domenica 28 aprile 2024

L'ultimo miglio

Voce della Vallesina, 28 aprile 2024

 

Lo spirito di appartenenza alla propria comunità può innescare un fenomeno di contagio collettivo!

L’andamento della raccolta dei fondi per San Marco è la prova inconfutabile dell’assunto.

A poco più di due mesi dal lancio pubblico del crowdfunding per la progettazione degli interventi di restauro dell’insigne chiesa francescana, il Comune ha registrato un introito di quasi 15.000,00 euro, pari al 75 % dell’obiettivo prefissato.

Al di là dei numeri, il risultato più significativo è rappresentato dalla crescita di una coscienza civica attorno ad un bene culturale di primaria rilevanza, sino ad ora non valorizzato appieno nelle sue potenzialità.

Nel periodo tra marzo e aprile, due corali cittadine (la “Brunella Maggiori” e la “Santa Lucia”) e la Scuola Pergolesi hanno organizzato tre esibizioni all’interno di San Marco, richiamando centinaia di cittadini, molti dei quali ignari della rara bellezza di questo gioiello del XIII secolo.

Determinante è stato anche l’apporto di due neonati Comitati di Quartiere (Erbarella/San Pietro Martire e Coppi/Giardini), impegnati in prima linea nella promozione degli eventi, a fianco dell’instancabile prof. Vittorio Massaccesi, tenace ideatore della campagna di raccolta fondi.

Una sorta di appello alla collettività per la rinascita e la valorizzazione di un simbolo religioso e artistico del nostro territorio.

A buon diritto si potrebbe parlare, per il caso in questione, di una felice concretizzazione degli ideali dell’art. 9 della Costituzione (“la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”) e del nostro Statuto (“il Comune di Jesi opera per favorire la protezione del suo patrimonio storico-artistico. (...) L’identità culturale di Jesi e del suo territorio è l’elemento di coesione che unisce la comunità ed al tempo stesso è il modo migliore con cui la stessa comunità si offre a chi la incontri per conoscerla, siano visitatrici, visitatori o nuovi residenti”).

E’ ora necessario compiere l’ultimo tratto del percorso, per raggiungere l’obiettivo finanziario prefissato e dare avvio all’attività di progettazione.




Un primo risultato è stato comunque brillantemente conseguito: centinaia di “riflettori civici” sono stati idealmente accesi su un monumento relegato, per troppo tempo, in una zona d’ombra.

Purtroppo, il declino di San Marco ha una storia antica.

La collocazione della chiesa su un’amena altura - in posizione isolata e al di fuori delle mura cittadine – sicuramente agevolò la dimensione contemplativa, ma determinò, nel contempo, una condizione di pericolo per l’incolumità dei frati.

Il fosso San Giovanni, situato nell’area oggi occupata dal Viale della Vittoria, costituiva un ulteriore elemento di separazione tra il convento e la zona intramuraria.

Durante il XV secolo, nell’arco di pochi anni, Jesi conobbe le invasioni degli eserciti di Braccio da Montone, Carlo Malatesta e Francesco Sforza.

Scrive lo storico Gustavo Parisciani: “Bande di esuli e fuoriusciti ronzavano in permanenza. La collina a settentrione della città era un ottimo punto di osservazione, un comodo rifugio per agguati e la cantina dei frati un gradevole campo di ristoro. Resistere alla violenza di tale soldataglia poteva portare all’effusione del sangue”.

Il 6 agosto 1437 una delegazione di frati di San Marco si recò in Comune per chiedere l’autorizzazione al trasferimento del convento nella chiesa di San Floriano.

La risposta delle autorità civili fu positiva e trovò conferma nel parere favorevole reso dal Vescovo Innocenzo nel 1439.

Da quel momento San Marco cessò di essere sede conventuale e fu pressoché abbandonata.

Di fatto, le diatribe interne al movimento francescano ostacolarono ogni soluzione alternativa.

Nel 1450, il tentativo del Comune di offrire la chiesa ai Minori dell’Osservanza per l’insediamento di una nuova fraternità, si rivelò non percorribile a causa della ferma opposizione dei precedenti “inquilini” Conventuali, fieri avversari del nuovo ramo francescano, considerato scissionista.

Nel corso dei secoli successivi, la funzionalità della chiesa sarà limitata a pochi eventi celebrativi, quali la processione annuale per la festa di San Marco e le messe domenicali.

In epoca napoleonica, San Marco divenne addirittura un deposito di munizioni e una stalla.

Nella seconda metà dell’800, Il Vescovo Cosimo Corsi, con il sostegno finanziario di Papa Pio IX, si adoperò meritoriamente per i restauri della chiesa, affidando l’incarico all’architetto Angelo Angelucci.

Come è noto, con la fine dello Stato Pontificio, il Comune divenne proprietario del bene.

Si devono all’opera silenziosa delle Suore Carmelitane, la custodia e l’officiatura della chiesa, sino ai giorni nostri.

La strada per il rilancio di San Marco è stata aperta. Molte e non facili saranno le tappe del percorso.

Nel frattempo, il Comune ha presentato ufficialmente la candidatura della chiesa per essere inserita nei Cammini Francescani nelle Marche, a ricordo del passaggio del Santo a Jesi, secondo la memoria tramandata nel corso dei secoli.


Mauro Torelli


mercoledì 6 marzo 2024

Il cuore di Jesi batte forte !

 

Prosegue la campagna di raccolta fondi destinati alla predisposizione del progetto di restauro della chiesa gotica di San Marco.

Immediata è stata la risposta di tanti cittadini, interessati alla salvaguardia a alla valorizzazione di quello che è stato definito dagli studiosi “il più bel monumento di architettura religiosa della città ed uno dei più rappresentativi e compiuti di questo stile nelle Marche” (Fabio Mariano).

Secondo la memoria tramandatasi nel corso dei secoli, San Francesco sostò a Jesi attorno al 1218, proveniente dall’Abbazia di Chiaravalle.

Fu in quella circostanza che la comunità locale dei Benedettini decise di fargli dono del romitorio dedicato a San Marco.

Una fonte documentale del 1244 attesta l’insediamento di una fraternità francescana a San Marco, “presso le mura della città, a distanza del lancio di una pietra (“apud moenia civitatis ad intervallum unius iactus lapidis”).

Il rinnovamento nelle forme attuali - con tre ampie navate, di cui quella centrale suddivisa in cinque campate, coperte da volte a crociera e sorrette da pilastri ottagonali - fu voluto dai Frati Minori nel corso della seconda metà del sec. XIII.

A Giuliano da Rimini è stato attribuito il mirabile ciclo di affreschi (Storie di Gesù e Storie della Vergine) conservatosi solo in parte.

Un’imponente e drammatica Crocifissione accoglie ancora oggi il visitatore, suscitando sentimenti di commossa partecipazione.

E quel Calvario di dolore rappresenta, oseremmo dire, il simbolo della sorte travagliata della chiesa di San Marco nel corso di otto secoli di storia.

A seguito del trasferimento dei Frati all’interno della città murata (San Floriano), San Marco fu abbandonata a se stessa.

Chiusa al culto nel corso del ‘600, la chiesa subì l’ingiuria del tempo e degli uomini: venne prima trasformata in magazzino e, durante il periodo napoleonico, in deposito di munizioni.

Nel 1854 il vescovo Cosimo Corsi affidò incarico all’architetto Angelo Angelucci per l’effettuazione dei restauri, i cui costi furono finanziati da Papa Pio IX.

San Marco fu riconsacrata al culto dal Card. Morichini il 4 aprile del 1860.

Ma appena cinque mesi dopo, il contesto politico registrò un cambiamento epocale, con l’ingresso dell’esercito piemontese a Jesi (15 settembre 1860).

In attuazione dei Decreti del Regio Commissario Generale Straordinario nelle Provincie delle Marche Lorenzo Valerio, la chiesa divenne di proprietà del Comune di Jesi.

Analoga sorte, come è noto, toccò a tanti altri beni ecclesiastici. La Famiglia Francescana fu, in assoluto, la più colpita.

San Francesco al Monte, appartenente ai Frati Zoccolanti, venne demolita e l’annesso convento fece posto al Ricovero, tuttora in funzione.

La chiesa di San Floriano, retta dai Frati Conventuali, venne sconsacrata e nel 1869 diventò sede della biblioteca comunale. I locali dell’ex convento furono trasformati in sede di istituti scolastici.

Il Monastero della SS. Annunziata  diventò sede del Regio Istituto Tecnico Pietro Cuppari.

Per San Marco fu, invece, preservata l’originaria destinazione religiosa, peraltro in una situazione di sostanziale ambiguità gestionale. L’innaturale separazione tra il soggetto proprietario (ovvero il Comune, tipica istituzione aconfessionale) e il soggetto utilizzatore (ovvero la Diocesi) non poteva che innescare scintille e screzi tra le Autorità civile e religiosa di Jesi.

A tale proposito, siamo in grado di rievocare una pagina pressoché inedita della storia jesina, risalente a poco meno di cento anni fa.

Il 30 ottobre 1930 un violento terremoto, di magnitudo 5.8, colpì la zona di Senigallia.

L’evento sismico, che provocò 18 vittime e il crollo di centinaia di edifici, ebbe ripercussioni anche a Jesi provocando gravi lesioni a numerosi edifici pubblici (Palazzo della Signoria, Palazzo Carotti, Residenza Comunale, scuole di Mazzangrugno, Roncaglia, Coppetella, Colle Paradiso, San Floriano) nonché alla chiesa di San Marco.

Il 22 febbraio 1931 Don Ferdinando Senesi, Canonico della Cattedrale e Custode di San Marco, scrisse, in tono deciso, al Podestà della Regia Città di Jesi: “In seguito al moto tellurico del passato Ottobre, cotesto Ufficio Tecnico fece sgombrare la locale Monumentale Chiesa di San Marco. Dovendosi nei giorni 10, 11 e 12 del prossimo Marzo celebrare le tradizionali funzioni per la Solenne Esposizione del Santissimo Sacramento, a scanso di eventuali responsabilità, prego la S.V. compiacersi di farmi assicurare che, nonostante la mancata esecuzione delle necessarie riparazioni, la incolumità delle persone non ne può avere pregiudizio alcuno.

Caso contrario prego vivamente sia provveduto in merito non potendosi lasciare le predette funzioni senza lamento dei fedeli”.

Non conosciamo i contenuti della risposta del Podestà, ma abbiamo visionato una seconda lettera, datata 7 marzo 1931, con la quale Don Ferdinando Senesi si rivolge nuovamente al Podestà per comunicare che, stante l’impossibilità di accedere a San Marco in condizioni di sicurezza, le programmate funzioni religiose sarebbero state celebrate nella “Chiesa comunale di S. Maria delle Grazie”.

Nell’occasione rivolgo viva preghiera perché la S.V. disponga l’esecuzione delle progettate riparazioni al tetto e alle volte di questo Monumentale tempio, in modo che vi si possa celebrare la annuale Festa di San Marco, Titolare della Chiesa, il 24 Aprile prossimo”.

E’ certo che l’auspicio di Don Senesi non poté avverarsi. Soltanto con la deliberazione n. 83 del 21 agosto 1931, il Podestà di Jesi Giuseppe Pace autorizzava l’Ufficio Tecnico Municipale ad eseguire in economia la riparazione di 11 fabbricati comunali (tra cui la Chiesa di San Marco), per una spesa complessiva di Lire 132.065, 77.

All’edificio di San Marco vennero destinate risorse per un importo pari a Lire 15.500.

Il 5 novembre 1932, l’Ingegnere Capo del Comune scrisse al Podestà, con vena sottilmente polemica verso la Diocesi:“In seguito ai lavori di riparazione ai danni, cagionati alla Chiesa di S. Marco dal terremoto del 30 ottobre 1930, lavori or ora ultimati, la Chiesa stessa può essere nuovamente aperta al pubblico.

Nell’occasione non si ritiene del tutto ozioso far presente che un’opera d’arte così insigne, qual è appunto quella Chiesa, meriterebbe di essere valorizzata e non lasciata in completo abbandono, come pur troppo si è praticato per il passato”.

Nel 1946, ad avvenuta conclusione della II guerra mondiale, il Vescovo Carlo Falcinelli autorizzò le Monache Carmelitane ad utilizzare San Marco “per la recita dell’Ufficio Divino, l’assistenza alla Messa e alle sacre funzioni e per l’esercizio delle pratiche di pietà della Comunità intera”, in accordo con Mons. Senesi, ancora nel ruolo di rettore della chiesa.

Ulteriori interventi di restauro, di minore portata, vennero realizzati negli anni Sessanta e negli Ottanta. Le ultime azioni manutentive – riguardanti la ripulitura del paramento murario esterno ed il restauro del manto di copertura – vennero effettuate, a cura del Comune, in occasione del Giubileo del 2000.

A distanza di circa 25 anni, si rendono necessari nuovi interventi manutentivi, a tutela della struttura e dell’apparato pittorico.

E’ indispensabile, allora, poter giungere, in tempi rapidi, alla stesura di un progetto complessivo, da utilizzare per la ricerca di finanziamenti pubblici e privati.

Il cuore di Jesi batte forte!

Mauro Torelli

lunedì 1 gennaio 2024

Matteo da Bascio, Ludovico e Raffaele da Fossombrone: come tutto ebbe inizio


Gli inizi dell'Ordine dei Frati Minori Cappuccini furono a dir poco turbolenti. 

All'inizio del 1525, fra Matteo da Bascio abbandonò senza l'autorizzazione dei suoi superiori il Convento dei Minori Osservanti in cui abitava. Non avendo ottenuto l'auspicata attenzione per le sue convinzioni all'interno della sua comunità, si rivolse direttamente al papa per chiedergli il permesso di vivere radicalmente l'esempio di san Francesco d'Assisi, dedicandosi ai bisognosi e predicando alla gente con parole semplici. I suoi superiori reagirono con durezza e lo fecero arrestare. Tuttavia, la duchessa Caterina Cybo di Camerino prese a cuore le disavventure del suo conterraneo, che aveva imparato ad apprezzare in precedenza per il suo coraggioso impegno a favore degli appestati. Grazie alla sua intercessione presso lo zio, il papa Clemente VII, fra Matteo venne liberato.

Nell'autunno dello stesso anno, si unirono a lui altri due Osservanti: Ludovico e Raffaele Tenaglia da Fossombrone. Una volta ancora, temendo una nuova frammentazione dell'Ordine, i loro superiori intervennero con la forza contro i tre fuggiaschi: il Provinciale, Giovanni da Fano, tentò di farli incarcerare manu militari. Ma i tre si nascosero nelle montagne, presso gli Eremiti Camaldolensi, e si travestirono con i loro abiti bianchi. A causa di ciò, nella primavera del 1526 vennero scomunicati.

La duchessa Caterina Cybo ottenne però per loro l'appoggio del vescovo di Camerino, che li prese sotto la sua protezione e li autorizzò a svolgere la loro attività di predicatori itineranti. Matteo, Ludovico e Raffaele poterono alloggiare in un eremitaggio nei pressi della cittadina.

 Nel 1527 esplose un'altra epidemia di peste nel Ducato di Camerino. Grazie al fruttuoso lavoro tra malati e moribondi, Caterina potè intervenire di nuovo presso il papa, che nel maggio dello stesso anno riconobbe di fatto la legittimità della riforma cappuccina con la bolla "Religionis zelus". 

Egli concesse a fra Matteo e compagni di portare un abito color castagno con un cappuccio appuntito, quale segno dell'imitazione radicale di san Francesco. Essi potevano inoltre predicare nell'itineranza, eleggere propri superiori e risiedere in luoghi loro riservati. Fu a causa della forma del cappuccio che ricevettero il soprannome popolare di "cappuccini".


fonte: www.cappuccini.ch