domenica 20 dicembre 2020

Sisto V: "er Papa tosto"







 

..."studente a Jesi nel Convento di San Floriano"...
(Voce della Vallesina, 20 dicembre 2020)

sabato 19 dicembre 2020

Pietro Paolo Agabiti: 550 anni dalla nascita

 



Accade, molto spesso, che la fama di un uomo illustre metta in ombra le figure dei suoi contemporanei, negando agli stessi il meritato ricordo.

Tale situazione si è ripetuta anche in quest’ anno 2020 dominato, per quanto riguarda l’arte, dalle celebrazioni dell’astro di Raffaello Sanzio, in occasione del quinto centenario della morte, avvenuta a Roma nel 1520.

Pietro Bembo scrisse per l’Urbinate un epitaffio di folgorante efficacia inciso sulla tomba del Pantheon: da Raffaello, quando visse, la natura temette d'essere vinta, ora che egli è morto, teme di morire” (Ille hic est Raphael timuit quo sospite vinci, rerum magna parens et moriente mori).

Si direbbe, allora, che, a fronte di tanta gloria, non può esistere alcuna competizione. Eppure costituisce atto di giustizia fare memoria di tutti coloro che, sempre nel secolo XVI, hanno contribuito alla storia dell’arte italiana, ancorché da posizioni defilate rispetto alle corti di Papi e Sovrani.

E’ il caso di Pietro Paolo Agabiti, poliedrico artista locale, di cui ricorrono – nel silenzio assoluto - i 550 anni dalla nascita (Sassoferrato, 1470).

Relegato dai critici nella categoria dei “minori”, sconta la mancata elaborazione di uno stile originale. Tuttavia il suo ruolo nella realtà pittorica marchigiana è degno di massimo rispetto.

La sua formazione registra molteplici influenze: spunti della pittura umbro marchigiana, suggestioni venete (Cima da Conegliano, Palmezzano), influssi di Crivelli e Vivarini,  impronte arcaicizzanti.




E proprio nella nostra città - nella quale trovò dimora e prese moglie - si sviluppò la maggior parte della vicenda artistica di Agabiti, a partire da una serie di affreschi all’interno d el Palazzo della Signoria (1519-1524), di cui si perse traccia a causa di un’improvvida imbiancatura.

Grazie alla committenza dei Frati Minori Osservanti di San Francesco al Monte, Agabiti consegnò a Jesi le opere della sua maturità: la Madonna in trono con Bambino e Santi, San Francesco tra S. Antonio e San Bernardino, San Girolamo penitente nel deserto (tutte risalenti al terzo decennio del cinquecento).

In quegli stessi anni, Lorenzo Lotto realizzava la Madonna delle Rose (1526), destinata ad uno degli altari della chiesa dei Frati. E’ probabile che i due pittori si incontrassero, in un periodo aureo nel quale, per impulso dell’Ordine francescano e delle Confraternite, Jesi assunse un ruolo di forte attrazione per tanti artisti.

Se nel linguaggio di Lorenzo Lotto - ricco di allusioni, simbologie e significati nascosti - si coglie la nascita della psicologia moderna, Agabiti mantiene costantemente un tratto didascalico e schematico, di semplice interpretazione per il popolo dei fedeli.

Addirittura nella sacra rappresentazione dei tre Santi francescani, il pittore utilizza l’espediente del “fumetto” per spiegare il mistero delle stigmate.

Antonio mette le dita sulla piaga del costato di Francesco esclamando “QUE SUNT PLAGE ISTE PATER BEATISSIME IN CORPORE TUO SANCTISSIMO” (“Cosa sono o padre beatissimo, queste piaghe nel tuo santissimo corpo?”). Francesco risponde all’interrogativo rivolgendosi a Bernardino: “HIS PLAGIS PLACATUS SUM IN DOMO DEI MEI” (“Grazie a queste piaghe sono stato riconciliato nella casa del mio Dio”).

Agabiti fu anche abile plasticatore, come è dimostrato dal celebre presepe in terracotta policroma invetriata oggi esposto, come le altre opere citate, nella Pinacoteca civica di Palazzo Pianetti.

Singolare il destino di Agabiti e, per certi versi, assimilabile a quello di Lorenzo Lotto: entrambi conclusero la loro vita all’interno di conventi.

Lotto, come è noto, morì a Loreto come oblato della Santa Casa; Agabiti si ritirò, per quasi un decennio, nel convento dei Frati della Romita a Cupramontana per terminarvi i suoi giorni nel 1540.

                                                                                           Mauro Torelli

 




In memoria di Padre Mario Silvestrini

 


martedì 8 dicembre 2020

domenica 29 novembre 2020

Sebastiano d'Appennino, Architectus sive magister intagliandi lignamina

 


Sono giunte a termine le celebrazioni di ottobre in occasione del sessantesimo anniversario della fondazione della Parrocchia di San Francesco d’Assisi (1960 - 2020).

Le limitazioni imposte dallo stato di pandemia, non hanno impedito alla comunità parrocchiale di fare memoria del proprio passato, di rievocare le guide spirituali che si sono succedute nei sei decenni (“Ricordatevi dei vostri capi, i quali vi hanno annunziato la parola di Dio”), di riflettere, secondo l’insegnamento del Concilio, sulle “gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d'oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono”.

Ogni anniversario ha l’effetto di rinverdire le ragioni fondanti di una realtà comunitaria, valorizzando anche quegli elementi simbolici attorno ai quali si realizza uno spirito di condivisione e di unità.

E tra i simboli di una comunità parrocchiale, un ruolo importante è rivestito anche dal suo patrimonio storico-artistico, in grado di alimentare un senso di appartenenza tra tutti i membri.

La Parrocchia di San Francesco d’Assisi nasce il 4 ottobre 1960, negli spazi del Convento dei Frati Minori di Campolungo.

Secondo lo stile sobrio degli edifici di matrice francescana, la chiesa parrocchiale si caratterizza per la sua essenzialità: nessun affresco, nessun elemento decorativo originale, nessuna evidenza di particolare pregio architettonico.

Eppure, anche in questo caso, la regola è confermata da una felice eccezione, ovvero quel Crocifisso ligneo che, dalla parete retrostante l’altare, accoglie fedeli e visitatori.

Non un’opera dozzinale, bensì un esempio eccellente di arte rinascimentale marchigiana.

Si deve allo storico dell’arte Alessandro del Priori l’attribuzione del Crocifisso a Sebastiano d’Appennino, tra i massimi scultori del legno, in attività nei primi trent’anni del Cinquecento (architectus sive magister intagliandi lignamina).




Alla sua mano sono riconducibili altri importanti crocifissi: il Cristo della Pinacoteca di Ascoli (1519-20), quelli della sacrestia della Cattedrale di Matelica (1510), della chiesa di Santa Croce di Macerata (1529-30), di Croce di Caldarola e, probabilmente, il Crocifisso del convento delle Clarisse di Santa Chiara a Camerino.

Sebastiano, proveniente dal piccolo borgo del Ducato di Camerino, fu l’allievo prediletto di Domenico Indivini, a sua volta riconosciuto come il migliore intagliatore del '400, autore del coro ligneo della Basilica Superiore di Assisi.

Il Crocifisso di Jesi, dalle forme similari rispetto a quello di Ascoli, è stato cronologicamente datato tra il 1510 e il 1515.

L’autore ricevette un incarico dai Frati Minori dell’Osservanza, insediatasi, a partire dal 1486, in quella chiesa di San Francesco al Monte, destinata ad accogliere capolavori di Lorenzo Lotto (la Madonna delle Rose) e di Pietro Paolo Agabiti (San Francesco, tra S. Antonio e S. Bernardino).

Nella chiesa erano annoverati 8 altari, l’ultimo dei quali dedicato al Ss.mo Crocifisso, sotto il giuspatronato della famiglia Colocci (M.C. Zanotti, Chiesa di San Francesco al Monte, 2013). Risulta che nella cappella fosse collocata “l’immagine di Gesù sulla croce rilevato in legno”: la descrizione richiama il Crocifisso di Sebastiano d’Appennino.

Come è noto, nel 1866 i Frati Minori, a causa del Decreto Valerio, vennero cacciati da San Francesco al Monte: la chiesa venne demolita e l’annesso convento fu trasformato in Asilo di Mendicità (l’attuale Casa di Riposo di via Gramsci).

Le opere d’arte furono requisite, finendo per costituire il nucleo portante della futura Pinacoteca Civica.

Ma il Crocifisso di Sebastiano fu provvidenzialmente sottratto all’esproprio e custodito dai frati.

Dopo circa 30 anni di esilio, nel 1894 la Fraternità dei Minori trovò sistemazione nel nuovo Convento costruito in contrada Campolungo, accanto al tempio della Madonna della Misericordia.

Finalmente il Crocifisso poté riottenere degna collocazione, fino ai giorni nostri.

Il filo rosso della storia attraversa molte generazioni: da oltre 500 anni, il Crocifisso di Sebastiano è oggetto di devozione da parte di una schiera innumerevole di cristiani.

E anche domani potrà continuare ad essere il simbolo di una comunità parrocchiale “in pellegrinaggio verso il Regno del Padre”, sulle orme di San Francesco.


Mauro Torelli

foto: Alessandro Gianfelici


Voce della Vallesina, 8 novembre 2020


  

                                                                                                  

 


"Voglio morire con il mio abito francescano"


 

Il 25 ottobre scorso padre Raniero Cantalamessa mentre papa Francesco lo annoverava tra i nuovi 13 cardinali - che saranno creati oggi nel Concistoro che si svolgerà in San Pietro alle 16 con diretta su TV2000 –, era seduto con il suo tradizionale saio marrone di frate cappuccino ed era intento ad ascoltare, come un qualsiasi fedele, la recita dell’Angelus in televisione in un luogo dell’anima a lui molto caro e in cui ha vissuto tutto questo lungo tempo della pandemia: l’eremo dell’Amore Misericordioso di Cittàducale nel Reatino, alle porte di Roma. Una nomina certamente inaspettata e non preventivata per colui che dal 23 giugno 1980, per volere di Giovanni Paolo II, è il predicatore della Casa pontificia. E pur indossando da oggi la porpora ha chiesto e ottenuto dal Papa la dispensa dall’ordinazione episcopale: «: cosa che difficilmente mi avrebbero permesso se fossi stato vescovo».

Noto volto televisivo della Rai - basti pensare alla trasmissione "A Sua Immagine" - e famoso proprio come il suo illustre confratello fra’ Mariano da Torino per salutare e congedarsi da ogni suo interlocutore con la frase, un vero motto e cifra del suo essere francescano: «Pace e bene!». E che rimarrà predicatore della Casa pontificia finché papa Francesco non lo solleverà da questo prestigioso incarico che dal 1743 con il breve Inclytum Fratrum minorum di Benedetto XIV è assegnato a un religioso dell’Ordine dei frati minori cappuccini. «Per me il cardinalato sarà un altro modo di stare vicino al Papa e sostenerlo con la preghiera e la parola – è la prima confidenza del cappuccino oggi 86enne e originario della Marche –. È scontato dire che è stata una sorpresa perché si sa che questo è il modo di papa Francesco di fare i cardinali».

Padre Raniero Cantalamessa fu chiamato a predicare alla Famiglia pontificia

da Giovanni Paolo II nel 1980, poi riconfermato nel 2005 da Benedetto XVI e nel 2013 da Francesco.

«Per me il cardinalato sarà un altro modo di essere vicino a Bergoglio»

Una scelta quella dell’attuale Pontefice di elevare un membro della Famiglia Pontificia che assomiglia per certi versi a quanto fece Paolo VI nel 1977 e Giovanni Paolo II nel 2003 rispettivamente con i teologi domenicani Mario Luigi Ciappi e Georges Martin Marie Cottier…

Considero la mia nomina come un riconoscimento dell’importanza della Parola di Dio, più che della mia persona, dal momento che il mio servizio alla Chiesa è stato - e, per volere espresso di papa Francesco, continuerà ad essere ancora - quasi solo quello di proclamare la Parola, a partire dalla Casa pontificia. Vivo questa designazione a cardinale come un riconoscimento per il mio servizio alla Chiesa che è consistito unicamente nell’annuncio del Vangelo. La mia nomina simboleggia, in un certo senso, un attestato di quanto papa Bergoglio vuol dare dell’importanza di tenere alta la Parola di Dio nella Chiesa.

C’è una figura in particolare che Le è venuta in mente quando ho sentito il suo nome tra i neo-cardinali all’Angelus?

Una figura che per me ha avuto una grande rilevanza nella mia vita è stato quello di padre Pasquale Rywalski che si trovò ad essere ministro generale di noi cappuccini quando il Signore mi chiamò a lasciare l’insegnamento universitario alla Cattolica di Milano per dedicarmi alla predicazione. Devo a lui e al suo discernimento questa scelta che poi via via mi ha portato a essere predicatore della Casa Pontificia e anche a girare per il mondo e fare gli Esercizi spirituali compresi quelli dell’anno scorso ai vescovi degli Stati Uniti (si era nel pieno degli scandali di pedofilia). Era il mio padre spirituale che in quel momento particolare di svolta della mia vita ha giocato un ruolo particolare.

Un’assegnazione della berretta cardinalizia che non cambierà il suo stile "claustrale" di vita e il suo approccio di predicare ai Papi e alla Curia romana…

Appartenendo alla categoria dei cardinali ultraottantenni, non sono previsti incarichi e compiti particolari. Quindi non dovrò cambiare molto il mio stile di vita. Continuerò a vivere nell’eremo dell’Amore Misericordioso di Cittaducale con alcune monache clarisse cappuccine alle quali faccio, in un certo senso, da cappellano. Ricordo il titolo del libro intervista realizzato per il mio 80° compleanno nel 2014: «Il bambino che portava acqua». Io ho continuato per tutta la vita a fare quello che facevo da bambino quando portavo acqua ai mietitori nel campo dei nonni. È cambiata solo l’acqua che porto - la Parola di Dio - e cambiati i mietitori tra i quali, per 40 anni, ci sono stati tre pazientissimi Pontefici: Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e ora Francesco.

Che ricordi in particolare si porta nel cuore di questi tre Vescovi di Roma?

Sono convinto che c’è più merito ad ascoltare la Parola di Dio che a predicarla, tuttavia ringrazio Dio per avermi concesso il singolare privilegio di poter conoscere da vicino uomini così importanti e così umili come san Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e papa Francesco. In realtà sono stati loro a fare la predica a me e a tutta la Chiesa, trovando il tempo per venire ad ascoltare le parole di un semplice frate della Chiesa. Usando una metafora, senza scadere in semplificazioni che rischiano sempre di essere pericolose descriverei così queste tre figure: Giovanni Paolo II - di cui sono stato predicatore per ben 25 anni dei suoi 27 di pontificato - una personalità gigantesca che ha vissuto tutta la vita al cospetto del mondo e di Dio; Benedetto XVI, una mente eccelsa e al contempo profondamente umile, combinazione rarissima almeno nel grado che si è visto in lui; Francesco, un uomo dello Spirito che non fa cose nuove, ma fa nuove le cose. Il cosmopolita, il teologo, il pastore, se si può racchiudere una vita in una parola.

Eminenza domani incomincerà il tempo dell’Avvento. Nelle prediche che sta preparando alla presenza del Papa, dei cardinali e dei vescovi della Curia Romana quali temi affronterà? E ci sarà spazio per parlare di speranza ai tempi del Coronavirus?

Fin dall’inizio della pandemia, risiedo in un eremo alle porte di Roma. È il luogo dove da anni trascorro la mia vita quando non sono in giro per predicazione. Mi sono sentito un privilegiato rispetto a tantissime persone che, in questi mesi, non hanno avuto che le mura di casa dentro cui muoversi. Ho occupato il mio tempo con la preghiera (meno di quanto dovrei!), con la lettura e con qualche breve passeggiata attorno all’eremo. In un certo senso questa emergenza sanitaria ci ha fatto ripiombare nel clima dell’ultima guerra. Nelle mie prossime prediche di Avvento, nel mio piccolo, vorrei cercare anch’io di riflettere sulla pandemia, ma soltanto come pretesto per sottolineare e mettere al centro alcune verità e realtà spesso sottaciute dalla mentalità corrente la morte, la vita eterna, la presenza di Cristo grazie all’Incarnazione, nella barca di questo nostro mondo spesso in tempesta.


Fonte: Avvenire



sabato 31 ottobre 2020

60 anni !!!

 


Nell’immediato secondo dopoguerra, la volontà di ricostruire il tessuto sociale ed economico, si unì al desiderio di progettare una nuova espansione urbanistica della città.

L’area prescelta dalla pianificazione comunale, fu quella di Campolungo: ettari di campagna tra il Viale della Vittoria e la Figuretta di Tabano destinati alla costruzione di un nuovo quartiere con abitazioni, scuole, attività commerciali, strade e servizi.

Alla fine degli anni ’50, il Vescovo Giovanni Battista Pardini intuì l’esigenza di erigere una nuova Parrocchia per una zona chiamata ad accogliere centinaia di giovani famiglie.

Fu, dunque, naturale che, per la sua amministrazione, si rivolgesse ai Frati Minori, presenti in loco dal 1894, nel convento situato accanto alla chiesetta dedicata alla Madonna della Misericordia.




C’era bisogno di un Parroco in grado di affrontare la sfida.

La scelta ricadde sul trentasettenne Padre Ugolino Dottori (nato a Cupramontana nel 1923), ben conosciuto dal Vescovo per aver assolto l’incarico di suo segretario.

Professore di Teologia Morale e Maestro dei Chierici, incarnazione della mitezza evangelica, Padre Ugolino si dedicò anima e corpo alla costruzione della nuova comunità parrocchiale di San Francesco d’Assisi;

Nel suo lavoro fu affiancato da un gruppo di laici. Venne appositamente costituito un Comitato esecutivo presieduto da Ivanoe Cerioni e coordinato da Vito Savini.

In quella fase costituente, un importante ruolo aggregativo fu assolto anche da Alda Marasca (per tutti “Zia Alda”) Ministra della Fraternità locale del Terz’Ordine nonché autorevole Preside dell’Istituto Tecnico Femminile di Jesi

Le cronache dell’epoca raccontano che Padre Ugolino e il Comitato incontrarono 200 uomini capifamiglia e 220 mamme per esporre le linee programmatiche della nuova realtà parrocchiale.

L’insediamento ufficiale del Parroco avvenne il 4 dicembre del 1960. Il quotidiano cattolico “L’Avvenire d’Italia” così registrò l’avvenimento: “Domenica pomeriggio è stata solennemente inaugurata la trentaseiesima parrocchia della Diocesi, intitolata a San Francesco d’Assisi sorta nella chiesa omonima ufficiata dai Padri Minori francescani di Campolungo. Una folla numerosissima gremiva la chiesa mentre Mons. Vescovo dava ordine di leggere la bolla canonica di erezione della parrocchia”.



L’attività pastorale di Padre Ugolino procedette con l’entusiasmo tipico del pioniere e con il sostegno convinto di tanti giovani per i quali volle realizzare strutture adeguate; non disdegnò il lavoro materiale, tant’è che molti lo ricordano ancora alle prese con la carriola per sterrare e livellare l’area destinata alla costruzione del bocciodromo!

P. Ugolino comprese l’importanza della collaborazione delle associazioni laicali, in linea con gli orientamenti del Concilio, allora in corso di svolgimento. Al Parroco si deve la nascita dell’Azione Cattolica parrocchiale e la costituzione del Circolo Acli che raccolse in poco tempo oltre 150 soci.




L’impegno generoso di Dottori non conobbe soste, fino a quando il suo corpo - ma non certo il suo spirito - fu aggredito da un male incurabile.

Nella Cronaca della Parrocchia, alla data del 6 agosto 1966 leggiamo:

Il Parroco ha un tumore maligno. Questa mattina P. Ugolino è stato operato e, purtroppo, quello che era nelle previsioni dei medici è risultato vero: tumore maligno al pancreas in stadio avanzatissimo.

Quello che ha colpito tutti confratelli e fedeli, è stato il coraggio di voler sapere tutto e la serena accettazione della volontà di Dio.

Il parroco prega di far sapere a tutti i suoi parrocchiani che egli offre per il loro bene la sua sofferenza e la sua vita”.

Il 9 settembre 1966 Padre Ugolino si recò all’incontro con Sorella Morte, ad appena 43 anni di età.

Tra quanti lo conobbero, nessuno ha più dimenticato la francescana letizia che irradiava il suo volto:

“Soffrì non poche incomprensioni e avversioni, ma niente riuscì a spegnere mai quell’afflato di cordialità, accoglienza, giovialità, generosità che scuoteva le coscienze più impenetrabili. Accoglieva tutti, non mancava mai di introdurre furtivamente il seme della promessa e la luce della speranza. Anche nei più disperati, sapeva infondere la voglia di ricominciare! E’ stato l’inventore di un nuovo stile di rapporti fra uomini diversi.

Aggiungo che ho assistito assiduamente P. Ugolino negli ultimi giorni della sua vita! Da allora, non smetto di pregare Dio di insegnarmi a morire. Dopo disumane sofferenze, Dio lo chiamò al suo fianco nella notte del 9 settembre 1966. Da quel giorno la nostra parrocchia può contare su un santo protettore di prima grandezza” (Vito Savini)

“Ricordo il suo sorriso, la sua attenzione alle persone a ai loro problemi; soprattutto la capacità squisita di esprimere gratitudine per ogni piccolo servizio svolto in chiesa o nella pastorale.

Ero sacerdote novello e P. Ugolino si trovava in ospedale per vivere il momento decisivo della sua vita. Era giovane, ben voluto da tutti, ricco di energie e risorse per fare il parroco. Eppure era velocemente consumato dal tumore.

La cordialità reciproca si è trasformata in profonda e toccante amicizia. Desiderava che lo assistetti di notte. E delle notti, vegliate insieme, conservo nel cuore la sua serenità, il suo desiderio di voler fare solo la volontà del Signore e la sua sensibilità alla gratitudine. E’ morto, infatti, con il “grazie” sulle labbra. Grazie al Signore, ai medici, agli infermieri, ai parenti e a tutti quelli che lo hanno assistito o visitato. Per un giovane, e un giovane sacerdote, la sua vita e soprattutto la sua morte hanno costituito e costituiscono una delicata “lezione di vita” (P. Luigi Perugini).


Il seme gettato da Padre Ugolino, troverà in Padre Giancarlo Mandolini e nei parroci che si succederanno, altri coraggiosi “agricoltori” impegnati quotidianamente a far crescere la pianticella della comunità parrocchiale.

Negli anni ’70 - alla conclusione del processo di urbanizzazione iniziato nel decennio precedente - la Parrocchia di San Francesco d’Assisi raggiungerà il massimo sviluppo demografico con oltre 8000 anime distribuite in 2500 famiglie.

Il periodo è contrassegnato da una forte vivacità associativa. Sono oltre 500 gli iscritti ai vari gruppi ecclesiali (Agesci, Azione Cattolica, Ordine Francescano Secolare, Polisportiva Audace, Gioventù Francescana, Corsi di Cristianità, Conferenza San Vincenzo).

A metà degli anni ’80, il vasto territorio della Parrocchia subirà un ridimensionamento geografico determinato dalla nascita della nuova realtà di San Massimiliano Kolbe. La contrazione del numero delle anime, non provocherà impatti negativi sull’assetto associativo. Nuove formazioni (Rinnovamento nello Spirito, Cammino Neocatecumenale, Gruppo Famiglie) si aggiungeranno a quelle storicamente presenti. Muterà, tuttavia, la composizione anagrafica dei nuclei familiari con un effetto di tendenziale incremento dell’età dei parrocchiani.

 


Prenderanno avvio, in quel contesto, servizi rivolti alle famiglie (una parte dell’oratorio diventerà sede dell’Asilo Nido Cepi) e alle situazioni di povertà e disagio della nostra città (l’Armadio della Carità). Sarà, invece, il Gruppo Missionario ad aprire i confini della Parrocchia verso il Terzo e Quarto Mondo, attivando interventi di sostegno solidale in ogni latitudine.

Agli inizi degli anni ’90 un evento doloroso sconvolge la comunità parrocchiale: il 2 agosto 1991, durante la fase organizzativa di un campeggio, la giovane capo scout Caterina Benigni perde la vita in un tragico incidente stradale alle porte di Jesi. Il cordoglio dei gruppi ecclesiali e dell’Agesci regionale fu immenso.

In un “terreno” parrocchiale ben coltivato, l’azione dello Spirito ha suscitato molteplici vocazioni al diaconato permanente. Risale al 1996 l’ordinazione di tre padri di famiglia: Alberto Massaccesi, Guido Gianangeli e Giancarlo Sabbatini. Seguirà, in tempi successivi, Antonio Quaranta.

Nello stesso terreno, sono cresciuti laici che, negli anni ’90, hanno svolto servizi direttivi a livello superiore: è il caso di Daniela Storani, Vice Presidente nazionale di Azione Cattolica e  Vincenzo Renzi, Ministro regionale dell’Ordine Francescano Secolare.


 

Un ruolo fondamentale nella vita parrocchiale è da riconoscersi anche alla Fraternità dei Minori presente in convento.

Restano indimenticabili le figure di molti religiosi che divennero autentici punti di riferimento per le giovani generazioni. Tra i tanti ricordiamo Padre Nazareno Falasconi (straordinario “Baloo” del Branco Lupetti di Jesi 2, in servizio permanente effettivo per tutta la vita), Padre Luigi Capoferri (bibliotecario, animatore della Filodrammatica e promotore della “buona stampa”, in sella alla Lambretta o a bordo della Bianchina), Padre Pietro Trillini (insigne musicista e fondatore della Schola Cantorum), Padre Ivo Sebastianelli (instancabile tipografo, sempre immerso tra risme di carta, lettere in piombo e inchiostri).

Ma anche Fra Raffaele (dai ragazzi soprannominato Fra Solchetto per la sua attività di ortolano) e Fra Renato (addetto al servizio liturgico e, in caso di necessità, organista supplente).



Non meno rilevante l’attività dei tanti chierici che, proprio nello studentato annesso al convento, iniziarono il loro “tirocinio pastorale”, prima di essere destinati alle diverse comunità religiose della Provincia di San Giacomo della Marca.

Di questi ultimi anni, va sottolineato lo sforzo diretto a rinvigorire lo spirito comunitario della Parrocchia. In questa prospettiva, si assiste ad un forte rilancio del Consiglio Pastorale, inteso non quale organo di mera ratifica di decisioni di vertice, ma come strumento per analizzare i problemi, studiare soluzioni praticabili, promuovere iniziative e condividere obiettivi.

E proprio dal Consiglio prende forma l’ambizioso progetto di ricostruzione dell’oratorio, dopo l’abbattimento forzato del vecchio edificio a causa della presenza di amianto. La necessità di reperire finanziamenti, ha spinto tutte le associazioni a lavorare, fianco a fianco, per organizzare eventi e manifestazioni di grande attrativa.

In questi mesi, la chiesa è stata interessata dai lavori di restauro delle canne d’organo. A ben vedere, l’intervento manutentivo può assumere anche un valore simbolico.

Le canne, infatti, sono gli elementi che producono il suono dell'organo e vengono azionate attraverso i tiranti dei registri. Questi vengono impiegati dall'organista per variare il timbro dello strumento, in base alle indicazioni della partitura e secondo la personale sensibilità di chi è alla tastiera.

Potremmo dire che le canne rappresentano le diverse componenti della comunità parrocchiale (i battezzati, le famiglie, le associazioni) che, per impulso del Parroco (in questo caso, eccellente organista!) devono produrre una consonanza armonica.

In questi 60 anni, nove sacerdoti hanno assunto la guida della Parrocchia, ognuno con proprie peculiarità caratteriali e  propri talenti.

Tutti hanno assolto il loro mandato con dedizione e coraggio, dando dimostrazione di quelle doti che si richiedono ad un parroco: essere principio di comunione, profeta di speranza e maestro di preghiera.



Ai nove “organisti” va il ringraziamento della nostra comunità parrocchiale:

P. Ugolino Dottori (1960 – 1966)

P. Giancarlo Mandolini (1966 – 1975)

P. Sanzio Giovannelli (1975 – 1978)

P. Alberto Teloni (1978 – 1980)

P. Libero Cruciani (1980 – 1990)

P. Aldo Marinelli (1990 – 1999)

P. Bruno Fioretti (1999 – 2011)

P.  Silvio Capriotti (2011 – 2017)

P. Pierpaolo Fabbri (dal 26 settembre 2017)

 

                                                                                                                    Mauro Torelli


Voce della Vallesina, 20 settembre 2020


domenica 2 agosto 2020

L'olio buono delle nostre colline

“Con grande gioia e sincera gratitudine per l’opportunità che ci è data, annunciamo che il 3 – 4 ottobre prossimi le Marche avranno l’onore di offrire, con un gesto che secondo la tradizione spetta ogni anno ad una regione italiana, l’olio per alimentare la lampada che arde perennemente ad Assisi dinanzi alla tomba del Patrono d’Italia”.

Con queste parole i Vescovi delle diocesi delle Marche annunciano il gesto di devozione che, secondo un calendario che va avanti da oltre 80 anni, coinvolge tutte le regioni d’Italia, chiamate in questo modo ad esprimere il desiderio e la volontà di ispirarsi alla testimonianza lasciata a tutti noi dal Poverello.
In questi giorni in ogni Diocesi è stato recapitato il materiale grafico (brochures con il testo del messaggio dei Vescovi e i manifesti) perché sia diffuso nelle comunità.

Vescovi marchigiani scrivono: “L’evento racchiude molteplici significati religiosi, sociali, storici e culturali, tanto da calamitare l’interesse convergente di diversi Enti, quali la Conferenza Episcopale Marchigiana, la Regione Marche e l’ANCI Marche. Le Marche sono particolarmente intrise della vicenda e dello spirito del Santo d’Assisi.

Innumerevoli documenti e fonti storiche attestano il suo passaggio nella “marca di Ancona”, dalla prima presenza intorno al 1208 ai continui viaggi in tutta la regione fino al 1219, anno in cui Francesco, nel pieno della quinta crociata, compì il viaggio in Oriente narrato da tutti i biografi.

Alla sua testimonianza di fede, prorompente e nuova, come a quella dei frati che lo seguirono, si deve la forte crescita della comunità francescana in terra marchigiana, a cui va associato un grande fermento culturale, tradottosi in opere d’arte (affreschi, crocifissi, sculture, chiese) che hanno contribuito nei secoli ad arricchire il patrimonio storico-artistico della nostra regione. Il francescanesimo ha segnato profondamente questa terra ed è proprio in questa terra che, nella prima metà del 1300, furono scritti i Fioretti di san Francesco.

Ma il “poverello” di Assisi non va venerato solo come un’altissima figura del passato, ma come modello di riferimento a cui guardare anche oggi.

La sua è una presenza viva che può offrirci – in un tempo e in un territorio come il nostro, ferito materialmente e spiritualmente prima dal terremoto e poi dalla pandemia del corona virus – quella protezione e quell’aiuto di cui abbiamo tanto bisogno.
Ne abbiamo bisogno per ricostruire nelle persone la speranza, con uno sguardo lieto e carico di senso non solo sulla vita, ma anche sulle “infirmitate et tribulazioni” e persino sulla “sora nostra morte corporale”.

Ne abbiamo bisogno per riscoprire e trasmettere il gusto di una vita semplice ed essenziale, libera dagli idoli del benessere e del potere.
Ne abbiamo bisogno per ritrovare la bellezza di una esistenza vissuta in fraternità, accoglienza, condivisione e perdono.
Ne abbiamo bisogno per imparare a rispettare e ad amare la Natura “cum tucte le sue creature”.
Ne abbiamo bisogno per realizzare quel dialogo interreligioso e interculturale di cui San Francesco può considerarsi un precursore.

I mesi dunque che ci separano da ottobre, possono essere per le Marche e per le Chiese che sono nelle Marche un’opportunità di incontro con il Santo, un’occasione di preghiera, di riflessione e di approfondimento di uno stile di vita autenticamente evangelico.

Auguriamo a tutti che l’impegno di offrire l’olio buono delle nostre colline per alimentare la lampada votiva, abbia il valore simbolico di trovare il coraggio necessario per diffondere la luce della fede.
Invitiamo tutti a saper valorizzare un tempo quanto mai opportuno per crescere nella fede e a partecipare ai vari eventi che caratterizzeranno le giornate del 3 e 4 ottobre 2020 ad Assisi.
A tutto il popolo delle Marche rivolgiamo il beneaugurante saluto francescano: “Il Signore vi dia pace!”

domenica 12 luglio 2020

lunedì 6 luglio 2020

Ciao Vincenzo

Il ricordo di Vincenzo Renzi francescano secolare
appena tornato alla casa del Padre
Funerali martedì a San Francesco d’Assisi di Jesi alle 16


«Ancora non era notte,
                                                                                      Il Sabato dopo i Vespri
                                                                                      Frate Francesco chinò il capo
                                                                                     Ed al Signore tornò».

Non stride affatto accostare il momento della morte di san Francesco a quella di un suo umile discepolo. Francescano secolare dalle nozze più che d’oro di professione, Vincenzo Renzi è appena sorto in cielo, lunedì scorso, con la docilità di un servo, l’agilità di un giovane, le braccia traboccanti di opere buone, che hanno scaldato tante solitudini esistenziali, lungo il corso dei suoi 86 anni.
L’intero Ordine Francescano Secolare d’Italia ha celebrato già la sua testimonianza di vita con il contributo che segue, non potendo contenere tutti i gesti e le intenzioni con cui questo fornaio e missionario dei nostri giorni ha colorato i suoi passi senza discontinuità, fino al declino naturale. Una vita originale, che non può restare nascosta in tempi come quelli di oggi, tanto virulenti, bisognosi di pace, guarigione, fratellanza universale. Le grandi mani da lavoratore che aveva Vincenzo erano piene di questi beni. Ora potrà distribuirli senza limiti.

* * *

Hanno adottato due figlie, hanno incessantemente aperto casa a persone immigrate, hanno lavorato per quarant’anni giorno e notte in mezzo ai rifiuti urbani, precursori della raccolta differenziata e del riciclo di materiali usati, per versare tutto il ricavato in mano ai poveri: lo stile di vita di Anita e Vincenzo Renzi, coniugi francescani marchigiani, di Jesi, è estremamente sobrio; eppure solo un ragioniere ferrato potrebbe pazientemente quantificare tutto l’ammontare che hanno devoluto in beneficenza. Le cifre sono nero su bianco nei preziosi registri di cassa OFS, dai più recenti a quelli ingialliti dal tempo; perché all’Ordine Francescano Secolare Vincenzo e Anita versavano tutto il ricavato del loro “secondo lavoro”, quello missionario appunto, affinché l’Ordine lo destinasse alle persone bisognose individuate. Per rendere un’idea dei loro quattro decenni di elargizioni: le entrate rendicontate ad esempio solo nell’anno 2005, grazie a questa coppia, ammontano a 19mila euro. Fondi che si ripartivano tra missioni in Congo, Zambia, Brasile, Argentina, ma anche tra famiglie locali in difficoltà, malati di AIDS, iniziative diocesane, centro regionale e nazionale OFS. Tante altre donazioni poi sfuggono ai computi perché andavano direttamente agli stranieri che bussavano alla loro porta, in via Solazzi 8.
Dai campi al pane condiviso
«Chi avrà seminato con larghezza, con larghezza raccoglierà» (2Cor 9,6). Versetto che condensa gli ottantasei anni di Vincenzo, francescano secolare dalle nozze d’oro di professione, e gli ottantadue di sua moglie Anita, francescana di fatto.
Largo è l’abbraccio discreto di Anita, ancora oggi; larga la sua semplice tavola apparecchiata; largo è il solco perenne del sorriso di Vincenzo, le mani corte e forti, le spalle robuste e raggiungibili. Connotati maturati come vino nella botte del tempo, che con l’anzianità non sono sviliti, ma semmai arrotondati e definiti. Neanche la malattia comparsa da circa cinque anni ha cambiato Vincenzo: colpito da Alzheimer, lo si trova arrestato nella prolissità di parole con cui prima bonariamente sfiniva i vicini, ma confermato nella genuina mitezza, nell’umile obbedienza. Obbedisce a chiunque, tuttora, ma in particolare alla moglie, che non lo lascia un minuto, allungando un’occhiata anche quando va ad aprire la porta. La apre di buonumore, interessata solo a dare tutto quello di cui si può aver bisogno. E parla a bassa voce per non disturbare, qualora riposasse, l’attuale ospite di casa, Hassan, marocchino che vive con loro da tre anni, ma di cui Anita e Vincenzo si curavano già da diversi anni. Il magrebino ha purtroppo terminato l’ennesimo lavoro occasionale ed è di nuovo in febbrile ricerca. Accolto fin dal principio con affetto disinteressato, Hassan è rimasto così edificato che si è lasciato coinvolgere e ha aiutato la coppia per sei anni nella loro attività di raccolta, e ora, terminata quella, sostiene i consorti anziani quando hanno bisogno. Anita spera che possa presto essere assunto e possa trovare la sistemazione e l’amore che desidera, anche se con lui vicino si sente più sicura. «Noi ci organizzeremo quando lui se ne andrà», sospira serena; e comincia a raccontarsi, con riferimenti a date precise, e con immancabili proverbi e chicche dialettali.
Lei era la più piccola di quattro fratelli e Vincenzo il sesto di sette; le loro radici affondano nella vita di campagna. «A vent’anni ci siamo sposati e a venticinque ci siamo trasferiti a Jesi, avendo comprato il forno» prosegue Anita. Dal ’62 all’86 furono quindi panettieri. Ma da subito a Vincenzo non bastava alzarsi alle ore piccole per l’arte bianca: anticipava persino la levataccia notturna per andare per le vie in cerca di carta e cartone da rivendere per beneficenza.
Genitori putativi
Intanto ospitarono i suoi genitori fino alla loro dipartita, e nel frattempo adottarono e ricongiunsero due sorelline del salernitano che all’interno dell’istituto che le gestiva erano tenute separate fra di loro. Restituita loro una famiglia e fasciate le piaghe di quei cuori, i genitori francescani iniziarono subito nuove accoglienze. «Vedevo Vincenzo molto attivo», racconta il peruviano Celso, oggi trasferito a Milano con la sua famiglia, ma che da ragazzo trascorse intere estati in casa Renzi. «Ero a Jesi grazie alla borsa di studio, e quando il collegio Pergolesi chiudeva loro mi ospitavano, davvero cortesi. Ero sbalordito da tutta la loro generosità, che mi ha accompagnato anche nel ritorno in Perù, perché, in contatto col mio parroco, Anita e Vincenzo inviavano anche là quanto occorreva».
E Maria e Lorena, figlie adottive dei due fornai di san Francesco, si sono mai sentite trascurate per le tante attenzioni rivolte dai genitori all’esterno? «Credo proprio di no – risponde Anita. Se qualche diffidenza hanno vissuto all’inizio, con gli estranei in casa, dopo capivano presto che si creava un arricchimento per tutti. Maria è ancora oggi sempre in contatto col suo caro amico Celso».
Lorena nel frattempo si è spenta per tumore alle ossa a soli cinquant’anni, nel recente 2016, ma Anita ha avuto grandi consolazioni spirituali e sente questa figlia viva accanto a sé, anche nel veder crescere da vicino le nipoti (prole di Lorena), che abitano col padre al piano di sopra. Comunque, da quando Maria e Lorena hanno lasciato il nido originario per costruirsi una famiglia, i loro genitori, da sempre pervasi dallo spirito di povertà, hanno abdicato la gestione del forno a favore di altri nipoti, senza aspettare di andare in pensione, per intensificare la raccolta di materiale usato, i pellegrinaggi e le accoglienze che dal profondo li attiravano.
Vocazione e guarigione
«Quelle mani ruvide di Vincenzo – racconta Grazia, sorella di fraternità OFS – erano nere, segnate dalle continue immersioni nella spazzatura; e quando lo trovavo in giro ricurvo per trarre materiale, sembrava che toccasse l’oro, perché il suo viso era sempre raggiante. Smontava tutto per recuperare rame, ferro, lana, vetro; e lo faceva in un garage freddo, in qualunque stagione». Anita lo aiutava, e poi lavava e accomodava vestiti, mobilia e altro che Vincenzo raccattava da parenti di defunti o da chi li dismetteva per qualsiasi motivo. Col suo mitico ape verde e una grande prestanza fisica aiutava gratuitamente chiunque anche a traslocare; e ogni offerta che ne ricavava era devoluta ai poveri. Sotto alla forza di Hulk, c’era la piena consapevolezza di una chiamata di Dio, suggellata attraverso una misteriosa guarigione. Appena abbandonato il forno per darsi al lavoro missionario, infatti, Vincenzo fu improvvisamente colpito e bloccato da tre ernie del disco. I medici, volendo valutare la pertinenza di un intervento, temporeggiavano, ma intanto potevano con certezza diagnosticare, e lo fecero, che Vincenzo non avrebbe lavorato mai più, specie sotto sforzo. Dopo venti giorni di ricovero, nella morsa dei dolori, il francescano di Jesi innalzò a Dio la sua supplica: «guariscimi Signore, se vuoi che io lavori per te!». Dopo neanche due giorni, ecco pronte le dimissioni, perché il paziente era perfettamente in piedi. Di lì prese a sollevare armadi, a trasportare lavatrici lungo le scale, più gagliardo che mai. E insieme alle commissioni recava a tutti anche una parola buona, un messaggio di speranza.
«Prenderemo dimora presso di lui» (Gv 14,23)
E ancor più annunciava la pace a chi è stato accolto in via Solazzi 8, arrivato con gli sbarchi anni Novanta dall’Albania: Naim, dapprima, e poi suo fratello Spartaco, ospitato da Vincenzo e Anita per 13 anni insieme a sua moglie Vjollca e ai due figli che nacquero e crebbero in casa loro. Anche la cugina di Vjollca si rifugiò per un anno all’ombra del loro tetto, in fuga da un marito violento. «Era così vulnerabile – racconta Vjollca – che quando alzavo appena la voce con i miei figli davanti a lei, lei scattava terrorizzata». Ma in un anno di cure in casa Renzi arrivò ad affermare: «qui sono rinata una seconda volta». E al di là del caro ricordo della cugina co-ospitata per una parentesi di tempo insieme a loro, Vjollca e Spartaco esprimono immensa gratitudine per l’accoglienza di Anita e Vincenzo, tra le cui mura tutto si svolgeva in armonia, perché essi pazientavano sempre, contenevano, incoraggiavano. «Quanta libertà in quel loro appartamento. Potevo parlare albanese con i miei invitati; e i padroni di casa, tutt’altro che offesi, si facevano da parte, lieti che stessi a mio agio. Per far irritare un minimo Anita e Vincenzo – invece – la dovevi aver combinata davvero grossa», confida Spartaco, che stende un velo pietoso sul disordine che procurava in casa loro prima di introdurre Vjollca.
Ma i due consorti maturi, almeno, avranno discusso qualche volta fra loro! «Mai visti litigare o rivolgersi una sola parola offensiva in 22 anni che li conosco» rivela Vjollca. «Una coppia straordinaria – aggiunge Spartaco – perfettamente uguali e d’accordo in tutti gli intenti. Davvero non poteva capitarci di meglio in Italia. A Jesi, poi, tutti li conoscono: soprattutto per gli stranieri come noi, Vincenzo è il perno dell’integrazione. Grazie a come mi ha avviato lui, infatti, ho da subito trovato lavoro e costruito un futuro per la mia famiglia». Per questo la famiglia albanese, dopo i 13 anni da ospite, ha scelto di comperare un appartamento vicino a quello dei due francescani: sulla china degli anni «non potevamo lasciarli soli – spiega Vjollca. Li vado a trovare tre volte al giorno e il mercoledì resto lì per aiutarli. Da sconosciuti che eravamo un tempo, grazie alla loro fiducia, siamo diventati come parenti; e per i nostri figli, di tredici e vent’anni, Vincenzo e Anita rimarranno per sempre i loro nonni».
Una vita piena, quella dei due coniugi artigiani dell’accoglienza, che davvero ha fatto spazio alla larghezza di cui parla l’apostolo Paolo. Larghezza che Vincenzo e Anita permettono a qualunque viandante di attraversare lentamente, come trattore disperso nella vastità dei loro ridenti versanti coltivati.
Roberta Amico





Voce della Vallesina , 26 luglio 2020