Accade, molto spesso, che la
fama di un uomo illustre metta in ombra le figure dei suoi contemporanei,
negando agli stessi il meritato ricordo.
Tale situazione si è ripetuta
anche in quest’ anno 2020 dominato, per quanto riguarda l’arte, dalle
celebrazioni dell’astro di Raffaello Sanzio, in occasione del quinto centenario
della morte, avvenuta a Roma nel 1520.
Pietro Bembo scrisse per
l’Urbinate un epitaffio di folgorante efficacia inciso sulla tomba del Pantheon:
“da Raffaello,
quando visse, la natura temette d'essere vinta, ora che egli è morto, teme di
morire” (Ille hic est Raphael timuit quo sospite vinci, rerum magna
parens et moriente mori).
Si direbbe, allora, che, a fronte di tanta gloria, non può
esistere alcuna competizione. Eppure costituisce atto di giustizia fare memoria
di tutti coloro che, sempre nel secolo XVI, hanno contribuito alla storia
dell’arte italiana, ancorché da posizioni defilate rispetto alle corti di Papi
e Sovrani.
E’ il caso di Pietro Paolo Agabiti, poliedrico artista locale,
di cui ricorrono – nel silenzio assoluto - i 550 anni dalla nascita
(Sassoferrato, 1470).
Relegato dai critici nella categoria dei “minori”, sconta la
mancata elaborazione di uno stile originale. Tuttavia il suo ruolo nella realtà
pittorica marchigiana è degno di massimo rispetto.
La sua formazione registra molteplici influenze: spunti della
pittura umbro marchigiana, suggestioni venete (Cima da Conegliano, Palmezzano),
influssi di Crivelli e Vivarini, impronte
arcaicizzanti.
E proprio nella nostra città - nella quale trovò dimora e
prese moglie - si sviluppò la maggior parte della vicenda artistica di Agabiti,
a partire da una serie di affreschi all’interno d el Palazzo della Signoria
(1519-1524), di cui si perse traccia a causa di un’improvvida imbiancatura.
Grazie alla committenza dei Frati Minori Osservanti di San
Francesco al Monte, Agabiti consegnò a Jesi le opere della sua maturità: la Madonna
in trono con Bambino e Santi, San Francesco tra S. Antonio e San
Bernardino, San Girolamo penitente nel deserto (tutte
risalenti al terzo decennio del cinquecento).
In quegli stessi anni, Lorenzo Lotto realizzava la Madonna
delle Rose (1526), destinata ad uno degli altari della chiesa dei Frati. E’
probabile che i due pittori si incontrassero, in un periodo aureo nel quale,
per impulso dell’Ordine francescano e delle Confraternite, Jesi assunse un
ruolo di forte attrazione per tanti artisti.
Se nel linguaggio di Lorenzo Lotto - ricco di allusioni,
simbologie e significati nascosti - si coglie la nascita della psicologia
moderna, Agabiti mantiene costantemente un tratto didascalico e schematico, di
semplice interpretazione per il popolo dei fedeli.
Addirittura nella sacra rappresentazione dei tre Santi
francescani, il pittore utilizza l’espediente del “fumetto” per spiegare il mistero
delle stigmate.
Antonio
mette le dita sulla piaga del costato di Francesco esclamando “QUE SUNT
PLAGE ISTE PATER BEATISSIME IN CORPORE TUO SANCTISSIMO” (“Cosa sono o padre
beatissimo, queste piaghe nel tuo santissimo corpo?”). Francesco risponde
all’interrogativo rivolgendosi a Bernardino: “HIS PLAGIS PLACATUS SUM IN
DOMO DEI MEI” (“Grazie a queste piaghe sono stato riconciliato nella casa
del mio Dio”).
Agabiti fu anche abile plasticatore, come è dimostrato dal celebre
presepe in terracotta policroma
invetriata oggi esposto, come le altre opere citate, nella Pinacoteca civica di
Palazzo Pianetti.
Singolare
il destino di Agabiti e, per certi versi, assimilabile a quello di Lorenzo
Lotto: entrambi conclusero la loro vita all’interno di conventi.
Lotto,
come è noto, morì a Loreto come oblato della Santa Casa; Agabiti si ritirò, per
quasi un decennio, nel convento dei Frati della Romita a Cupramontana per
terminarvi i suoi giorni nel 1540.
Mauro Torelli
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