domenica 27 ottobre 2013

sabato 26 ottobre 2013

Tutta l'umanità trepidi !


Ascoltate, fratelli miei. Se la beata Vergine è così onorata, come è giusto, perché lo portò nel suo santissimo seno; se il beato Battista tremò di gioia e non osò toccare il capo santo del Signore; se è venerato il sepolcro, nel quale egli giacque per qualche tempo; quanto deve essere santo, giusto e degno colui che stringe nelle sue mani, riceve nel cuore e con la bocca ed offre agli altri perché ne mangino, Lui non già morituro, ma eternamente vincitore e glorificato, sul quale gli angeli desiderano volgere lo sguardo!

Badate alla vostra dignità, fratelli sacerdoti, e siate santi perché egli è santo. E come il Signore Iddio vi ha onorato sopra tutti gli uomini, con l'affidarvi questo ministero, così voi amatelo, riveritelo e onoratelo più di ogni altro uomo.
Grande miseria sarebbe, e miseranda meschinità se, avendo lui cosi presente, vi curaste di qualunque altra cosa che esista in tutto il mondo.



Tutta l'umanità trepidi, I'universo intero tremi e il cielo esulti, quando sull'altare, nella mano del sacerdote, si rende presente Cristo, il Figlio del Dio vivo. O ammirabile altezza e degnazione stupenda!
O umiltà sublime! O sublimità umile, che il Signore dell'universo, Dio e Figlio di Dio, così si umili da nascondersi, per la nostra salvezza, sotto poca apparenza di pane!
Guardate, fratelli, I'umiltà di Dio, ed aprite davanti a lui i vostri cuori; umiliatevi anche voi, perché siate da lui esaltati. Nulla, dunque, di voi trattenete per voi, affinché totalmente vi accolga colui che totalmente a voi si offre.


Fonti Francescane 220 - 221


Lo Sporticello


All’indomani del Capitolo dell’Acquarella (1529) la diffusione del movimento cappuccino fu imponente, in particolar modo nel territorio marchigiano.



Nel rispetto delle Costituzioni i conventi dovevano sorgere fuori dell’abitato in luoghi solitari, non troppo lontani dalla città perché l’eccessiva distanza avrebbe reso difficile l’accesso dei fedeli, ma neppure troppo vicini per preservare il clima di raccoglimento dei frati:



“Che li luochi tutti siano presi fuori delle città distanti per un miglio, o poco manco; et che detti luochi che s’hanno a pigliare, et fabbricare, sino sempre sotto il dominio delli padroni, ovvero delle città, et siano sempre presi con questa conditione, che ogni volta, che li trovasse impedimento alla vita nostra, li frati liberamente si possino partire, et quando alli padroni no’ piacesse che frati abitassero in detto luoco, senza alcuna conditione s’habbiano a partirsi et andare in altro luoco".



Nel 1541 il Comune di Jesi assegnò all’ultima nata tra le famiglie francescane, un terreno nei pressi della Selva della Sterpara in località Castellare (l’attuale Tabano). Ancora oggi, tra i  contadini della zona,  è tramandata la memoria di una via denominata “Cappuccini vecchi”, a ricordo del primo insediamento inaugurato il 5 ottobre 1544.



Il convento fu sede del noviziato ed ospitò, nel 1557, Serafino da Montegranaro, destinato a salire agli onori degli altari nel 1767.



L’eccessiva distanza dal centro urbano  e la scarsità d’acqua in loco, indusse i Cappuccini, dopo appena 50 anni, a vendere l’edificio e a costruire, con il ricavato, un nuovo convento in un’area messa a disposizione dalla Famiglia Nobili nella zona dell’Isolato Carducci, a 46 passi dalla città.



La nuova struttura, cui era annessa la Chiesa di San Michele, disponeva di ben 34 celle e fu inaugurata nel 1592.



La grande stima acquistata in pochi anni dai Cappuccini, fece sì che il Comune decidesse di aprire, nel 1605, un varco sulle Mura Occidentali, con lo scopo di agevolare l’accesso in città dei frati, anche in caso di attacchi al convento da parte di malfattori: il passaggio, situato in corrispondenza dell’attuale via Pietro Grizio, prese il nome, ancora oggi in uso, di “sporticello”.
dal libro: "800 anni, ma non li dimostra !", seconda edizione 2010

sabato 12 ottobre 2013

La settimana francescana 2013

Voce della Vallesina, 13 ottobre 2013

Solo l'amore crea !

Ottobre 2013: collocazione della statua di San Massimiliano Kolbe nel giardino dell'omonima parrocchia di Jesi

La passione per il giornalismo e la preghiera, la devozione religiosa e missioni ovunque. C’è stato molto, anzi moltissimo nella vita di san Massimiliano Kolbe (1894-1941), di cui oggi ricordiamo la morte. Francescano conventuale, questo figlio di Polonia non ebbe certo una vita noiosa: entrò ancora molto giovane, a 13 anni, nell’Ordine dei Frati Minori Conventuali in Leopoli, nel 1922 curò insieme ad altri la pubblicazione del Rycerz Niepokalanej (Cavaliere dell’Immacolata), un mensile, e pochi anni dopo, nel 1927, diede vita ad una singolare “città”, che chiamò Niepokalanow (Città dell’Immacolata) e dove, accanto alla vita religiosa consacrata a Maria, venivano promosse le più svariate espressioni di apostolato: dalla stampa alla radio, dal cinema all’aeroplano; inoltre poi viaggiò molto, dal Giappone all’India. Ci sarebbe davvero molto da dire, insomma, sull’intensa ed appassionata esistenza di padre Kolbe. Eppure il culmine del suo viaggio terreno si verificò indubbiamente là, nel campo di concentramento di Auschwitz dove, a partire dal maggio del 1941, si trovava dopo essere stato arrestato per la seconda volta dai nazisti (era stato rimesso in libertà nel dicembre del ’39, dopo un primo arresto seguito da due mesi di prigionia). Un luogo infernale dunque, che avrebbe azzerato l’ottimismo di chiunque ma che, incredibilmente, non spense la speranza del frate il quale trovò pure, laggiù, la forza di scrivere ricordando alla madre che «Dio c’è in ogni luogo e con grande amore pensa a tutto e a tutti». Già questo dovrebbe bastare a comprendere la notevole statura del francescano. L’apice della sua grandezza, però, doveva ancora emergere.
Ed emerse di lì a poco, precisamente quando, dopo la fuga di un detenuto, i nazisti presero dieci prigionieri per spedirli nel “bunker della fame” e padre Kolbe si offrì al posto di uno di loro che, piangendo, disse di avere una famiglia. Senza acqua né cibo per quindici giorni, molti morirono ma il frate, coi superstiti, tenne duro cantando e pregando la Madonna. E quando, increduli, gli uomini delle SS decisero di eliminarlo iniettandogli acido fenico, costui fissò il medico nazista e, prima di spirare col nome di Maria sulle labbra, gli disse: «Lei non ha capito nulla della vita… l’odio non serve a niente. Solo l’Amore crea!». Aveva ragione: quasi nulla sappiamo dei suoi carnefici, mentre oggi, 73 anni dopo quel 14 agosto 1941, padre Kolbe è santo. L’odio con cui venne eliminato s’è disperso come cenere nelle periferie della storia, lui vive. Di più: giganteggia e illumina chiunque venga a conoscenza del suo sacrificio.

fonte:Tempi

martedì 1 ottobre 2013

San Francesco al Monte


"I proficui rapporti intercorsi con Giacomo della Marca e Marco da Montegallo, indussero il Comune a formalizzare un invito ufficiale ai Minori dell’Osservanza, affinché potesse essere costituito un convento a Jesi

Con una prima proposta, risalente al 1450, il Comune offriva all’Osservanza la disponibilità della Chiesa di San Marco. Tale soluzione, tuttavia, si rivelò non percorribile a causa della ferma opposizione dei Conventuali.

Ulteriori difficoltà emersero nel 1469 e nel 1471, a fronte di altri inviti.
Finalmente, nel 1486, gli Osservanti accettarono di realizzare un insediamento a Jesi, ma solo dopo ulteriori cinque anni di trattative, nel 1491, iniziarono i lavori di costruzione di un nuovo convento con annessa chiesa intitolata a S. Francesco al Monte, nella zona nord della città.

L’edificio di culto - oggi non più esistente per le sciagurate motivazioni che avremo modo di approfondire in seguito -  sarà destinato ad ospitare opere di straordinario rilievo artistico tra le quali la celebre Madonna delle Rose (1526-27 c.) di Lorenzo Lotto e diversi capolavori di impronta francescana opera di Pietro Paolo Agabiti (San Francesco, tra S. Antonio e S. Bernardino, un Presepe in terracotta policroma invetriata).

Nell’altare maggiore della chiesa era allocato un altro dipinto di Agabiti (Madonna in trono con il bambino, San Giovanni Battista e S. Antonio da Padova, 1540 c.) di enorme interesse anche per il fatto di contenere l’illustrazione del paesaggio jesino dell’epoca: sulla destra sono, infatti, disegnate San Marco - chiesa madre dei francescani della Vallesina - con a fianco un campanile (oggi assente) e, probabilmente, la stessa S. Francesco al Monte.

La nobile famiglia jesina dei Colocci fu particolarmente legata alla chiesa, tanto da patrocinarvi una Cappella gentilizia dedicata al SS. Crocifisso, nel cui interno fu eretto un monumento funebre in memoria del consanguineo Giovanni Benedetto, religioso di straordinaria cultura morto d’asma a Roma nel 1695.

Diversi furono i membri della casata che vestirono il saio francescano: nel 1830 sarà Annibale Colocci a rinunciare ai diritti di primogenitura per entrare nel convento jesino dell’Osservanza con il nome di Padre Giuseppe.

Risale proprio all’800 un acquerello del Marchese Adriano Colocci raffigurante la Chiesa di S. Francesco al Monte, rappresentata in una conformazione architettonica non dissimile rispetto ad un rarissimo reperto fotografico di scarsa nitidezza, comunque di poco antecedente la  demolizione."
 dal libro: "800 anni, ma non li dimostra!" (seconda edizione, 2010)