado di sostenere il peso del mantenimento delle comunità mendicanti che, non avendo rendite proprie, gravavano sulle risorse della cittadinanza. “Esisteva, infatti, un accordo (e non sempre tacito, anzi a volte registrato nero su bianco) tra la comunità mendicante e la comunità civica in base al quale i frati avrebbero attivato la loro presenza nelle varie forme di servizio pastorale, di intervento politico nei momenti di particolare tensione e difficoltà, di consulenza tecnica per la realizzazione delle infrastrutture urbane, di assunzione di incarichi di pubblica fiducia; in cambio  la città garantiva ai frati l’abitazione e le sussistenze”.
La prova dei rapporti tra istituzioni pubbliche e conventi francescani si può evincere dalla curiosa documentazione attestante l’acquisto di tonache con oneri a carico delle autorità comunali; in particolare per Staffolo, Matelica e Apiro sono state rinvenute specifiche quietanze, rilasciate dai frati, nelle quali si dichiara l’introito di sovvenzioni pubbliche da destinare al rinnovo di tonacis et vestiariis.

L’influenza del movimento francescano all’interno della diocesi di Jesi fu immediata e straordinaria: nell’arco di venti anni, tra il 1246 e il 1266, sulla cattedra di S. Settimio si succedettero tre Vescovi, tutti appartenenti all’Ordine: Gualtiero (dal 1246 al 1252), Crescenzio da Jesi (dal 1252 al 1264) e Bonagiunta da Fabriano (dal 1264 al 1266).

Di Gualtiero, sappiamo che venne eletto da Papa Innocenzo IV in contrapposizione ad un certo Hermannus (o Arimannus), nominato dai canonici della Cattedrale.

Per normalizzare la situazione di contrasto, il Pontefice si vide costretto ad incaricare i Vescovi di Arezzo e di Fermo affinché venisse annullata la designazione effettuata dai canonici.

L’episodio è sintomatico di un generalizzato sentimento di ostilità nutrito dal clero secolare nei confronti del nuovo Ordine: non raramente venne vietata ai francescani la possibilità di predicare nelle chiese rette dai canonici.

Crescenzio Grizi, che abbiamo già conosciuto nei ruoli di Provinciale e poi di Generale dell’Ordine, fu eletto Vescovo di Jesi nel 1252 e guidò la diocesi fino al 1264:“Dopo che ebbe governato l’Ordine per qualche tempo con fedeltà e prudenza, frate Crescenzo chiese di essere dimesso dall’Ufficio; in seguito fu nominato Vescovo della sua città natale” (FF 2513).

La funzione episcopale di Crescenzio si svolse in un periodo alquanto tormentato della storia di Jesi.

Dopo la morte di Federico II (1250), la fazione guelfa aveva ripreso il sopravvento su quella ghibellina; il figlio Manfredi, tuttavia, aveva organizzato un piano di riconquista culminato nel 1258 con l’ingresso vittorioso nella Marca di Ancona.

Alla diffida del Papa Alessandro IV affinché la città rimanesse fedele alla Chiesa, gli Jesini non risposero, preferendo subire l’interdetto. La città fu, dunque, privata del Vescovo e Crescenzio ottenne la facoltà di trasferirsi altrove pur mantenendo la dignità episcopale.

Appena quattro anni dopo si registrò un nuovo rovesciamento politico. Manfredi fu sconfitto dalle truppe del nuovo Papa Urbano IV e Jesi tornò guelfa.

Alla morte di Crescenzio, assumeva la guida della diocesi il Vescovo Bonagiunta, della cui azione pastorale sappiamo ben poco.

E’ noto, tuttavia, che Bonagiunta ricevette dal Papa Clemente IV l’ordine di annullare i decreti emanati nelle diocesi di Jesi e Senigallia con cui venivano negati i sacramenti e si proibiva il suono delle campane a coloro che avessero scelto di essere sepolti nelle chiese francescane.

Ulteriore prova dei difficili rapporti tra clero diocesano e frati!

Potremmo dire che risale alla “prima ora” anche la presenza a Jesi del ramo francescano femminile, addirittura in periodo antecedente  la morte della fondatrice Santa Chiara (1253).

In un documento datato 21 aprile 1248, il Papa Innocenzo IV autorizza la comunità delle clarisse di Jesi ad avere in proprietà dei beni.

Sappiamo che il primo insediamento delle monache era situato poco distante dall’abbazia benedettina di Santa Maria del Piano, in un convento attiguo all’antichissima chiesa di San Procolo (X sec), di cui non si ha più traccia.




NEL NOME DI GESU’


La presenza di Giacomo della Marca è attestata a Jesi in momenti diversi, il primo dei quali risalente al 1419, allorquando il noto predicatore fu chiamato ad infervorare i cuori dei fedeli  contro la dilagante corruzione dei costumi.

L’occasione fu propizia per l’istituzione, nella Chiesa di San Floriano, della Confraternita del Buon Gesù, il cui simbolo fu il famoso monogramma (ovveroYh<esu>s , iscritto in un sole con dodici raggi).

La devozione al Santo Nome di Gesù, fondata su radici bibliche e patristiche, fu promossa in tutta Europa dal fondatore dell’Osservanza Bernardino da Siena, il quale peraltro, subì un’iniziale accusa di idolatria; per tale ragione dovette difendersi di fronte al Papa Martino V dagli attacchi degli agostiniani e dei domenicani.

La disputa si risolse con un onorevole “compromesso” consistente nell’apposizione di alcune modeste modifiche al simbolo grafico originario (l’aggiunta della croce e l’intersezione di un trattino verticale nella parte superiore della lettera H).

Il periodo della massima diffusione del culto del Santo Nome corrisponde con una straordinaria proliferazione di miracoli ad opera dei frati dell’Osservanza: a tale proposito Giacomo scriverà un libello intitolato “Miracoli fatti per virtù del sacro nome di Gesù”, nel quale si dà conto di ben 102 eventi soprannaturali.

Il biografo Venanzio da Fabriano, così descrive l’importanza del culto del Santo Nome nella missione di Giacomo della Marca:
“Questi sono alquanti miracoli che Idio mostrò per lo beato Iacobo della Marcha in vita sua. Et luy li scrivea et appropriavali alla virtù e gratia del nome di Yesu. Sicchè quando luy predicava de nomine Yesu et allegava alcuni di questi miracoli dicendo:<questi miracoli li ho visti yo con gly occhi mei de nomine Yesu>.  Et yo frate Venanzo che fui indegnamente suo compagno, so del certo che più di XL anni innanzi che ‘l beato Iacobo morisse, Idio beneditto de continuo, dove el beato Iacomo andava, mostrava molti miracoli per lui et io in più parte li ho veduti et trovati, quali sono innumerabili”.

Troveremo dipinto il monogramma YHS (iniziali maiuscole delle lettere greche iota, eta e sigma)  al vertice della celebre Pala della Deposizione  realizzata  nel 1512 da Lorenzo Lotto proprio su commissione della Confraternita del Buon Gesù.

La realizzazione dell’opera d’arte  è legata ad una curiosa vicenda contrattuale: inizialmente la Confraternità aveva commissionato la Deposizione a Luca Signorelli, pattuendo esplicitamente con il pittore l’obbligo di svolgere il lavoro a Jesi  (ovverosia sotto il diretto controllo dei committenti).

Tale clausola aveva lo scopo di impedire che l’opera venisse realizzata da mano diversa rispetto a quella del maestro designato! 

Il Signorelli, chiamato successivamente in Vaticano per decorare alcune stanze pontificie, preferì rinunciare all’incarico della Confraternità, in quanto evidentemente meno prestigioso.

Quella di Lorenzo Lotto fu, dunque, per la Confraternita, una scelta, per così dire, di “ripiego”, favorita probabilmente da una segnalazione dell’umanista jesino Angelo Colocci, all’epoca Segretario Apostolico presso la Curia Romana ed estimatore delle doti artistiche del pittore veneziano.

La Pala - straordinario capolavoro oggi  esposta nella Pinacoteca Civica di Palazzo Pianetti -  rende chiara testimonianza del grande ruolo acquisito dalla Confraternita di ispirazione francescana, la cui azione si indirizzò anche sul versante dell’assistenza sanitaria fino alla soppressione decretata nel 1781, dopo oltre tre secoli e mezzo di attività.





UN CALICE  AVVELENATO PER FRATE GIACOMO





“Dum enim sanctissimus noster papa Nicolaus V, 1449, de mense novembris, miserat venerabilem patrem fratrem Ioannem de Capistrano et me fratrem Iacobum de Marchia, ordinis minorum, ad reducendum illa castra haeretica Maioreti, Massatii, Podii et Meruli – quae reducta sunt ad gremium fidei et abiurata sunt in manibus nostris…” (Dialogus contra fraticellos, n.111)

Dunque, nel 1449, Jacobus de Marchia, ovvero S. Giacomo della Marca, si trovava a Jesi insieme a Giovanni da Capestrano. Quell’anno segna la vittoria finale sulla setta eretica dei “fraticelli”, diffusa nella Vallesina, con insediamenti particolarmente consistenti a Maiolati, Poggio Cupro, Mergo e Massaccio (l’odierna Cupramontana).

L’opera di “normalizzazione” – culminata con la condanna al rogo di circa una decina di fraticelli – era iniziata 25 anni prima. Per combattere la setta, Giacomo aveva incardinato un gruppo di francescani nel monastero camaldolese della Romita, con lo scopo di presidiare la zona.

Ma chi erano e cosa volevano i tanto temuti fraticelli?

Chiamati anche Michelisti (dal nome di Michele da Cesena che abbiamo già conosciuto come superiore generale dell’Ordine, poi scomunicato e proscritto) in nome della Povertà, avevano assunto atteggiamenti di aperta ribellione contro la Chiesa, ormai considerata retta da Papi illegittimi, a partire da Giovanni XXII (morto nel 1334) accusato di simonia.

E’ lo stesso Giacomo della Marca che nel celebre “Dialogo contro i fraticelli”, immaginando uno scontro dialettico tra un cattolico e un fraticello, fa dire a quest’ultimo: “Noi vedemo che li primi fundatori de la fede cristiana fondarno la sancta chiesa in omne sanctita insegnando et ammaestrando cum parole et cum facti, como se devesse desiderare et abracciare le cose celestiale et rinunciare et desprecare le cose terrene. Et non adunando et multiplicaro tanti campi, tante possessione et ricchece, ne le quale et per le quale la mente humana se suffoca et perisce, si como fanno oggedi li prelati ecclesiastici. Noi honoramo Cristo et li suoi apostoli dicendo et tenendo che loro non havero alcuna cosa, ma como homini celestiali cercavano solo le cose celestiale et non le cose terrene como homini terreni” (nn. 64 e 82).

Tali posizioni di radicale fedeltà al Vangelo, secondo la storiografia di tendenza ecclesiastica non vennero suffragate da comportamenti coerenti.

A Cupramontana, in via Bovio, sono tuttora riconoscibili i resti di un antichissimo edificio (probabilmente un serbatoio dell’acquedotto di epoca romana) tradizionalmente chiamato “barlozzo”; secondo la leggenda tale edificio era luogo di notturno convito dei fraticelli per celebrare cerimonie orgiastiche.
Giacomo accredita, in capo agli eretici, la nomea di empietà: “Io frate Giacomo, dell’Ordine dei Frati Minori, grido a tutto il mondo e testifico di fronte a Dio che tutti questi fraticelli contro i quali io e frate Giovanni da Capestrano fummo inquisitori, li abbiamo riscontrati che sono scellerati, fornicatori, sodomiti e abili ingannatori di donne, sebbene alla faccia delle persone appariscano uomini santi e celestiali”.

Proprio a Cupramontana, i fraticelli tentarono di assassinare S. Giacomo propinandogli del vino avvelenato durante la Messa: al momento della Consacrazione, tuttavia, la testa di un serpente si disegnò sul fondo del calice.

Il francescano provvidenzialmente si avvide del pericolo ed ebbe salva la vita.

Uguale sorte non era toccata, venti anni prima, ad Angelo da Massaccio, altro implacabile difensore dell’ortodossia, il quale morì martire per mano dei fraticelli l’8 maggio del 1429.

Di rilevante interesse è lo stralcio di un verbale relativo ad un processo tenutosi a Roma nel 1466 contro alcuni eretici (fonte: codice vaticano latino 4012): tra i fraticelli sottoposti ad inquisizione all’interno di Castel S. Angelo (per lo più mediante utilizzazione di sistemi di tortura) spicca la figura di Niccolò da Massaccio, assurto ai vertici della gerarchia della setta con il titolo di Vescovo.

Sono ben 17 i capi di imputazione che i Commissari dell’Inquisizione (Stefano, Arcivescovo di Milano, Roderigo, Vescovo di Zamora, Niccolò, Vescovo di Lesina e frate Giacomo di Egidio, maestro di Sacro Palazzo) contestano al Vescovo dei fraticelli.

In particolare, vengono chieste spiegazioni in merito all’empio rito del “barilotto” ed alla cerimonia cosiddetta delle “polveri”.

Niccolò da Massaccio conferma il carattere orgiastico della pratica del barilotto: dopo la celebrazione della Messa eretica, spente le luci e pronunciate le parole “Alleluia, alleluia”, ogni fraticello si congiungeva carnalmente con una donna, ritenendo di compiere atto supremo di carità.
Quanto alle “polveri”, pare che tale rito assumesse i connotati dell’infanticidio: “I fraticelli, riuniti in una chiesa, sinagoga o luogo, talvolta accendevano un grande fuoco, ponendosi intorno a circolo, e prendevano un bambino nato tra loro e concepito nei detti adulteri; intorno a quel fuoco si passavano il bambino di mano in mano l’un l’altro fino a che questo rimaneva morto ed essiccato, e quindi ne facevano polvere, la ponevano in un recipiente da vino e al termine della loro perversa messa ne davano da bere ai presenti”.

E’ da rilevare, peraltro, che tali agghiaccianti descrizioni, estorte mediante metodi coercitivi, sono accolte con riserva dagli storici. Purtroppo il panorama delle fonti è pressoché unilaterale e risulta alquanto problematica una ricostruzione obbiettiva dei fatti.

Resta il fatto che il repertorio delle accuse rivolte ai fraticelli (antropofagia, licenze sessuali e omicidi rituali) costituisce uno stereotipo utilizzato in sede inquisitoria anche contro altre esperienze ereticali.

In epoca recente, lo scrittore cattolico inglese Gilbert Keith Chesterton (1874-1936) ha espresso un giudizio durissimo in merito all’esperienza dei fraticelli:

“I Fraticelli si dichiararono i veri figli di San Francesco e si sottrassero alle condizioni imposte da Roma, in omaggio a quello che chiamavano << il programma completo di Assisi>>. In pochissimo tempo, questi bislacchi francescani apparvero feroci come i Flagellanti. Lanciavano violenti anatemi, denunciavano le unioni matrimoniali, minacciavano l’umanità. In nome del più umano fra i santi, dichiaravano guerra al genere umano.
Non fu la persecuzione ad annientarli: alcuni, alla fine, si convertirono e gli altri non realizzarono niente che avrebbe potuto, seppure lontanamente, ricordare il vero San Francesco. Quella gente era formata da mistici, che non erano null’altro che mistici; mistici ma non cattolici, mistici ma non cristiani, mistici ma non uomini.
E deviarono dalla giusta via, perché non vollero ascoltar ragione, nel vero senso della parola”.





UNO STATUTO DI IMPRONTA FRANCESCANA


                                                            




Dopo la morte di Federico II (1250), si acuiscono le tensioni tra l’Impero e i Comuni e diviene  pressante la necessità di regolamentare la vita pubblica ed i rapporti civici attraverso una legislazione codificata.

Jesi, come altre città della Marca, agli albori dell’età comunale si dota di propri Statuti che costituiscono lo strumento concreto della potestà legislativa e rappresentano il baluardo dell’autonomia .

Alla metà del ‘300 si rende necessaria una prima revisione delle norme statutarie, al fine di conformarsi al dettato vincolante delle “Constitutiones Albornotianae” (1357), opera del cardinale e condottiero Egidio Albornoz che aveva ricevuto l’incarico di restaurare l'autorità papale negli antichi territori della Chiesa.

Ulteriori modifiche ed “additiones” statutarie interverranno nei decenni successivi, quale conseguenza della mutevole sorte del potere comunale, in base all’alternarsi delle fazioni al comando.
Dopo gli sconvolgimenti che avevano caratterizzato la Signoria dei Simonetti e di Braccio da Montone, il Consiglio Generale della Città, il 5 maggio 1426, stabilisce una nuova revisione degli Statuti e chiama in aiuto l'autorevole giurista ed insigne esponente dell’Osservanza, Frate Giacomo della Marca: “quid placet ordinari et reformari super novis statutis fiendis secundum quod voluit frater Jacobus de Monte Brandono qui fuit in hac civitate ad predicandum”.

La traccia per la revisione normativa sarà costituita dagli Statuti di Recanati, alla cui stesura aveva partecipato il francescano di Monteprandone.

Tuttavia  nuovi  sconvolgimenti politici legati all’avvento della signoria di Francesco Sforza bloccheranno il tentativo di riforma per oltre 20 anni, sino a quando, nel 1448, verranno finalmente designati quattro Statutari che porteranno a compimento il lavoro di revisione  nel 1450.

Gli Statuti, ispirati ad una visione religiosa tipica della società sacrale del XV secolo, si aprono con un Proemio contenente una solenne invocazione:

Nel nome di Gesù (i quattro Statutari) fecero, stabilirono, ordinarono e decretarono gli Statuti a lode gloria e riverenza dell’ineffabile Trinità, dell’altissimo Gesù e della sua alma e beatissima Madre, gloriosissima Vergine Maria, e dei beati Apostoli Pietro e Paolo, e dei beatissimi confessori gloriosissimi San Settimio e San Floriano sotto la cui felice tutela questa Città, ha meritato di proclamarli protettori, governatori, intercessori e difensori del Comune e del popolo della Città di Jesi, del suo Contado e Distretto, e di tutti i Santi e Sante di Dio e di tutta la Curia celeste trionfante. E ad onore, felice stato e riverenza della Sacrosanta Romana Chiesa, a esaltazione e trionfo del Santissimo Padre in Cristo Nicolò V, per volere della divina Provvidenza degnissimo Papa, che ha liberato la nostra città dalle mani dei tiranni”.

Ai fini della comprensione delle caratteristiche della società del tempo è di grande interesse lo studio dell’assetto normativo concernente la difesa della religione e della moralità pubblica.

Pesanti sanzioni pecuniarie furono previste contro i bestemmiatori e gli autori di delitti perpetrati all’interno di edifici di culto o durante le festività.

La violenza perpetrata contro una donna sposata di buona condizione era punita con l’ammenda di 300 libbre. Colui che ha commesso violenza contro “una monaca a Dio consacrata, o un’altra donna vergine o no, a Dio dedicata, se l’ha conosciuta carnalmente, o l’ha portata via dal monastero, sia punito con l’estrema pena capitale”.

L’incontro carnale con un consanguineo o affine, consumato da persona di età superiore a 18 anni era punito con la pena capitale; analogamente chi si fosse reso colpevole di sodomia doveva essere “bruciato con il fuoco”.

Nonostante l’esplicita impostazione religiosa degli Statuti, ad alcuni Jesini, sembrarono non pienamente recepiti i principi di moralità promossi dai francescani dell’Osservanza.

Fu per questo motivo che, secondo il racconto di Giovanni Annibaldi senior, Frate Giovanni da Capestrano fu invitato più volte a Jesi per “tuonare dal pergamo” affinché venissero introdotte negli Statuti norme ancora più severe a salvaguardia della morale, come, ad esempio, quelle riguardanti l’abbigliamento femminile:

“Le donne non portassero vesti con divise, né frappe o fronsoli e che di esse vesti non si trascinasse oltre un terzo di braccio, pena dieci ducati, tanto per le donne quanto per i sartori”.

Le frequenti richieste di intervento per la soluzione dei problemi più disparati, rappresentano la più evidente testimonianza dell'autorevolezza degli esponenti dell'Osservanza. Nonostante l'età avanzatissima, nel 1471 il Consiglio decise di inviare un ambasciatore a Fermo per contattare Giacomo affinchè tentasse di comporre la secolare discordia tra Jesi e Ancona (...et quod mictatur unus orator Firmum ad fratrem Jacobum de Marchia eum rogando quod dignetur huc venire et Anconam ad procurandum et ordinandum pro pace et concordia inter Anconitanos et Exinos).

Non conosciamo l'esito di quell'appello. A giudicare dalla qualità dei rapporti tra Jesini e Anconetani nel corso dei secoli successivi e sino ai nostri giorni, saremmo propensi a credere che, almeno quella volta,  il quasi ottantenne Giacomo non sia intervenuto!




CONTRO LA PIAGA DELL’USURA:
 UN BEATO AL CONSIGLIO DI CREDENZA




La condanna dell’usura ha una derivazione biblica, ma anche filosofica.

Nell’Antico Testamento sono numerosi i passi in materia:
 Signore, chi abiterà nella tua tenda? Chi dimorerà sul tuo santo monte? Colui che cammina senza colpa, agisce con giustizia, parla lealmente e presta denaro senza fare usura” (Sal 14).

“Se tu presti denaro all’indigente che è presso di te, non ti comporterai con lui da usuraio, non gli imporrai alcun interesse” (Es 22, 24).

“Se tuo fratello cade in miseria e manca nei suoi rapporti con te, lo aiuterai come un forestiero o un ospite, ed egli vivrà presso di te. Non presterai  il denaro per trarne un profitto, né gli darai il vitto per ricavarne interessi” (Lv 25, 35-37).

Anche numerosi filosofi, da Aristotele a Catone, condanneranno l’usura in base alla considerazione che il denaro, per sua natura, è sterile e non produce frutti; pertanto la richiesta di interessi è da considerarsi un comportamento contro natura.

Anche i Padri della Chiesa, da Ambrogio ad Agostino, confermeranno e rafforzeranno il tradizionale orientamento.
Gli Ebrei, sommamente devoti agli insegnamenti dell’Antico Testamento, giustificavano la loro attività usuraria sulla base di una particolare interpretazione di un passo del Deuteronomio: “Non farai al tuo fratello prestiti a interesse, né di denaro, né di viveri, né di qualunque cosa che si presta a interesse. Allo straniero potrai prestare a interesse, ma presterai senza interesse al tuo fratello” (Dt 23,20). Nella concezione ebraica i cristiani venivano equiparati agli stranieri.

Nel suo libro intitolato “Tabula della salute” (1494), Marco da Montegallo, il primo apostolo dei Monti di Pietà, escogitò un originale espediente retorico per colpire la fantasia del popolo sull’abnormità del prestito ad usura, all’epoca praticato da banchieri senza scrupoli.

L’usuraio che accumula il denaro impedendone il reinvestimento produttivo costituisce una grave minaccia per la vita sociale e per l’economia cittadina.

Marco calcolava, in linea teorica, il valore monetario conseguibile prestando 100 ducati al tasso del 30 % annuo per un periodo di 50 anni, corrispondente alla sbalorditiva cifra di 49.792.556 ducati: ovvero 100 di capitale iniziale ed il resto derivante dal sangue dei poveri.

L’usuraio accumula su di sé una colpa colossale pari al suo strabiliante guadagno: altrettanto incalcolabili saranno i meriti di chi offrirà denaro per la costituzione del Monte di Pietà.

In altri termini, il Monte viene considerato come un efficace strumento di carità cristiana, simbolo delle opere di misericordia corporale, indispensabili al fedele per conseguire la vita eterna.

Nell’arco di meno di 50 anni, per impulso di Marco da Montegallo e dei suoi confratelli (tra i quali Gabriele da Jesi), furono istituiti nelle Marche ben 28 Monti di Pietà.

A Jesi, nella prima metà del ‘400, la licenza per l’esercizio del prestito è monopolizzata da un banchiere ebreo chiamato Benedetto. Lo stesso Comune, in una fase di forti difficoltà economiche, si vede costretto a rivolgersi a Benedetto per ben tre volte nell’arco di un quinquennio (1431, 1434 e 1435).

Le condizioni vessatorie praticate dal Banco (il tasso di interesse risultava pari al 30%) suscitano la dura reazione del Vescovo Eugenio: Benedetto viene diffidato a ridurre il tasso al 12% per i prestiti in corso e al 15% per i futuri. Allo scadere delle licenza il banchiere dovette, presumibilmente, lasciare la città, ma l’attività di prestito continuò per oltre un secolo attraverso la famiglia ebrea dei Vivanti, riconosciuta tra le più ricche della Provincia della Marca (“de primaribus reperitur inter hebreos provinciae  Marchiae”).

Al fine di combattere la tremenda piaga dell’usura, nel maggio 1470 il Consiglio di Credenza fu chiamato a decidere la proposta di espulsione degli Ebrei da Jesi e la contestuale istituzione di un Monte di Pietà.

L’iniziativa, sebbene autorevolmente sostenuta dal Consigliere Fiorano Santoni (“vir facundissimus et eloquens”) fu respinta di misura con 49 voti contro 43; l’esito del voto dimostra come, nonostante la reazione ostile contro l’usura, il Comune considerasse ormai indispensabile ed insostituibile, per la vita economica, l’attività di credito svolta dalla comunità ebraica.

Due anni dopo, il 15 marzo 1472,  la proposta di istituzione del Monte fu nuovamente presentata in Consiglio, questa volta, tuttavia, senza prevedere l’espulsione degli Ebrei.

Dall’analisi delle fonti, sembra verosimile che la  proposta venisse illustrata dal Beato Marco da Montegallo, il quale riuscì a convincere il Consiglio ottenendo un’approvazione con 132 voti contro 22 .

Le modalità organizzative del Monte di Pietà rivestono indubbio interesse storico: innanzitutto, la gestione faceva capo ad un Officiale ( di età non inferiore a 35 anni) che, per ragioni di imparzialità, doveva essere forestiero e non aver mai risieduto in città (per la cronaca, il primo Officiale di cui si ha notizia fu Ser Antonio Roberti da Fabriano, eletto nel 1474).

La nomina – di durata annuale, salvo proroga – veniva effettuata tramite un curioso meccanismo elettivo di doppio livello: in via preliminare doveva essere estratta a sorte una città marchigiana, scelta tra 8 precedentemente imbussolate. A quel punto, la città designata provvedeva a comunicare il nominativo del candidato alla carica di Officiale, sul quale, tuttavia, il Comune richiedente si riservava di esprimere il benestare.

Prima di essere assunto in ruolo, l’Officiale era tenuto a prestare giuramento davanti al Gonfaloniere ed ai Priori, con una cerimonia che aveva luogo nella Chiesa di S. Maria della Misericordia (poi denominata delle Grazie) davanti all’altare della Madonna.

In base alle scarse informazioni a disposizione, sembra che il funzionamento del Monte fosse  inizialmente alquanto precario, principalmente per l’inadeguatezza dei fondi di dotazione, aggravata anche dalle ripetute richieste di finanziamento avanzate proprio dal Comune.

Lo stesso Comune, peraltro, si vide costretto a lanciare periodiche sottoscrizioni pubbliche per incrementare la dotazione. A tali risorse si aggiungevano fortunatamente i proventi dei lasciti dei privati.

E’ evidente che, durante la fase non breve di difficoltà gestionale ed organizzativa, il Banco dei Vivanti continuasse ad operare, fino a quando non fu emanata, nel 1542, la Bolla del Cardinale Ascanio Sforza con la quale venivano imposte pesanti restrizioni all’attività degli ebrei (tra le quali il contingentamento dei Banchi e l’obbligo odioso di esposizione di un segno di riconoscimento).

Il clima montante di ostilità antiebraica indusse i Vivanti ad abbandonare la città.

Pur con un assetto organizzativo più volte riformato e nonostante periodiche crisi di liquidità, il Monte – concretizzazione di un’idea sociale tipicamente francescana – continuò la sua attività attraverso cinque secoli fino al 1941, anno di definitiva chiusura.

Secondo gli storici, è legittimo affermare che i Monti di Pietà rappresentano esperienze antesignane del moderno microcredito, in quanto informati a quel principio di “sussidiarietà orizzontale” che proprio in questi ultimi tempi è oggetto di  riflessione da parte degli economisti.





TENSIONI TRA CONVENTUALI E OSSERVANTI
















    





I proficui rapporti intercorsi con Giacomo della Marca e Marco da Montegallo, indussero il Comune a formalizzare un invito ufficiale ai Minori dell’Osservanza, affinché potesse essere costituito un convento a Jesi .

Con una prima proposta, risalente al 1450, il Comune offriva all’Osservanza la disponibilità della Chiesa di San Marco. Tale soluzione, tuttavia, si rivelò non percorribile a causa della ferma opposizione dei Conventuali.

Ulteriori difficoltà emersero nel 1469 e nel 1471, a fronte di altri inviti.
Finalmente, nel 1486, gli Osservanti accettarono di realizzare un insediamento a Jesi, ma solo dopo ulteriori cinque anni di trattative, nel 1491, iniziarono i lavori di costruzione di un nuovo convento con annessa chiesa intitolata a S. Francesco al Monte, nella zona nord della città.

L’edificio di culto - oggi non più esistente per le sciagurate motivazioni che avremo modo di approfondire in seguito -  sarà destinato ad ospitare opere di straordinario rilievo artistico tra le quali la celebre Madonna delle Rose (1526-27 c.) di Lorenzo Lotto e diversi capolavori di impronta francescana opera di Pietro Paolo Agabiti (San Francesco, tra S. Antonio e S. Bernardino, un Presepe in terracotta policroma invetriata).

Nell’altare maggiore della chiesa era allocato un altro dipinto di Agabiti (Madonna in trono con il bambino, San Giovanni Battista e S. Antonio da Padova, 1540 c.) di enorme interesse anche per il fatto di contenere l’illustrazione del paesaggio jesino dell’epoca: sulla destra sono, infatti, disegnate San Marco - chiesa madre dei francescani della Vallesina - con a fianco un campanile (oggi assente) e, probabilmente, la stessa S. Francesco al Monte.

La nobile famiglia jesina dei Colocci fu particolarmente legata alla chiesa, tanto da patrocinarvi una Cappella gentilizia dedicata al SS. Crocifisso, nel cui interno fu eretto un monumento funebre in memoria del consanguineo Giovanni Benedetto, religioso di straordinaria cultura morto d’asma a Roma nel 1695.

Diversi furono i membri della casata che vestirono il saio francescano: nel 1830 sarà Annibale Colocci a rinunciare ai diritti di primogenitura per entrare nel convento jesino dell’Osservanza con il nome di Padre Giuseppe.

Risale proprio all’800 un acquerello del Marchese Adriano Colocci raffigurante la Chiesa di S. Francesco al Monte, rappresentata in una conformazione architettonica non dissimile rispetto ad un rarissimo reperto fotografico di scarsa nitidezza, comunque di poco antecedente la  demolizione.


                                               Rarissima fotografia di S.Francesco al Monte




NELLA SELVA DELLA STERPARA


All’indomani del Capitolo dell’Acquarella (1529) la diffusione del movimento cappuccino fu imponente, in particolar modo nel territorio marchigiano.

Nel rispetto delle Costituzioni i conventi dovevano sorgere fuori dell’abitato in luoghi solitari, non troppo lontani dalla città perché l’eccessiva distanza avrebbe reso difficile l’accesso dei fedeli, ma neppure troppo vicini per preservare il clima di raccoglimento dei frati:

“Che li luochi tutti siano presi fuori delle città distanti per un miglio, o poco manco; et che detti luochi che s’hanno a pigliare, et fabbricare, sino sempre sotto il dominio delli padroni, ovvero delle città, et siano sempre presi con questa conditione, che ogni volta, che li trovasse impedimento alla vita nostra, li frati liberamente si possino partire, et quando alli padroni no’ piacesse che frati abitassero in detto luoco, senza alcuna conditione s’habbiano a partirsi et andare in altro luoco".

Nel 1541 il Comune di Jesi assegnò all’ultima nata tra le famiglie francescane, un terreno nei pressi della Selva della Sterpara in località Castellare (l’attuale Tabano). Ancora oggi, tra i  contadini della zona,  è tramandata la memoria di una via denominata “Cappuccini vecchi”, a ricordo del primo insediamento inaugurato il 5 ottobre 1544.

Il convento fu sede del noviziato ed ospitò, nel 1557, Serafino da Montegranaro, destinato a salire agli onori degli altari nel 1767.

L’eccessiva distanza dal centro urbano  e la scarsità d’acqua in loco, indusse i Cappuccini, dopo appena 50 anni, a vendere l’edificio e a costruire, con il ricavato, un nuovo convento in un’area messa a disposizione dalla Famiglia Nobili nella zona dell’Isolato Carducci, a 46 passi dalla città.

La nuova struttura, cui era annessa la Chiesa di San Michele, disponeva di ben 34 celle e fu inaugurata nel 1592.

La grande stima acquistata in pochi anni dai Cappuccini, fece sì che il Comune decidesse di aprire, nel 1605, un varco sulle Mura Occidentali, con lo scopo di agevolare l’accesso in città dei frati, anche in caso di attacchi al convento da parte di malfattori: il passaggio, situato in corrispondenza dell’attuale via Pietro Grizio, prese il nome, ancora oggi in uso, di “sporticello”.

Grazie alla preziosa collaborazione dell’amico Aldo Massaccio - ottimo conoscitore della zona di Montecappone e Tabano - è stato possibile individuare  ciò che resta dell’antico convento della Selva della Sterpara, purtroppo oggetto, nel corso di quasi cinquecento anni,  di profonde trasformazioni e radicali rimaneggiamenti architettonici.

La struttura, oggi in piena decadenza e inaccessibile per ragioni di sicurezza, ha avuto, negli ultimi secoli, una destinazione a fini abitativi, perdendo definitivamente la tradizionale conformazione di un convento francescano.

Tuttavia rimangono ancora visibili alcune testimonianze dell’originario edificio, quali la porta d’accesso situata al piano terra, di ragguardevole interesse.


















“ESSERE E NON PARERE E’ SANTITA' "




All'interno del movimento francescano, la questione della povertà continuò a tenere campo anche nei secoli XVII e XVIII.
Per gli appartenenti agli Ordini mendicanti, il Concilio di Trento aveva stabilito la facoltà di esercitare il possesso dei beni  "in communi", con divieto assoluto della proprietà privata.
L' orientamento fu duramente ostacolato, in particolare, dai frati di ceto nobiliare: celebre fu il caso del Ministro Generale dei Conventuali, Antonio Savioz D'Aosta, che nel 1566, in punto di morte, fece testamento.
Ripetuti comportamenti, in aperto contrasto con il voto di povertà, suscitarono la reazione veemente della Santa Sede che giunse, in un primo tempo, a minacciare la soppressione dell' Ordine dei Conventuali e, successivamente, a statuire la chiusura dei piccoli conventi in base alla nuova regola delle "12 bocche", da intendersi come numero minimo di religiosi per consentire la vita di una fraternità in condizioni di sufficiente autonomia finanziaria.

Per quanto riguarda Jesi, la decisione pontificia provocò l'assorbimento della comunità di San Marco da parte del convento di San Floriano (1620). Gli insediamenti “ruralia et silvestria” saranno, invece, definitivamente abbandonati.

Nonostante la stringente attività di controllo esercitata da Roma, gli atteggiamenti contraddittori in tema di povertà saranno destinati a perdurare.
Lo storico (nonchè frate conventuale) Gustavo Parisciani così descrive la vita delle comunità nel settecento: 

"Le religiose comodità aumentarono fino ad avere due, tre, quattro ed anche più stanze, ottimamente ammobiliate, con fratello laico di servizio, assegnamento di legna piccola e grossa per i vari caminetti. La moda non tardò a corrompere anche i frati: saie costose, fatte venire da Francia e da Olanda, dal colore sempre meno cinerino (ritenuto allora di disdoro), camicie di seta, scarpe con tacchi di legno e fibbie, calzetti di seta o colorati, coccarde al collo e fascettoni e cravattine, barbe coltivate, capelli arricciati, tuppè, cincinnature e perfino parrucche e grandi cappelli con fiocchi e fettucce (...) E , ovviamente, amici, giochi di carte e, verso fine secolo, cioccolato caffè e liquori, accesso a teatri e fiere, risse con altri religiosi e liti sostenute in tribunali, scandali morali senza fine".

Alcune problematiche penali riguardanti le comunità francescane vennero registrate anche nella nostra zona.
La cronaca giudiziaria del luglio 1811 riferisce di un ricercato sui generis: si tratta di un certo “Tommaso Fraticelli, ex laico dei Minori Riformati, nativo di Treja, di anni 45…capelli neri misti a bianchi tagliati alla villica, calvo in testa e tarlato dal vajolo, vestito alla villica. Reato: “Propinazione di veleno a cinque frati suoi compagni apprestato con fortissima dose di sublimato”.

D’altra parte la risposta al crimine, ancorchè perpetrato da religiosi, non fu affatto lieve neppure in ambiente francescano . A tale proposito possiamo leggere la dichiarazione di un certo Fra Bernardo di Chiaravalle, cappuccino, il quale, nella breve epoca repubblicana di fine settecento, denunciò all’autorità municipale la tremenda situazione carceraria: “Il convento dei cappucini della Città di Jesi è uno di quelli destinati a tormentare l’umanità capucinesca con un carcere forte e non troppo umano, le supeletili del quale sono li marettoni (?), la collana e li ceppi di ferro li più pesanti, che senza fare molta indagine si troveranno esistenti al convento dei cappuccini nella stanza denominata: la Comunità”.

In questo quadro non esaltante, emersero, comunque, fulgide figure di francescani.

Nella nostra terra il secolo XVIII , “metà razionalista e metà epicureo”, reca l’impronta del frate conventuale P. Angelo Antonio Sandreani, definito l’Apostolo della Vallesina.

Nato ad Arcevia nel 1675, abbracciò l’ideale francescano, sino ad assumere la carica di superiore della fraternità di Jesi dal 1734 al 1752, anno della sua morte.
Teologo di solida dottrina, maestro di spiritualità, consigliere di Vescovi e di Papi (tra cui il marchigiano Clemente XVI), predicatore dalla parola ardente, seppe unire l’azione al nascondimento.

Al proposito è nota una sua massima che ripeteva di frequente per sé e per gli altri: “Non essere e parere è vanità; essere e parere è verità; essere e non parere è santità”.

Rifiutò, con gesto umile, la designazione episcopale preferendo rimanere nell’amata Vallesina.
E’ in corso la causa di beatificazione.























GIOVANNI BATTISTA PERGOLESI: UN DESTINO FRANCESCANO




E’ il 16 marzo del 1736.
Un compositore di appena 26 anni muore, consunto dalla tisi, in una cella del convento dei Padri
Cappuccini di Pozzuoli.
Il suo nome è Giovanni Battista Pergolesi e, sebbene povero, lascia in eredità una musica di sublime purezza.
La sua fama è già assurta ai vertici europei, quale massimo esponente dell’Opera Buffa (A Parigi
La Serva Padrona” sarà rappresentata per 190 serate consecutive!).
Sul letto di morte è rapito in estasi dinnanzi all’immagine della Madonna Addolorata , colei che considerava la sua celeste musa per la scrittura dello Stabat Mater, il grandioso capolavoro, portato
a compimento appena pochi giorni prima della fine:

Stabat Mater dolorosa
iuxta Crucem lacrimosa,
dum pendebat Filius

Il mondo della musica si inchinò di fronte a quell’opera:
“Udii lo Stabat di Pergolesi e ne fui commosso fino alle lacrime. Quella musica raggiunge l’ultima bellezza” (Gioacchino Rossini).
“Lo Stabat di Pergolesi è il poema del dolore” (Vincenzo Bellini).
“Non ascolto mai lo Stabat Mater senza un oscuro desiderio di lacrime. Per quanto grandi siano i maestri, che verranno di poi, essi non sorpasseranno mai l’autore dello Stabat. Solo Mozart potrà uguagliare Pergolesi” (Camille Bellaigue).
“Pergolesi è un genio superiore, il suo lavoro di compositore è un esempio sublime, lo Stabat è un
capolavoro” (Richard Wagner).
 “Quando sentii per la prima volta lo Stabat Mater mi vennero le lacrime agli occhi per la grande
commozione che mi prese (Johann A.P. Schulz).
“Avrei dato tutta la mia musica, se mi fosse stato dato di comporre lo Stabat di Pergolesi” (Gaetano
Donizetti).

Il lettore ci consenta di abbandonare, per un momento, l’ambientazione jesina del nostro racconto,
per fare tappa nel Golfo di Napoli.
Lo spunto per questa deviazione geografica è fornito da Padre Pietro Rossi che nella sua opera “Il
capolavoro di San Francesco” annovera Pergolesi tra i professi del Terz’Ordine!
La notizia - che è veramente sensazionale e farebbe di Pergolesi il più illustre dei Terziari nati a Jesi - non trova conferma nelle principali biografie.
Se potessimo, tuttavia, applicare alla ricerca storica un famoso adagio in voga tra gli investigatori (“una coincidenza è una coincidenza, due coincidenze costituiscono un indizio e tre coincidenze
fanno una prova”) dovremmo, quanto meno, riconoscere le tracce di un destino francescano in tutta la vita dell’artista.

Giovanni Battista Pergolesi nacque in un’abitazione a fianco del Palazzo della Signoria il 4 gennaio del 1710 da Francesco Andrea e Anna Vittoria Giorgi e venne battezzato, il giorno stesso, nella  Cattedrale di San Settimio. Il padre oltre alla professione di perito agronomo e di sergente della pubblica milizia era amministratore di quella Confraternita del Buon Gesù, fondata da San Giacomo della Marca tre secoli prima (e siamo alla prima coincidenza!).

Le straordinarie capacità artistiche dimostrate sin da fanciullo, convinsero la famiglia Pergolesi, grazie al sostegno economico del Marchese Pianetti, ad iscrivere il sedicenne Giovanni Battista al Conservatorio napoletano dei Poveri di Gesù Cristo.

Napoli, con i suoi quattro Conservatori, era, all’epoca, una delle capitali internazionali della musica. Il Conservatorio prescelto per Pergolesi aveva una singolare caratteristica: era stato fondato nel 1590 dal terziario Marcello Fossataro e, nella sua impostazione, si ispirava a principi educativi di matrice francescana (e siamo alla seconda coincidenza!).

E’, quindi, certo che, durante gli anni di permanenza, a Pergolesi venisse impartita, oltre ad una   solida istruzione musicale, anche una rigorosa formazione religiosa.
Addirittura gli studenti del Conservatorio avevano l’obbligo di indossare, come divisa, il “panno  bigio francescano” (Radiciotti).
Anche la storia dell’amore infelice di Pergolesi per la nobile Maria Spinelli è segnata da una         dolorosa svolta con esito claustrale.

Scrive il biografo Florimo:
Giambattista Pergolesi fu vittima d’un amore infelice; ed io, per la storia di questo amore,riporterò trascritto letteralmente il seguente brano ricavato da private carte. “Nella prima metà del decorso secolo si presentarono un giorno in questa città a Maria Spinelli i tre fratelli di lei,e colle spade sguainate le dissero: come fra tre giorni ella non iscegliesse a sposo un uomo pari a lei per l’altezza del nascimento, con quelle tre spade avrebbero trafitto e morto il maestro di musica    Giovan Battista Pergolesi di lei amante riamato; e sì dicendo partirono. Fra i tre giorni               ritornarono alla sirocchia: costei loro disse aver prescelto a sposo un Essere sublime, poiché il suo sposo era Iddio, domandando andare monaca a S. Chiara, si veramente che la messa di               monacazione si avesse a dirigere da quel maestro di musica che ella aveva cotanto amato,e che ora mandava in oblio rivolgendo tutta l’anima sua solo ai celesti affetti. E così fu fatto.
L’anno appresso il dì 11 marzo 1735 funebri rintocchi della campana di S. Chiara annunziavano mestamente funerali. In quel tempio celebravasi la messa di requie di Maria Spinelli, e dirigevala Giovan Battista Pergolesi!”.

Appena un anno dopo, nello stesso mese di marzo, il musicista moriva nel convento di Pozzuoli.
Già gravemente malato, era stato accolto dai Padri Cappuccini ( e anche questa è una terza          coincidenza non da poco) nella speranza di poter beneficiare di un situazione climatica migliore per la sua salute.
Per riconoscenza e affetto verso i Padri Cappuccini, Pergolesi dedicò ai frati uno “scherzo”           musicale intitolato: “ Venerabilis barba inculta cappuccinorum”.


LA CAPITALE DEI “BOZZI BONI”



















Il prestigioso titolo di “piccola Milano delle Marche”, evoca, a partire dalla prima metà del XIX secolo,  l' epopea industriale della città di Jesi nel settore della produzione della seta.

Pochi numeri sono sufficienti per comprendere l'effettiva importanza dell'attività serica nel contesto economico locale.

Nel 1837, per opera del pioniere Pasquale Mancini, nasce la prima filanda, situata in via dei Macelli (oggi via Castelfidardo) nei pressi del Vallato: nel breve arco di un anno,  la produzione di bozzoli salirà da 129.000 a 175.000 libbre.

Venti anni dopo, nel 1858, le filande diventeranno sette per arrivare al numero di dodici agli albori del nuovo secolo.

All’epoca, su una popolazione di 23.000 abitanti, si conteranno ben 1.055 operaie occupate negli stabilimenti cittadini.

Non molti sanno che la straordinaria avventura jesina della seta ha radici francescane, grazie all'opera del frate conventuale P. Vincenzo Rinaldi, nato a S. Anatolia (oggi Esanatoglia) nel 1779, laureato in Filosofia, Teologia e Scienze, ma anche valente cultore di agronomia.

Alla professione di insegnante presso il Ginnasio di Jesi, Padre Rinaldi abbinò l’impegno di studioso  in materia di produzione del baco da seta: in una serie di convegni scientifici di settore, il francescano ebbe l’opportunità di presentare una tipologia innovativa di bigattiera, che riscontrò un consenso unanime. 

Per impulso di Padre Rinaldi e sotto l’egida del lungimirante Cardinale Pietro Ostini, Vescovo di Jesi, nacque, nel 1838, la Società Agraria Jesina, fondata da  63 soci, tra i quali figuravano personalità del calibro di Gaspare Spontini.
La presidenza del sodalizio venne affidata al Gonfaloniere Alessandro Ghislieri, mentre al Rinaldi fu demandato l’incarico di organizzare una scuola tecnico-pratica di agricoltura, con l’obiettivo di addestrare le nuove generazioni di contadini, in età compresa tra i 14 e i 18 anni, alla coltivazione del baco secondo metodologie moderne.

A due anni dalla fondazione, il numero dei membri della Società salì ad oltre 100, con unanime compiacimento per  gli obiettivi raggiunti, come risulta da una relazione del segretario:
“Torna poi a sommo onore ed utile di questa Città l’educazione dei vermi da seta ed il felice loro risultato. Non più in uso l’antico barbaro disutile sistema; ma bigattaje si vedono erette nell’abitazioni della Città, nelle case di signorile villeggiatura e nei rusticani ricoveri.
La seducente ed utile qualità delle gallette delle bigattaje jesine e de’ limitrofi paesi ha in quest’anno maggiormente attirato la folla de’ compratori in questa piazza che è arrivata a gareggiare colle più rinomate dei dintorni”.

Nel 1841, nonostante i brillanti risultati conseguiti, Padre Rinaldi, per motivazioni mai rese pubbliche,venne  trasferito in altra città e dovette abbandonare la sua benemerita attività didattica.

Invano si tentò, attraverso appositi bandi di concorso,  di trovare un  sostituto, tanto che nel 1843 il Presidente della Società Agraria si vide costretto a rivolgersi ad uno stretto collaboratore del Papa Gregorio XVI  per perorare il ritorno a Jesi di Padre Rinaldi:
La lontananza, avvenuta per Sovrana disposizione da questa Città da circa un anno del P. Rinaldi appartenente a questo Convento dei PP. Conventuali, già Professore di Scuola in questa Società di Agricoltura, mi offre motivo di venire a incomodare la S.V. per tale circostanza.(…) In tale stato di cose si aprì il Concorso ma senza alcun risultato, nessuno essendosi presentato; ed è perciò che per procurare la continuazione di que’ vantaggi che sonosi già ottenuti in diversi rami, come risulta dagli atti di questa Società, mercè le istruzioni del predetto P. Rinaldi, il quale se non possiede una estesa teoria, è però fornito di molta prattica, cosa la più essenziale nella scienza Agraria, vengo a pregare la bontà della S.V.I.R.(…) allorchè ciò non sia contrario alla intenzione di Nostro Signore, di interporre la valevole sua mediazione per ottenere dalla stessa S.S. il permesso che il medesimo P. Rinaldi possa stabilmente tornare in questo Convento ed essere di vantaggio a questa Società di Agricoltura come lo fu in addietro”.

Successivamente, anche il cardinale Lambruschini, Segretario di Stato della Santa Sede, venne investito della problematica dal Ghislieri.

Grazie all’intervento del  nuovo Vescovo Corsi, nel 1846 Padre Rinaldi ritornò a Jesi, per trovarvi morte dopo appena pochi mesi.  

Soltanto nel 1849 - dopo 8 anni di “cattedra vacante” -  fu individuato nella persona di Antonio Galanti il successore di Padre Rinaldi. Il nuovo titolare ebbe parole di elogio per il francescano: “caldo amatore dell’arte, benemerito della scienza agraria e milite coraggioso contro il pregiudizio che allora fervea maggiore”.

Toni meno diplomatici utilizzò il marchese Giacomo Ripanti nel suo studio dal titolo: “Cenni sull’industria della seta in Jesi”, laddove non mancò di evidenziare come rimasero “svergognati e confusi” quanti avevano diffidato di Padre Rinaldi e dei suoi primi seguaci, considerati come “inopportuni novatori”.

Lo stesso Ripanti sintetizzò in un solo pensiero, l’esito di quella “rivoluzione” agricola ed industriale che aveva visto Padre Rinaldi tra i protagonisti principali: “Le sete di Jesi, prima tenute a vile anzi a dispregio, sono assai in credito fin sui mercati di Londra”.






1860: GARRISCE IL TRICOLORE


Il 18 settembre 1860, nella zona di Castelfidardo, si combatté la celebre battaglia che sancì la vittoria dell’esercito Sardo su quello Pontificio, determinando una svolta definitiva nel cammino verso l’unità d’Italia.

Tre giorni prima, nel primo pomeriggio del 15 settembre 1860 il vento risorgimentale  squassò la Jesi papalina.

Il Reggimento dei lancieri di Milano oltrepassò Porta Marina (oggi Porta Bersaglieri), mentre, nello stesso giorno, migliaia di uomini si accamparono lungo le rive dell’Esino, in previsione dell’imminente trasferimento sul teatro della battaglia.

Un anonimo cittadino dell’epoca così descrive i sentimenti della popolazione jesina  all’arrivo delle truppe: “Nella sera illuminazione per tutta la città con bandiere a tre colori e coperte per tutte le finestre tutto il giorno, e la Banda cittadina andette incontro alla truppa (...) le signore con gli uomini che facevano a gara a chi potesse accompagnarsi al passeggio chi con gli ufficiali e chi con i (soldati) comuni e così in seguito si farà tutti con la cucarda a tre colori, bianca, rossa e verde”.

L’atteggiamento degli intellettuali anticlericali verso il governo del Papa Re è sintetizzato in un passo delle Ricordanze della mia vita di Luigi Settembrini, scritto all’indomani della caduta del potere temporale: “I popoli che formavano lo Stato della Chiesa erano, fra tutti gli italiani, i più straziati, perché avevano sul collo i preti e gli stranieri…I preti governavano coi codici dei sette peccati mortali; e chi non ha conosciuto il governo dei preti non sa quale sia l’ultima tirannide, la quale ormai è caduta perché Dio e gli uomini erano stanchi di tante scelleratezze”.

Il 4 e 5 novembre ebbe luogo il plebiscito per l’annessione al nascente Regno d’Italia:  su una popolazione di poco meno di 18.500 unità, i votanti furono 3361 di cui  3342 favorevoli.
Il 5 gennaio 1861 si tennero le prime elezioni amministrative: questa volta i votanti furono 144 (non erano ammessi gli analfabeti e coloro che non pagavano almeno L.15 di tasse annue)  ed elessero un Consiglio comunale composto quasi esclusivamente di ricchi possidenti.
Primo sindaco venne eletto il Conte Marcello Marcelli Flori che nel discorso di insediamento non esitò ad attaccare con veemenza “la mala signoria clericale”.

Nel frattempo il Regio Commissario Generale Straordinario delle Province delle Marche Lorenzo Valerio, di stanza a Senigallia, avviò una profonda trasformazione civile e politica della Regione, distinguendosi per una forte politica di contrasto verso il mondo ecclesiastico.
Durante i quattro mesi nei quali rimase in carica, Valerio emanò ben 840 decreti che ribaltarono completamente l’assetto delle Marche.
In particolare, con il Decreto n. 815 dell’11 gennaio 1861 Valerio iniziò una capillare opera di soppressione e incameramento dei beni delle corporazioni religiose.
Nella Diocesi di Jesi i beni della Mensa Vescovile, del Capitolo, delle Confraternite, delle Collegiate e delle Opere Pie vennero espropriati, per essere assegnati ai Comuni o ad Enti di beneficenza laici di nuova istituzione oppure per essere venduti.

Il provvedimento era perfettamente in linea con gli indirizzi di ispirazione antipapalina propugnati dal nuovo governo.

A seguito dell’incameramento, “ingenti beni terrieri vennero rivenduti con lo scopo di riassestare il bilancio; in tal modo venne introdotta sul mercato una grande quantità di terreni che, a parole destinati ai contadini, di fatto furono acquistati, spesso a prezzi minimi, da ricchi borghesi o, nel Sud, dai già ricchi proprietari di terre che in tal modo rafforzarono ulteriormente la loro posizione di predominio sulle masse arretrate dei contadini. Contemporaneamente fu istituito un fondo per il culto che doveva in parte risarcire il clero dell’avvenuta confisca dei beni ecclesiastici (…) Tutto questo in piena coerenza con un certo spirito laico e anticlericale che aveva animato e animava il risorgimento italiano”(Fabietti).

Per focalizzare la tragica sorte delle comunità francescane presenti nella Diocesi di Jesi, basti ricordare che il Decreto Valerio provocò l’immediata espulsione dei Conventuali da San Floriano.
Nessun esito sortì la richiesta di alcuni frati di poter restare nel convento stante l’impossibilità di fare rientro nei paesi di provenienza: a grande maggioranza, il Consiglio Comunale rigettò la proposta.
La chiesa venne sconsacrata e nel 1869 diventò sede della biblioteca comunale. I locali dell’ex convento divennero sede di istituti scolastici.

Nel 1866 i Padri Minori Riformati vennero cacciati dal convento di San Francesco al Monte: la loro chiesa venne demolita e l’annesso convento fece posto alla Casa di Riposo, ancora in funzione. Dell'antico edificio si è conservato soltanto il portale di pietra,  collocato in una parete dell'atrio del Palazzo della Signoria.

Anche i Cappuccini dovettero abbandonare il loro convento (situato nell’isolato Carducci) per trovare rifugio nella Chiesa di San Bernardo presso Palazzo Pianetti  in via Valle.

Analoga sorte subirono gli altri conventi francescani della Vallesina: gli Osservanti furono cacciati da Montecarotto (il loro convento sarà trasformato in Ospedale)  come anche i Frati Neri dovettero allontanarsi dalla Romita di Massaccio (Cupramontana).

La ristrettezza dei locali dell’ex convento di San Floriano, indusse il Ministero della Pubblica Istruzione ad individuare una più adeguata sede per il Regio Istituto Tecnico Pietro Cuppari. Nel settembre del 1880 venne annunciato l’intendimento di requisire il Convento della S.S.Annunziata (oggi in vicolo Angeloni), legittimamente  abitato sin dal 1664 dalle Clarisse.

In una lettera del 24 dicembre dello stesso anno indirizzata al Ministero, il marchese Mereghi tentò di scongiurare la realizzazione del progetto, dichiarandosi pronto a chiedere udienza anche a Sua Maestà Re Umberto pur di impedire l’espulsione delle monache “che sono in perfetta regola con la legge (…) ed hanno le educande delle primarie famiglie di Jesi”

La presa di posizione del “reazionario” Mereghi provocò l’immediata risposta della fazione anticlericale. Nel giro di pochi giorni vennero presentate al Sindaco di Jesi ben tre petizioni favorevoli alla soppressione del convento.

La prima petizione fu firmata da esponenti del mondo politico cittadino e da professori scolastici (tra gli altri, i consiglieri comunali Ruggero Rosi, Antonio Gianandrea, Guglielmo Guglielmi, Marcello Marcelli, Alessandro Ferri, Antonio Colocci, il Preside Antonio Mogni, il docente Arzeglio Felcini): “I sottoscritti, venuti a cognizione che il partito reazionario chiede la conservazione delle monache clarisse nel convento da loro abitato, protestano contro un atto così contrario alla pubblica opinione di questa patriottica città e chiedono in nome del partito liberale che quel convento sia destinato ad uso delle pubbliche scuole”.

La seconda petizione, datata 1 gennaio 1881, è del seguente tenore: “I sottoscritti, cittadini di Jesi, rivolgono istanza alla S.V. Ill.ma, affinché si degni far conoscere al Superiore Governo il loro vivo desiderio, che la cessione del fabbricato tuttora occupato dalle Monache Clarisse, per utile e decoro della Città venga quanto prima ad effettuarsi conforme alla richiesta fattagli da questa Rappresentanza Municipale”.

La terza petizione, sempre del capodanno 1881, riporta i nomi di numerosi artigiani (falegnami, tappezzieri, facchini, scalpellini, fabbri, canapini): “I quisottocrocesegnati, inalfabeti (sic), cittadini di Jesi, rivolgono istanza alla S.V. Ill.ma, affinché si degni di far conoscere…(prosegue con lo stesso testo della seconda petizione).

La soccombenza della posizione “reazionaria” non poté essere evitata: il 18 aprile 1881 le suore Clarisse furono costrette ad abbandonare per sempre la loro casa, destinata a diventare sede del Regio Istituto Tecnico Cuppari per oltre 100 anni e oggi sede universitaria.


CEFFONI…FRANCESCANI


In quel periodo di forte esasperazione si raggiunsero livelli di inaudita virulenza anticlericale: il 23 aprile 1864 il Vescovo di Jesi, Cardinale Carlo Luigi Morichini, venne addirittura  arrestato e tradotto nelle carceri di Santa Palazia in Ancona.
Il motivo del grave provvedimento giudiziario – che ebbe eco in tutta Europa  – era da ricercarsi nella tassativa applicazione di un decreto della S. Penitenzieria romana:  fin dal 1860, infatti, il Pontefice aveva imposto ai confessori il divieto di assolvere i funzionari papalini che fossero passati al servizio del Governo italiano.
Durante la quaresima del 1864, l’Avvocato Augusto Pranzetti, già funzionario pontificio e successivamente Regio Pretore di Jesi, presentatosi al confessionale del Duomo, non venne ammesso al sacramento.
L’episodio fece scattare, a carico del Cardinale,  una denuncia al Procuratore del Re per il reato di denegata assoluzione sacramentale:  la detenzione durò circa 20 giorni e si concluse soltanto per l’intervento di Napoleone III.

A seri guai giudiziari andò incontro, nel 1867,  anche il cappuccino P. Bonaventura da Monteroberto, il quale nel corso di un’omelia lanciò un pubblico attacco contro il nuovo regime sabaudo: “Una volta Iddio era Padre nostro, ma al dì d’oggi non è più, perché viene trascinato nella strada, tenuto come un asino, come un maiale, come un ladro.
Ora che il governo ci ha cacciati via e si è tolto questo peso dalle spalle, sarete contenti?”.
Alle risate di scherno di un uditore (tale Piero Spadoni) il frate reagì con un sonoro ceffone accompagnato da un severo rimprovero: “Così imparerai a stare in chiesa”.

Emblematica del clima avvelenato di quel periodo è una pagina del diario del Marchese Adriano Colocci : “Nei giorni successivi (siamo nel 1870) passarono treni carichi di prigionieri pontifici. Con Papà andavamo alla stazione, dove i jesini si addensavano per curiosare; ma i nostri soldati scendevano a guardia degli sportelli delle vetture e impedivano offese ai prigionieri, che si tenevano ben dentro alle vetture, senza esporsi agli sguardi della folla. E rammento che molti popolani pregavano le sentinelle di appagare la curiosità pubblica e dicevano in dialetto “Almango fàdecene vedè uno solo!”. E un bersagliere, scostandosi, ci lasciò scorgere qualche soldato papalino, la cui vista provocò un subisso di gridi e di improperi, tra cui si sentivano le parole: “Sbirro! Boja! Barbacà!”.





UNA LENTA E DIFFICILE NORMALIZZAZIONE


Si deve al Vescovo Rambaldo Magagnini (in carica dal 1872 al 1892) la gestione, a livello diocesano, della delicatissima fase successiva alla breccia di Porta Pia.

Con prudenza e determinazione, molto spesso attingendo risorse dal patrimonio di famiglia, il Vescovo risollevò le sorti della Chiesa locale, sconvolta dalle disposizioni del Decreto Valerio.

Per limitarsi alla situazione dei francescani, si deve a Magagnini l’organizzazione degli aiuti alle suore Clarisse per la costruzione della nuova casa nei pressi della Chiesa di San Marco.

Anche i Cappuccini ebbero nel 1886 il nuovo convento in via San Pietro Martire.
Al proposito, il periodico repubblicano L’intransigente in data 9 giugno 1884 pubblicava le feroci riflessioni di “Alcuni Reduci delle patrie battaglie” :
“Considerando che l’erezione di un nuovo convento di Francescani costituisce sanguinosa sfida ai principi di civiltà e di progresso;  considerando che questa novella accozzaglia di sanfedisti oltre che vivamente oltraggia la patriottica Città di Jesi, sta pure a permanente insulto di quei generosi che pugnarono le patrie battaglie, con lo intendimento di abbattere le tenebrose rocche, ove si annidano i nemici più feroci della libertà e del civile consorzio, energicamente protestano contro la erezione del convento suddetto e additano allo sfregio pubblico coloro i quali anziché l’operaio e l’industria, sussidiano e spalleggiano la riorganizzazione di questi nidi di parassiti”.

Dieci anni dopo, il 4 ottobre 1894,  anche la Fraternità dei Minori Riformati, cacciata da San Francesco al Monte a causa del Decreto Valerio, trovò sistemazione nel nuovo convento costruito in contrada Campolungo, a pochi metri dalla Chiesa della Madonna della Misericordia.

Negli anni tremendi della soppressione, la guida dei Minori spettò allo jesino Padre Venceslao Pieralisi (morto nel 1884) , insigne filosofo, per dieci anni Ministro della Provincia della Marca e, in seguito Generale.

A lui si deve, tra l’altro, la formazione religiosa e morale del Conte Massinissa Grizi (1853-1933) figura dominante del cattolicesimo jesino a cavallo dei due secoli, fondatore dell’Azione Cattolica diocesana e discendente di Crescenzio Grizi.

Detto dei Cappuccini e dei Riformati, per quanto riguarda, invece, i Conventuali, la soppressione del 1861 segnò la fine della loro presenza a Jesi dopo oltre 600 anni di storia. Nel capitolo provinciale di Montottone del 1892 (il primo dopo gli sconvolgimenti risorgimentali) non senza dolore venne decisa la chiusura definitiva dei conventi della Custodia jesina.

Ma 80 anni dopo, toccherà proprio ad un conventuale, Padre Oscar Serfilippi, assumere la guida della Diocesi di San Settimio.



IL NOVECENTO FRANCESCANO


Numerose sono state le figure di francescani che hanno contrassegnato la storia di Jesi e della Vallesina, nel corso del ‘900.

Tra le tante, ne vorremmo ricordare quattro, di cui una, Alda Marasca,  appartenente al laicato e tre al Primo Ordine (rispettivamente  Fra Serafino da Pietrarubbia dei Cappuccini, P. Ugolino Dottori dei  Minori e Padre Oscar Serfilippi dei Conventuali).

Si tratta di rapidi ritratti, le cui pennellate, almeno nei casi di conoscenza diretta, sono “condizionate” (lo confessiamo), dai sentimenti di stima ed amicizia nutriti dall’autore il quale, come avvertito all’inizio, non è uno storico di professione!


FRA SERAFI’, UNO DEI NOSTRI



Fra Serafino da Pietrarubbia (1874 – 1960), può essere considerato una moderna incarnazione del Fra Galdino di manzoniana memoria.

Frate questuante, vissuto nel convento di Jesi dal 1899 al 1956, percorse in lungo e in largo la Vallesina, alla ricerca quotidiana di aiuti per il seminario cappuccino e per la fraternità di S. Pietro Martire.

“Mingherlino, si aggirava per le campagne, spesso a stomaco vuoto, impolverato, carico di legna o di mosto o di grano, con un abito rattoppato, con sandali rotti. E tutto questo non  per sé ma per gli altri: per i suoi confratelli, per i suoi fratini”.

Ma Fra Serafino, oltre all’incarico affidatogli dai superiori, coltivava di proprio una straordinaria vita spirituale che lo poneva in relazione continua con il suo Creatore:

“Quando s’incontrava con Gesù nel sacramento della riconciliazione, piangeva; nel fare la comunione, piangeva; nel baciare le piaghe di Gesù crocifisso, piangeva; se per un momento fissava l’immagine dell’Addolorata, piangeva. Anche quando pensava alla sua vita di cristiano e di religioso, gemeva: “Preghi per me perché il Signore mi aiuti ad essere un vero religioso”.

La fama di santità è testimoniata da innumerevoli episodi, tramandati, in particolare, dai tanti laici che poterono incontrarlo durante la lunga permanenza nella diocesi jesina.

Alcuni episodi, che per la loro semplicità richiamano direttamente “I Fioretti” , sono scolpiti nella tradizione agiografica popolare:

“Un giorno Fra Serafino è in città, nel corso affollato e vanitoso. Piove, ma nessuno sembra accorgersene, intenti tutti a godersi la passeggiata serale fra i palazzi di stile neoclassico o primo ottocento.
Fra Serafino se ne va con il suo rosario quando un frullo improvviso taglia l’aria e il cinguettio che l’accompagna attira gli sguardi di tutti. Sono i due passerotti che hanno visto Fra Serafino e gli si sono infilati nel cappuccio della tonaca lisa e rattoppata.
Il corso si ferma stupito, gli ombrelli si chiudono e molti si avvicinano a Fra Serafino per chiedergli un ricordo nelle sue preghiere”.

Di se stesso e della sua costituzione mingherlina soleva ripetere: “Io non sono altro che un buono a nulla! Io valgo quanto peso!”

Al pari di San Francesco, anche Fra Serafino è stato autorevolmente proclamato ”immagine profetica della Chiesa dei Poveri”.

La gente delle campagne e dei borghi della Vallesina, talvolta aspramente critica verso il clero locale, riconosceva in quel frate l’impronta autentica del Santo di Assisi e non poteva nasconderlo: “Fra Serafì, tu sei dei nostri”.

Nel 1975 ha avuto inizio la causa di beatificazione.

Riconosciute le sue virtù eroiche, il 15 marzo 2008 Fra Serafino è stato dichiarato Venerabile.

Il “Decretum super virtutibus” della Congregazione vaticana delle cause dei Santi inizia con una citazione del Salmo 131: “Signore, non si esalta il mio cuore, né i miei occhi guardano in alto; non vado cercando cose grandi né meravigliose più alte di me. Io invece resto quieto e sereno: come un bimbo svezzato è in me l’anima mia”.
E così prosegue: “Il Servo di Dio Serafino Riminucci di Pietrarubbia, al secolo Pietro, guidato da limpida consapevolezza, visse esattamente l’infanzia spirituale descritta dalle parole del Salmista e proposta dal Signore Gesù come condizione per chiunque voglia conquistare il Regno di Dio”.

























UNA PIETRA DOPO L’ALTRA: IL COSTRUTTORE DELLA NUOVA PARROCCHIA


Nell’immediato secondo dopoguerra, la volontà di ricostruire il tessuto sociale ed economico, si unì al desiderio di progettare una nuova espansione urbanistica della città.

L’area prescelta dalla pianificazione comunale, fu quella di Campolungo: ettari di campagna tra il Viale della Vittoria e la Figuretta di Tabano destinati alla costruzione di un nuovo quartiere con abitazioni, scuole, attività commerciali, strade e servizi.

Alla fine degli anni ’50, il Vescovo Pardini intuì l’esigenza di erigere una nuova Parrocchia per una zona chiamata ad accogliere centinaia di giovani famiglie.
Fu, dunque, naturale che si  rivolgesse ai Frati Minori per la sua gestione, ma c’era bisogno di un Parroco in grado di affrontare la sfida.

La scelta ricadde sul trentasettenne Padre Ugolino Dottori  (nato a Cupramontana nel 1923), ben conosciuto dal Vescovo per aver assolto l’incarico di suo primo segretario.

Professore di Teologia Morale e Maestro dei Chierici, incarnazione della mitezza evangelica, Padre Ugolino si dedicò anima e corpo alla costruzione della nuova Comunità parrocchiale di San Francesco d’Assisi;

L’insediamento ufficiale del parroco avvenne il 4 dicembre del 1960. Il quotidiano cattolico “L’Avvenire d’Italia” così registrò l’avvenimento: “Domenica pomeriggio è stata solennemente inaugurata la trentaseiesima parrocchia della Diocesi, intitolata a San Francesco d’Assisi sorta nella chiesa omonima ufficiata dai Padri Minori francescani di Campolungo. Una folla numerosissima gremiva la chiesa mentre Mons. Vescovo dava ordine di leggere la bolla canonica di erezione della parrocchia”.

L’attività pastorale di Padre Ugolino procedette con l’entusiasmo tipico del pioniere e con il sostegno convinto di tanti giovani per i quali volle realizzare strutture adeguate; non disdegnò il lavoro materiale, tant’è che molti lo ricordano ancora alle prese con la carriola per sterrare e livellare l’area destinata alla costruzione del bocciodromo!

P. Ugolino comprese l’importanza della collaborazione delle associazioni laicali, in linea con gli orientamenti del Concilio, allora in corso di svolgimento.A lui di deve la nascita dell’Azione Cattolica parrocchiale e la costituzione del Circolo Acli che raccolse in poco tempo oltre 150 soci.

L’impegno generoso del primo Parroco non conobbe soste, fino a quando il suo corpo - ma non certo il suo spirito - fu aggredito da un male incurabile; nella Cronaca della Parrocchia, redatta da P. Luigi Capoferri, alla data del 6 agosto 1966 leggiamo:
Il Parroco ha un tumore maligno. Questa mattina P. Ugolino è stato operato e, purtroppo, quello che era nelle previsioni dei medici è risultato vero: tumore maligno al pancreas in stadio avanzatissimo.
Quello che ha colpito tutti confratelli e fedeli, è stato il coraggio di voler sapere tutto e la serena accettazione della volontà di Dio.
Il parroco prega di far sapere a tutti i suoi parrocchiani che egli offre per il loro bene la sua sofferenza e la sua vita”.

Il 9 settembre 1966 Padre Ugolino si recò all’incontro con Sorella Morte, ad appena 43 anni di età.

Tra quanti lo conobbero, nessuno ha più dimenticato la francescana letizia che irradiava il suo volto:

“Soffrì non poche incomprensioni e avversioni, ma niente riuscì a spegnere mai quell’afflato di cordialità, accoglienza, giovialità, generosità che scuoteva le coscienze più impenetrabili. Accoglieva tutti, non mancava mai di introdurre furtivamente il seme della promessa e la luce della speranza. Anche nei più disperati, sapeva infondere la voglia di ricominciare! E’ stato l’inventore di un nuovo stile di rapporti fra uomini diversi.
Aggiungo che ho assistito assiduamente P. Ugolino negli ultimi giorni della sua vita! Da allora, non smetto di pregare Dio di insegnarmi a morire. Dopo disumane sofferenze, Dio lo chiamò al suo fianco nella notte del 9 ottobre 1966. Da quel giorno la nostra parrocchia può contare su un santo protettore di prima grandezza” (Vito Savini, tra i primi collaboratori del Parroco)

“Ricordo il suo sorriso, la sua attenzione alle persone a ai loro problemi; soprattutto la capacità squisita di esprimere gratitudine per ogni piccolo servizio svolto in chiesa o nella pastorale.
Ero sacerdote novello e P. Ugolino si trovava in ospedale per vivere il momento decisivo della sua vita. Era giovane, ben voluto da tutti, ricco di energie e risorse per fare il parroco. Eppure era velocemente consumato dal tumore.
La cordialità reciproca si è trasformata in profonda e toccante amicizia. Desiderava che lo assistetti di notte. E delle notti, vegliate insieme, conservo nel cuore la sua serenità, il suo desiderio di voler fare solo la volontà del Signore e la sua sensibilità alla gratitudine. E’ morto, infatti, con il “grazie” sulle labbra. Grazie al Signore, ai medici, agli infermieri, ai parenti e a tutti quelli che lo hanno assistito o visitato. Per un giovane, e un giovane sacerdote, la sua vita e soprattutto la sua morte hanno costituito e costituiscono una delicata “lezione di vita” (P. Luigi Perugini, già Definitore Generale O.F.M.).
















ZIA ALDA: UNA PRESIDE SULLE ORME DI S. FRANCESCO




La Regola dell’Ordine Francescano Secolare chiede ad ogni terziario di impegnarsi in campo lavorativo al fine di contribuire alla crescita della società civile: “Reputino il lavoro come dono e come partecipazione alla creazione, redenzione e servizio della comunità umana” (art. 16).

Alda Marasca (1902 – 1992), per tutti “Zia Alda”, svolse il proprio servizio tra i giovani, nel mondo della Scuola Superiore, in un periodo – quello del ’68 – caratterizzato dal vento della contestazione.

Segnata sin dall’infanzia da un grave handicap motorio, si laureò in Scienze biologiche ed esercitò la professione di docente presso il “Cuppari” di Jesi per diversi decenni.
A partire dal 1960 e fino al 1972 ricoprì ininterrottamente, salvo un breve periodo, l’incarico di  Preside “fondatrice” dell’Istituto Tecnico Femminile di Jesi, divenuto finalmente autonomo dopo un periodo di annessione alla Scuola Statale di Magistero Professionale di Macerata.

Il ricordo che lasciò alle sue studentesse è rimasto indelebile nonostante il trascorrere degli anni. Una sua ex allieva, Gabriella Chiaraluce, così la ricorda: “Di lei non ti colpiva certo l’aspetto esteriore, ma chiunque vi entrava in contatto veniva preso dalla sua forza interiore, dalla sua vivacità, dalla sua fermezza e risolutezza, dalla sua dolcezza! Lei ha voluto fortemente questa “Scuola” ed ha lavorato perché si affermasse, perché da questa uscissero delle brave ragazze con un efficiente formazione scolastica e in grado di saper affrontare a testa alta le difficoltà della vita (…) Ricordo ancora che quando, con un po’ di riserbo, entravo in presidenza e mi bloccavo sulla porta, lei mi diceva: “Distendi quelle pieghe sulla fronte, fai un bel sorriso poi dimmi tutto quello che vuoi 

Zia Alda, per oltre 25 anni fu Ministra della Fraternità del Terz’Ordine di San Francesco d’Assisi.
Nello stesso Ordine rivestì cariche a livello nazionale e regionale, ovunque distinguendosi  per lo spirito di generosità e di sacrificio,  la letizia, l’intraprendenza e la tenacia .








CHIAMATEMI PADRE OSCAR




Metà anni ’70, a Jesi, in Piazza della Repubblica.
“Un uomo, animato da uno di quegli strascichi anticlericali non tanto difficili da riscontrare nella jesinità, gli si accosta, vedendolo vestito da frate, e gli dice:
“Io i predi non li posso proprio véde!”
Dopo aver osservato meglio il saio del suo interlocutore, l’uomo prosegue:
“Ma lei è frade e se accetta je offro ‘n caffé”.
Il religioso accetta di buon grado, entra con lui in un bar e si fa raccontare cos’è che non gli piace tanto dei preti.
Sul finire i due si salutano e, nel congedarsi, il gentiluomo…:
“Lei è proprio diverso – gli dice – ma qua a Jesi io non l’ho mai vista: è nuovo?”
Il frate, col suo fare pronto e capace di sintetizzare per intero un discorso con una battuta di spirito, gli dice:
“Eh sì: sono il nuovo Vescovo!”
In Padre Oscar Serfilippi, 72^ Vescovo della diocesi di Jesi (dal 1978 al 2006), la straordinaria affabilità di chiara connotazione francescana, si unì a doti di governo pastorale improntate ad una saggezza paterna.

Nato a Mondolfo nel 1929, frate conventuale dal 1950, fu Ministro Provinciale delle Marche fino alla nomina a Vescovo (1975), inizialmente come Ausiliare dell’Arcivescovo di Ancona e, dal 1978, come titolare della diocesi di Jesi.

Con un atteggiamento di vita orientato al dialogo fraterno e alla pace, Padre Oscar visse totalmente immerso nella comunità affidatagli in cura, promuovendo con vigorosa determinazione progetti di vasto respiro in campo ecclesiale (ricordiamo il trentesimo Sinodo, i due Congressi eucaristici, la creazione delle zone pastorali, l’erezione di nuove parrocchie) sociale (la fondazione dell’Oikos e del Consultorio familiare, la riorganizzazione della Caritas) culturale ed artistico (la nascita della Biblioteca Petrucciana, il potenziamento del Museo diocesano,  i grandiosi lavori di restauro e conservazione del patrimonio).
 
Tra i tanti ritratti di Padre Oscar, ci piace ricordare quello disegnato da Mons. Alfredo Santoni, in occasione dell’insediamento ufficiale nella Cattedra di San Settimio: “Vostra Eccellenza Reverendissima è stata riempita da Dio di tanti doni: parola semplice, chiara, che va al cuore, volto sempre sereno, sano ottimismo, buon senso umano e marchigiano, sa compatire, perdonare, essere paziente, accogliente, sempre pronto a dare e a darsi”.

Dal testamento spirituale emerge, con nitidezza, lo stile del Pastore: “La vita, dono del Signore per sempre, è bellissima. Ringrazio e ringrazierò sempre il Signore, lo racconterò e lo insegnerò con una gioiosa testimonianza e con l’esortazione permanente (…)
Saluto, benedico e ringrazio la Chiesa Jesina tutta: quanto mi ha voluto bene e quanto le ho voluto bene!”













































LA SPERANZA DEL FUTURO





Sono trascorsi, dunque, otto secoli dall’approvazione della Prima Regola.

Una storia lunghissima (e, talvolta, anche tormentata) che – come abbiamo cercato di raccontare con la massima semplicità – ha segnato in maniera indelebile i lineamenti religiosi e sociali della nostra regione.

Tra i fratelli e le sorelle dei tre Ordini, possiamo onorare oltre 40 tra santi e beati di origine marchigiana; dei nove pontefici piceni , ben 4 sono di estrazione francescana (nel duecento Nicolò IV, nel cinquecento Sisto V, nel settecento Clemente XIV e nell’ottocento il terziario Pio IX)

Dopo tanti anni verrebbe da chiedersi se l’ideale francescano mantenga ancora una sua freschezza, oppure se  sia destinato ad un progressivo declino.

In realtà, l’immagine di quel giovane che, in pieno medioevo, decise di spogliarsi in piazza, conserva perfettamente  intatta l’enorme suggestione di una scommessa di vita giocata sull’Amore. Chiunque, ancora oggi, si accosti alla figura di  Francesco, può forse esprimere un rifiuto, ma non riuscirà a nutrire sentimenti di indifferenza.

Lo stesso può dirsi della grande tradizione della scuola di pensiero di matrice francescana, sviluppatasi nel corso dei secoli.

Appena qualche mese fa, il filosofo Dario Antiseri ha pubblicato, un agile volumetto dal titolo intrigante: “L’attualità del pensiero francescano. Risposte dal passato a domande del presente”.

Il testo contiene preziosi spunti di riflessione su alcune tematiche di stretta attualità, già affrontate, nei secoli passati, da autorevoli esponenti della scuola francescana con una impostazione di intatto valore: la difesa della dignità contro la tentazione collettivista (Ockham), la libertà dell’individuo all’interno dell’orizzonte volontaristico (Scoto) la libertà nelle attività economiche (Pietro di Giovanni Olivi), il rapporto tra fede e ragione (Bonaventura da Bagnoregio).

In un altro testo recente (Bruni e Smerilli ,“Benedetta economia”, 2008), l’autore della prefazione Stefano Zamagni riconosce ai francescani il merito di aver gettato, grazie alla elaborazione del concetto di fraternità, le basi della moderna economia di mercato civile (oggi assurta alla ribalta, quale possibile soluzione rispetto alla tradizionale economia di mercato capitalistica, pesantemente messa in discussione dalla crisi globale in atto).

Mai si dirà abbastanza dell’importanza che il pensiero di Francesco ha avuto nella messa a fuoco del principio di fraternità e, di conseguenza, del principio di reciprocità che ne costituisce la traduzione sul piano pratico”. Una nuova economia “non può non mirare a realizzare la società fraterna. Non si accontenta di assicurare la convivenza civile”.

In occasione del Capitolo Internazionale delle Stuoie tenutosi ad Assisi ad aprile 2009, anche il Papa Benedetto XVI, ha voluto rinnovare il mandato ai francescani del nostro tempo:

Carissimi, l’ultima parola che voglio lasciarvi è la stessa che Gesù risorto consegnò ai suoi discepoli: «Andate!». Andate e conti­nuate a « riparare la casa » del Si­gnore Gesù Cristo, la sua Chiesa. Nei giorni scorsi, il terremoto che ha colpito l’Abruzzo ha danneg­giato gravemente molte chiese, e voi di Assisi sapete bene che cosa questo significhi. Ma c’è un’altra «rovina» che è ben più grave: quel­la delle persone e delle comunità! Come Francesco, cominciate sem­pre da voi stessi. Siamo noi per pri­mi la casa che Dio vuole restaura­re. Se sarete sempre capaci di rin­novarvi nello spirito del Vangelo, continuerete ad aiutare i pastori della Chiesa a rendere sempre più bello il suo volto di sposa di Cristo. Questo il Papa, oggi come alle ori­gini, si aspetta da voi. Grazie di es­sere venuti! Ora andate e portate a tutti la pace e l’amore di Cristo Sal­vatore. Maria Immacolata, «Vergi­ne fatta Chiesa », vi accompagni sempre ( 18 aprile 2009).

Anche a Jesi, pur nelle difficoltà che contrassegnano questo tempo di secolarizzazione, la presenza francescana rimane alquanto significativa. Nella nostra città trovano sede la Provincia Picena di San Giacomo della Marca, due conventi del Primo Ordine (Cappuccini e Minori), una comunità di Clarisse, tre Fraternità dell’Ordine Francescano Secolare, strutture assistenziali e caritative (l’Opera della Nonna), iniziative editoriali (“La terra dei fioretti”).

Diversi jesini, impegnati in realtà locali e internazionali, indossano il saio di Francesco, perpetuando una tradizione antica: nel 2010 verrà consacrato sacerdote frate Enrico Maria Mimmotti , mentre è prossima la professione solenne di frate Michele Massaccio.

Ma non è, certamente, un calcolo quantitativo che può misurare la forza di un carisma e la sua incidenza nella realtà quotidiana!

Dopo otto secoli, per tutti i francescani - di qualunque ordine e latitudine -  vale sempre l’esortazione di Francesco, ormai prossimo all’incontro con Sorella Morte:” "Bisogna cominciare a fare qualcosa, perché fino ad ora non abbiamo fatto niente"!











RIFERIMENTI  BIBLIOGRAFICI


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M. Zenobi, in Cattolici a Jesi nella seconda metà del secolo XX , di Costantino Urieli, Jesi, 2000








INDICE

INTRODUZIONE : La memoria del passato                                      
PARTE PRIMA: La Provincia francescana per eccellenza    
PARTE SECONDA: La città di Federico (ma anche di Francesco)
CONCLUSIONI:   La speranza del futuro
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI











Mauro Torelli (Jesi, 1963), cultore dilettante di storia locale, a cavallo tra gli anni ’80 e 90’ ha collaborato con il mensile jesino “El Passì”,  scrivendovi alcuni contributi su San Giacomo della Marca e la setta eretica dei fraticelli .
Negli ultimi anni si è interessato della storia del Terzo Ordine Francescano realizzando schede divulgative apparse sul periodico “La Marca francescana”.
Nel 2009 ha pubblicato la prima edizione dell’opuscolo “800 anni, ma non li dimostra! Storia breve del francescanesimo jesino da Crescenzio Grizi ad Oscar Serfilippi

Per eventuali contatti: torellimauro1963@libero.it
















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