800 ANNI, MA NON LI DIMOSTRA!
breve storia del francescanesimo jesino
da Crescenzio Grizi ad Oscar Serfilippi
a cura di Mauro Torelli
in ricordo di Padre Alberto M. Teloni,
educatore gigante (in tutti i sensi)
PREFAZIONE ALLA SECONDA EDIZIONE
La benevola accoglienza ricevuta, nel 2009,
da “800 anni, ma non li dimostra!”, ha convinto il recalcitrante autore
a ritornare a lavorare per una seconda edizione.
Il volumetto che avete tra le mani non è la
semplice ristampa della prima edizione, quanto, piuttosto, l’esito di una
rivisitazione della stesura originaria con l’inserimento di nuovi capitoli,
l’arricchimento contenutistico di diversi paragrafi, la correzione di alcuni refusi.
Intatte rimangono le finalità divulgative,
l’impostazione concettuale e,
soprattutto, la caratura dilettantistica
di chi ha scritto!
Un rinnovato augurio di buon viaggio nella
storia del francescanesimo jesino.
Jesi, novembre 2010
800 anni, noi dimostra!
di
Mauro
LA
MEMORIA DEL PASSATO
Otto secoli fa, in un paese dell’Umbria, un giovane della
borghesia mercantile di nome Francesco, poco più che ventenne ed in piena crisi
esistenziale, decise di mettersi alla ricerca dell’Assoluto.
Fra la derisione dei compaesani e lo sconcerto del padre Bernardone,
trovò il coraggio di denudarsi nella piazza di Assisi e di baciare un lebbroso
incontrato sulla via: da quel momento la sua esistenza fu segnata per sempre
dall’Amore.
Nel 1209, Francesco volle recarsi
a Roma con i suoi primi undici compagni per ottenere un riconoscimento
ufficiale da parte del Signor Papa : Innocenzo III, dopo un’iniziale
esitazione, lo incoraggiò a perseverare
nel cammino intrapreso.
Nell’arco temporale di appena dodici anni i frati divennero più di 5.000 e a loro si
aggiunsero Chiara con le vergini consacrate e una moltitudine di laici
desiderosi di seguire Francesco nel suo stile di vivere il Vangelo alla
lettera.
La diffusione del movimento fu impetuosa ed inarrestabile!
In particolare, la terra marchigiana, confinante con l’Umbria, fu subito
conquistata dal carisma del Santo di Assisi: veramente, come scrisse lo
storico Sabatier, “la Marca d'Ancona doveva divenire e rimanere la
provincia più francescana di ogni altra”.
Anche la città di Jesi accolse il messaggio di Francesco e divenne, in
breve tempo, il più importante centro di irradiazione per la Vallesina.
E questo si verificò,
si noti bene, in una realtà socio-ambientale attraversata da correnti di
matrice ghibellina, fortemente ostili alla Chiesa istituzionale.
Secondo lo storico
Urieli, il sentimento anticlericale costituisce “una componente atavica,
ancestrale, essenziale dello spirito jesino” e può essere fatta risalire
addirittura “agli albori stessi della vita del libero Comune”.
Eppure sarebbe ingiusto
sottovalutare o, addirittura,
dimenticare il ruolo di un’altra componente della storia locale ovvero
quella che, sempre Urieli, definiva “sacrale”
o “religiosa”: “una religiosità che influiva nella realtà locale, in
ogni suo aspetto e in ogni momento, ma che non si traduceva mai in un
atteggiamento clericale; che anzi potrebbe definirsi laico, quando non
laicista, mentre la Chiesa Romana era vista e considerata più come entità
politica e regime dominante, meno come realtà mistica”.
In questo contesto, un
ruolo centrale è esercitato dal movimento che si ispira a Francesco di Assisi.
La simpatia suscitata
universalmente dai frati è motivata dall’impronta popolare del carisma
francescano: “I frati devono godere quando vivono in mezzo alle persone vili
e disprezzate, fra i poveri, i deboli, gli infermi, i lebbrosi e coloro che
stanno a mendicare lungo la strada” (FF 194).
Sin dalle origini del
francescanesimo, Jesi diventerà il crocevia di personaggi e avvenimenti di
fondamentale rilievo.
Per il numero e
l’importanza di quanti (frati conventuali e osservanti, riformati e cappuccini,
minori, clarisse e terziari), in 800 anni, hanno tramandato l’ideale di
Francesco nella nostra città, non è, dunque, azzardato parlare di una storia
del francescanesimo jesino.
*
* * * *
L’autore di questo
scritto non è uno storico di professione, quanto piuttosto un semplice cultore
della materia, con una predilezione per le vicende locali.
Essere stato allievo
di Don Costantino Urieli (lui sì, vero e
indimenticato storico di spiccato profilo) ha consentito, a me come ad altri
compagni di Liceo, di coltivare la passione per la storia della nostra terra.
L’idea di scrivere
l’opuscolo che avete sotto gli occhi, è scaturita dalla constatazione
dell’estrema frammentarietà delle fonti di conoscenza in tema di
francescanesimo locale.
Tale situazione
comporta oggettive difficoltà nella ricostruzione delle vicende del movimento.
Il tentativo è stato
quello di “cucire” una serie di informazioni disseminate in una pluralità di
documenti, di livello e provenienza diversificati.
Lo stile vuole essere,
quanto più possibile, divulgativo (termine che non ha nulla da spartire
con approssimativo), ovvero di agevole lettura, di facile comprensione,
non riservato agli addetti ai lavori.
Ovviamente - ma non è
inutile sottolinearlo - tale scelta stilistica non vuole pregiudicare in alcun
modo l’attendibilità dei contenuti e la
serietà della ricerca.
Il lavoro è articolato
in due parti, tra loro interconnesse: nella prima viene presentato un excursus
della storia del movimento francescano dalla morte del fondatore (1226) alla
riforma cappuccina (1528).
Trattasi, in larga
misura, di vicende – talvolta anche drammatiche - che si sono svolte nelle
Marche, a conferma della “vocazione” francescana di questa regione, non a caso
definita la “Terra dei Fioretti”.
La seconda parte è
interamente dedicata alla storia locale, a partire dal Ministro generale
dell’Ordine Crescenzio Grizi (XIII secolo) fino a Padre Oscar Serfilippi
(2006).
I due capitoli vanno letti “in parallelo”, in considerazione
dei ripetuti richiami alle vicende nazionali e locali.
Sotto il profilo
metodologico si è cercato di assimilare l’autorevole lezione di Marc Bloch,
secondo cui l’analisi cronologica di un fenomeno storico, sia pur collocato
all’interno di un territorio di dimensioni circoscritte, assume comunque una
valenza paradigmatica rispetto alla complessità.
Sotto il profilo
pratico, accettando il rischio delle omissioni, si è deciso di
"contenere" la ricerca in appena 40 cartelle e ciò al fine di non
atterrire i nostri 25 lettori!
Buon viaggio nella
storia!
Jesi, dicembre 2009
PARTE
PRIMA
LA PROVINCIA FRANCESCANA
PER ECCELLENZA
ANNO
DOMINI 1208: DUE PAZZI SI AGGIRANO PER LA MARCA
Francesco unitamente
a Egidio andò nella Marca di Ancona, gli altri due (Bernardo e Silvestro)
si posero in cammino verso un'altra regione. Andando verso la Marca, esultavano
giocondamente nel Signore. Francesco, a voce alta e chiara, cantava in francese
le lodi del Signore, benedicendo e glorificando la bontà dell'Altissimo. Tanta
era la loro gioia, che pareva avessero scoperto un magnifico tesoro nel podere
evangelico della signora Povertà, per amore del quale si erano generosamente e
spontaneamente sbarazzati di ogni avere materiale, considerandolo alla stregua
di rifiuti.
E disse il Santo a Egidio: “ Il nostro movimento religioso sarà simile al pescatore, che getta le sue reti nell'acqua e cattura una moltitudine di pesci, poi, lasciando cadere nell'acqua quelli piccoli, ammucchia nelle ceste quelli grossi ”. Profetava con questa similitudine l'espansione del suo Ordine.
L'uomo di Dio non teneva ancora delle prediche al popolo ma, attraversando città e castelli, tutti esortava ad amare e temere Dio, a fare penitenza dei loro peccati. Egidio esortava gli uditori a credere nelle parole di Francesco, dicendo che dava ottimi consigli.
Gli ascoltatori si domandavano l'un
l'altro: “ Chi sono questi due? cosa ci stanno dicendo? ”. A quei tempi l'amore
e il timor di Dio erano come spenti nei cuori, quasi dappertutto; la penitenza
era ignorata, anzi la si riteneva una insensataggine. A tanto erano giunte la
concupiscenza carnale, la bramosia di ricchezza e l'orgoglio, che tutto il
mondo pareva dominato da queste tre seduzioni diaboliche. Su questi uomini
evangelici correvano perciò opinioni contrastanti. Alcuni li consideravano dei
pazzoidi e dei fissati; altri sostenevano che i loro discorsi provenivano
tutt'altro che da demenza. Uno degli uditori osservò: “ Questi qui o sono uniti
a Dio in modo straordinariamente perfetto, o sono dei veri insensati poiché
menano una vita disperata: non mangiano quasi niente, camminano a piedi nudi,
hanno dei vestiti miserabili ”.
Ciò nonostante, vedendo quel modo di vivere così austero eppure così lieto, furono presi da trepidazione. Nessuno però osava seguirli. Le ragazze, al solo vederli da lontano, scappavano spaventate, nella paura di restare affascinate dalla loro follia.
Percorsa che ebbero quella provincia, fecero ritorno al luogo di Santa Maria (Leggenda dei tre compagni 33,34).
Ciò nonostante, vedendo quel modo di vivere così austero eppure così lieto, furono presi da trepidazione. Nessuno però osava seguirli. Le ragazze, al solo vederli da lontano, scappavano spaventate, nella paura di restare affascinate dalla loro follia.
Percorsa che ebbero quella provincia, fecero ritorno al luogo di Santa Maria (Leggenda dei tre compagni 33,34).
A distanza di ottocento
anni, nella Vallesina sono ancora visibili tracce alquanto significative dei
passaggi del Santo.
Presumibilmente nel
1210, Francesco ed Egidio provenienti da
Valleremita, si diressero al monastero benedettino
di S. Urbano dell’Esinante; i monaci,
conquistati dal fervore spirituale dei due pellegrini, posero a loro disposizione un'area boscosa situata nei
pressi del castello di Favete, a due miglia da Apiro.
Nella zona saranno, in
seguito, realizzati un conventino e una chiesetta in pietra dedicata a S.
Francesco (oggi in condizioni fatiscenti, dopo il terremoto del 1997) sulle cui
pareti è ancora parzialmente visibile un pregevole affresco del 1490 con i
ritratti della Madonna che allatta Gesù, affiancati da San Francesco e S.
Antonio.
Proseguendo il viaggio
verso il fiume Musone, un’altra tappa del percorso fu la contrada delle
Crocette, nel territorio di Staffolo. I due frati, stanchi per il cammino,
ebbero il desiderio di dissetarsi e pregarono il Signore per il dono di sorella
acqua.
Secondo la tradizione,
dalla terra scaturì, per miracolo, una polla d’acqua ancora oggi zampillante.
Nel 1244, il Ministro
Generale dell’Ordine Crescenzio Grizi,
di cui tratteremo in un paragrafo successivo, fece apporre, sul luogo del
prodigio, una lapide con il seguente contenuto:
“Hanc
(aquam) eduxit oratio B. Francisci
cum Frate Aegidio precantis
anno Domini 1210
Frater Crescentius de Aesio
fieri fecit A.D. 1244”
Questa (acqua) fece scaturire la preghiera del beato Francesco in
preghiera insieme a frate Egidio nell’anno del Signore 1210. Frate Crescenzio
da Jesi fece realizzare (questa lapide) nell’anno del Signore 1244.
In prossimità della
sorgente, luogo di frequenti pellegrinaggi per gli effetti benefici di
quell’acqua, nel 1796 fu edificata un’umile chiesa, in onore del Santo di
Assisi.
La “follia” di
Francesco fu straordinariamente contagiosa! In meno di 20 anni da quel primo
viaggio il numero degli insediamenti si moltiplicò a dismisura.
Nel 1226, anno della
morte del Santo, il movimento francescano era già organizzato in sei Province
religiose: la Thuscia (Toscana, Umbria, Sabina e Lazio), la Lombardia
(da Rimini alle Alpi), la Terra Laboris (Abruzzo e Campania), l’Apulia
(Capitanata, Terre di Bari, Lecce e Otranto), la Calabria (unitamente
alla Sicilia) e la Marca Anconetana (dal Tronto al Foglia con Massa Trabaria e il Montefeltro).
Quest’ultima Provincia,
nonostante la limitatezza del territorio, poteva già annoverare oltre trenta
Fraternità: Acquaviva, Ancona, Ascoli Piceno, Camerino, Castel d’Emilio,
Castiglioni d’Appignano, Cessapalombo, Civitanova, Fabriano, Falerone, Fano,
Faggiola di Macerata Feltria, Favete di Apiro, Forano, Fratterosa, Jesi,
Lunano, Massa Fermana, Matelica, Mercatello, Mondaino, Mondavio, Montalto,
Mombaroccio, Montefalcone, Morrovalle, Polesio detto poi Poggio Canoso,
Pontelatrave, Recanati, Saltara, San Leo, Roccabruna di Sarnano, Sirolo,
Venarotta e forse Osimo, Penna e Pesaro.
Ma proprio nelle Marche emersero, come vedremo, le prime profonde
inquietudini provocate da divergenti interpretazioni della volontà del
fondatore.
Nel suo Testamento, Francesco, dopo aver ripercorso con commozione le
origini della sua straordinaria esperienza, aveva formulato chiare indicazioni
operative per il futuro dell’Ordine:
“E dopo che il
Signore mi dette dei frati, nessuno mi mostrava che cosa dovessi fare, ma lo
stesso Altissimo mi rivelò che dovevo vivere secondo la forma del santo
Vangelo. Ed io la feci scrivere con poche parole e con semplicità, e il signor
Papa me la confermò.
E quelli che venivano per abbracciare questa vita,
distribuivano ai poveri tutto quello che potevano avere, ed erano contenti di
una sola tonaca, rappezzata dentro e fuori, del cingolo e delle brache. E non
volevamo avere di più.
Noi chierici dicevamo l'ufficio, conforme agli altri
chierici; i laici dicevano i Pater noster, e assai volentieri ci fermavamo nelle
chiese. Ed eravamo illetterati e sottomessi a tutti.
Ed io lavoravo con le mie mani e voglio lavorare; e voglio
fermamente che tutti gli altri frati lavorino di un lavoro quale si conviene
all'onestà. Coloro che non sanno, imparino, non per la cupidigia di ricevere la
ricompensa del lavoro, ma per dare l'esempio e tener lontano l'ozio.
Quando poi non ci fosse data la ricompensa del lavoro,
ricorriamo alla mensa del Signore, chiedendo l'elemosina di porta in porta.
Il Signore mi rivelò che dicessimo questo saluto: “Il
Signore ti dia la pace!”.
Si guardino bene i frati di non accettare assolutamente
chiese, povere abitazioni e quanto altro viene costruito per loro, se non
fossero come si addice alla santa povertà, che abbiamo promesso nella Regola,
sempre ospitandovi come forestieri e pellegrini.
Comando fermamente per obbedienza a tutti i frati che,
dovunque si trovino, non osino chiedere lettera alcuna [di privilegio] nella
curia romana, né personalmente né per interposta persona, né per una chiesa né
per altro luogo né per motivo della predicazione, né per la persecuzione dei
loro corpi; ma, dovunque non saranno accolti, fuggano in altra terra a fare
penitenza con la benedizione di Dio”.
D’altra parte la Regola (capitolo VI) conteneva disposizioni di analogo tenore:
“I frati non si approprino di nulla, né casa, né luogo,
né alcuna altra cosa. E come pellegrini e forestieri in questo mondo, servendo
al Signore in povertà ed umiltà, vadano per l’elemosina con fiducia. Né devono
vergognarsi, perché il Signore si è fatto povero per noi in questo mondo.
Questa è la sublimità dell’altissima povertà, quella che ha costituito voi,
fratelli miei carissimi, eredi e re del Regno dei cieli, vi ha fatto poveri di
cose e ricchi di virtù. Questa sia la vostra parte di eredità, quella che
conduce fino alla terra dei viventi. E, aderendo totalmente a questa povertà,
fratelli carissimi, non vogliate possedere niente altro in perpetuo sotto il
cielo, per il nome del Signore nostro Gesù Cristo”.
Che la povertà costituisca il tratto qualificante
dell’esperienza umana di Francesco (non a caso chiamato Pater pauperum dal
Celano), è cosa tanto certa quanto
universalmente nota, non solo ai
seguaci e ai credenti, ma anche all’immaginario collettivo, come risulta
attestato anche da innumerevoli testimonianze artistiche.
Se volessimo considerare il poeta come un testimone
qualificato della società del proprio tempo, scopriremmo che i massimi autori
di tutte le epoche sono rimasti affascinati dal rapporto tra il Santo di Assisi
e Madonna Povertà.
Agli estremi temporali di questi otto secoli di
francescanesimo, Dante Alighieri (1265 – 1321) e Alda Merini (1931 – 2009) si
sono posti in contemplazione di questa singolare relazione amorosa.
Dal Canto XI del Paradiso, apprendiamo che la Povertà,
rimasta vedova di Cristo, suo primo sposo, dovette attendere la nascita di
Francesco per essere nuovamente corteggiata (“privata del primo marito,
millecent’anni e più dispetta e scura, fino a costui si stette sanza invito”).
L’amore tra Francesco e la povertà ebbe conseguenze
dilaganti “tanto che ‘l venerabile Bernardo si scalzò prima” e, subito
dopo “scalzasi Egidio, scalzasi Silvestro dietro a lo sposo, sì la sposa
piace”.
Al momento della morte, ai suoi frati, come legittimi
eredi, Francesco “raccomandò la donna sua più cara, e comandò che l’amassero
a fede”.
Dal “Canto di una creatura” della Merini, cogliamo,
invece, il senso di gioia e di
gratitudine di Francesco per la sua vita
in povertà:
“Felice Colui
che mi ha rivestito di un saio
che è diventato un pavimento di rose.
Non ho mai sentito
l’asperità di questo tessuto,
ma odorava di fresco,
odorava di mattino,
odorava di resurrezione.
Le mie spalle sono diventate deboli ma forti:
sono diventato un contadino di fede.
Aravo solo la terra di Dio, la sua volontà”.
INIZIANO LE DIVISIONI…
Come era
umanamente prevedibile, il carattere radicale della volontà testamentaria di
Francesco finì per creare, nei suoi seguaci, serie
difficoltà sul piano operativo.
A pochi anni dalla morte del Fondatore, si assistette ad un
fenomeno di clericalizzazione dell’Ordine (la definizione è riferita dallo
storico Bartoli): con le Costituzioni del 1239 vengono impartite precise
indicazioni normative in base alle quali “nessuno può essere accolto nell’Ordine
se non sia chierico così da essere competente in grammatica, istruito in
logica, o in medicina, o nel diritto canonico, o in quello civile, o in
teologia”.
Con il medesimo atto si dispone che “i frati non stiano
per strada o nei luoghi pubblici a chiedere l’elemosina”, in evidente
controtendenza rispetto a quanto previsto dalla Regula non bullata (“Et
cum necesse fuerit, vadant pro elemosynis” FF 31)
L’applicazione dei nuovi orientamenti , che coincide con la
fase di abbandono dei primitivi insediamenti periferici e il conseguente
trasferimento nelle zone urbane, determina una svolta identitaria e suscita
sconcerto e confusione soprattutto tra alcuni frati della “prima ora”.
E’ il caso di Frate Ginepro protagonista di un episodio
straordinario (anche perché percorso da una sottile vena di “umorismo” di
tipica marca francescana):
“Tanta pietà aveva alli poveri Frate Ginepro e compassione,
che quando vedea alcuno che fusse vestito male o ignudo, di subito toglieva la
sua tonica, o lo cappuccio della sua cappa, e davalo al così fatto povero; e
però il Guardiano gli comandò per obbedienza, ch’egli non desse a nessuno
povero tutta la sua tonica, o parte del suo abito. Avvenne caso, che a pochi dì
passati scontrò uno povero quasi ignudo, domandando a Frate Ginepro limosina
per lo amore di Dio: a cui con molta compassione disse: Io non ho ch’io ti
possa dare, se non la tonica; ed ho dal mio prelato per la obbedienza, che io
non la possa dare a persona, né parte dello abito: ma se tu me la cavi di
dosso, io non ti contraddico.
Non disse a sordo; che di subito cotesto povero gli cavò la
tonica a rovescio, e vassene con essa, lasciando Frate Ginepro ignudo. E
tornando al luogo, fu addomandato dove era la tonica, risponde: Una buona
persona la mi cavò di dosso, e andossene con essa. E crescendo in lui la virtù
della pietà, non era contento di dare la sua tonica, ma dava e’ libri,
paramenti e mantella, e ciò che gli venia alle mani dava ai poveri. E per
questa cagione li Frati non lasciavano le cose in pubblico, perocchè Frate
Ginepro dava ogni cosa per l’amore di Dio, e a sua laude”.
D’altra parte, la dissidenza all’interno del
francescanesimo non era altro che il riflesso della più vasta “questione
pauperistica”, simbolo di una lacerante contraddizione che stava attraversando
la vita della Chiesa durante il medioevo.
Mentre parte dell’Ordine propugnava il primato assoluto
della “santa povertà”, altri esponenti (sostenuti dalla Curia Romana)
vollero coltivare un obiettivo di proselitismo e di penetrazione francescana
nella società dell’epoca: tale strategia
poteva essere perseguita attraverso
l’edificazione di nuovi conventi e lo sviluppo territoriale di una solida
struttura organizzativa.
Molto presto i fautori della spinta apostolica entrarono in
conflitto con i sostenitori del carisma contemplativo delle origini: con la
bolla Quo elongati del 1230, Gregorio IX – ovvero proprio colui che, da
Cardinale, era stato il protettore di Francesco - giunse a dichiarare che i
frati non erano obbligati alla stretta osservanza del Testamento.
La presa di posizione del Papa fece divampare lo scontro
tra la componente degli zelanti (strenui “custodi” del Testamento) e
quella dei lassisti.
La situazione di crisi fu affrontata, attorno al 1240,
dallo jesino Crescenzio Grizi (sesto successore di San Francesco), il quale si
contrappose apertamente agli zelanti, in sintonia con l’autorità papale.
Appartenente a
una delle più nobili famiglie della città, in gioventù aveva avuto moglie e
prole. Alla morte della coniuge, aveva deciso di entrare, insieme ad un figlio,
nell’Ordine francescano.
Le Fonti così descrivono l’operato del Grizi:
Entrato nell’Ordine già vecchio, esperto in diritto
canonico e in medicina. Non molto tempo dopo fu fatto Provinciale della Marca
anconetana. Vi trovò una setta di uomini superstiziosi, che non camminavano
secondo le verità del Vangelo (…) ritenendosi più spirituali degli altri e
volendo vivere secondo il proprio arbitrio, attribuendo tutto questo alla
mozione dello Spirito. Frate Crescenzio, mentre era ministro provinciale li
sterminò con mano forte”(FF 2671)
Controverso fu il giudizio dei contemporanei sull’opera di
Crescenzio: un giudizio sicuramente condizionato dalle contrapposte
appartenenze dei suoi critici.
La fazione avversaria degli zelanti gettò discredito su di
lui considerando la sua azione “inutile” ed “insufficiente” (FF 2671)
Per altri, al contrario, “il suo zelo era
infiammato dalla carità, modellato dalla scienza e fortificato dalla fermezza”.
Quella di Crescenzio,
tuttavia, si dimostrò una vittoria momentanea, poiché appena dopo pochi
anni il testimone degli zelanti fu raccolto, con maggior vigore, dal nuovo gruppo degli spirituali,
anche essi paladini intransigenti del principio evangelico della povertà.
Questa volta la famiglia francescana si trovò divisa tra i
frati della comunità (nucleo
storico dei conventuali) e i frati spirituali, i cui massimi esponenti
marchigiani furono Angelo Clareno da Fossombrone e Pietro da Macerata.
Con l’intenzione di comporre la spaccatura interna, nel
1279 Papa Nicolo III emanò la bolla Exiit qui seminat nella quale veniva esplicitata una singolare
soluzione alla “questione pauperistica” consistente in un artificio giuridico:
la Santa Sede avrebbe avocato a sé tutte le proprietà dell’Ordine per poi
riaffidarle alle Fraternità nella forma dell’usufrutto.
In tale maniera, si sarebbe realizzata la separazione tra
il soggetto titolare della proprietà (la Chiesa) e il soggetto mero
utilizzatore dei beni (l’Ordine), garantendosi il formale rispetto della
volontà testamentaria di Francesco.
Il conflitto all’interno dell’Ordine fu tremendo: 5 Province (tra cui quella delle Marche)
invocarono e ottennero pesanti sanzioni contro i capi della fazione spirituale.
Angelo e Pietro furono privati della libertà, fino a quando
non ottennero dal Papa Celestino V l’autorizzazione a separarsi dall’Ordine per
creare la Fraternità dei Poveri Eremiti.
Ma la condizione di
autonomia organizzativa cessò molto presto a causa dell’ascesa al soglio
pontificio, nel 1294, di Bonifacio VIII il quale, come suo primo atto, dichiarò
nulle tutte le decisioni assunte dal suo predecessore.
Le frange più estremiste degli spirituali aderirono alle
dottrine di Gioacchino da Fiore, considerate eretiche dalla Curia romana. Da
quell’area di pensiero sorsero i Fraticelli di cui tratteremo nella seconda
parte.
La disputa sulla povertà sembra giungere ad una svolta nel
1316, anno nel quale vengono eletti, a distanza di pochi mesi, il nuovo Papa
Giovanni XXII e il nuovo Generale dell’Ordine Michele da Cesena.
Il Papa chiese al Generale di stroncare la corrente degli Spirituali. Di
fronte all’esitazione di Michele, Giovanni XXII avviò un periodo di
persecuzioni culminate in scomuniche e condanne a morte.
Nel 1322, mentre il Capitolo dei frati era riunito a Perugia, il Papa lanciò a Michele un ultimatum, sotto forma di
un quesito capzioso destinato a saggiare l’ortodossia dell’Ordine sulla questione
della povertà: Utrum asserire quod Christus et Apostoli non habuerunt aliquid
sive in proprio sive in communi sit hereticum ovvero “è eresia affermare
che Cristo e gli Apostoli non possedettero alcunché né in proprio né in comune?
La risposta del Capitolo fu chiara e univoca: Gesù e gli
Apostoli erano stati effettivamente e sicuramente poveri.
Il Papa, il quale aveva formulato il quesito in termini
ingannevoli pensando al ruolo di amministratore della “cassa comune” svolto da
Giuda Iscariota (Gv. 12,6), reagì con impeto alla risposta del Capitolo di
Perugia.
Con la bolla Cum inter nonnullos dichiarò eretica la
proposizione del Capitolo e convocò Michele alla Corte di Avignone affinché
rendesse conto della sua posizione.
Con mossa imprevedibile, Michele e i suoi più stretti
collaboratori respinsero l’ordine del Papa e cercarono protezione presso
l’Imperatore Ludovico il Barbaro, suo
acerrimo nemico.
Nel maggio del 1328 era stato proprio Ludovico - molto
interessato, per motivi di supremazia, alla disputa sulla povertà – a sostenere
l’elezione dell’antipapa Niccolò V, proveniente dalla corrente dei francescani
spirituali.
A questo punto Giovanni XXII non esitò a deporre Michele
dalla carica di Generale dell’Ordine e a scomunicarlo.
La nuova condizione di Michele – esplicitamente
contrastante con il voto di obbedienza verso la Chiesa che aveva sempre
caratterizzato l’insegnamento di Francesco – provocò il venir meno del consenso
di tanti sostenitori del movimento
spirituale, segnandone – di fatto – l’inesorabile declino.
Con il Capitolo del 1329 iniziò la fase della “normalizzazione”:
il conventuale Guiral Ot (Geraldo di Oddone) venne eletto nuovo Generale,
confermando totale obbedienza al sacro soglio. Nel frattempo l’imperatore
Ludovico, detestato dagli stessi ghibellini italiani, fece ritorno in Germania
e Niccolò V, rimasto privo di protezione, si sottomise all’autorità di Giovanni
XXII.
LA RIFORMA DELL’OSSERVANZA
Nelle Marche la sconfitta del movimento degli spirituali
non riuscì a soffocare l’anelito di quanti volevano abbracciare l’ideale dell’altissima
povertà.
Mentre nella Vallesina continuava a svilupparsi – in una
logica di deviazione dottrinale – la setta dei fraticelli, nell’altopiano di
Colfiorito, a Brogliano, prendeva vita la nuova esperienza dell’Osservanza.
Nel 1334 un piccolo gruppo di frati, guidato da Fra
Giovanni della Valle, seguace di Angelo Clareno, ottenne dai superiori
l’autorizzazione ad osservare la Regola in condizione eremitica.
La Curia Romana, che aveva guardato con sospetto al sorgere
di una nuova realtà di matrice radicale, ordinò ben presto la fine dell’esperienza.
Ma nel 1368 Frate Paoluccio Trinci da Foligno ebbe un nuovo
permesso per ritirarsi a Brogliano: da allora l’Osservanza conobbe una crescita
incessante.
Già nel 1415 il movimento accoglieva oltre 200 frati,
distribuiti in 34 comunità marchigiane, le più importanti delle quali
posizionate a Forano, Massa Fermana e Montefalcone Appennino.
Dopo il Concilio di Costanza (1418) i membri, ormai
presenti anche in altre regioni d’Italia e d’Europa, vennero ufficialmente
chiamati “frati minori della regolare osservanza”.
Tra i massimi esponenti dell’Osservanza, accanto a
Bernardino da Siena e Giovanni da Capestrano, si erge la figura di Giacomo
della Marca (Monteprandone 1393 – Napoli 1476).
Implacabile difensore dell’ortodossia contro le eresie dei Fraticelli
in Italia, dei Manichei in Bosnia, degli Ussiti e Patareni in Boemia, Austria e
Ungheria, Nunzio e Legato al servizio di sette Pontefici, ispiratore di Statuti
comunali, promotore dei Monti di Pietà contro la piaga dell’usura, apostolo
della devozione al SS. Nome di Gesù.
Alla “seconda generazione” dell’Osservanza appartennero i tre Beati, Domenico da
Leonessa, Pietro da Mogliano e Marco da
Montegallo.
Quest’ultimo (1425 - 1496) , incline all’impegno sociale a
favore dei poveri e compagno di Giacomo della Marca in molteplici missioni di
pacificazione civile, fu il teorico dei Monti di Pietà “unico humano refugio”
del popolo cristiano “stracciato e devorato” dagli usurai.
Con il trascorrere degli anni, i rapporti tra le due
componenti francescane dei Conventuali e degli Osservanti, finirono per
deteriorarsi in maniera irreversibile: con la bolla Ite et vos del 1517,
Papa Leone X sancì la divisione del primo Ordine nei due rami.
Ma neppure questa volta la drammatica sequenza delle
scissioni era destinata ad interrompersi.
Dal tronco della famiglia degli Osservanti, nasceranno la
famiglie dei Cappuccini (di cui parleremo nel paragrafo successivo), la
famiglia dei Frati Minori Riformati ( chiamati anche “della più stretta Osservanza”)
ufficialmente approvata da Clemente VII nel 1532 e la famiglia dei Recolletti
(1632).
Invece, in seno ai Conventuali, nasceranno, nel 1562, gli
Alcantarini (chiamati anche Scalzi o Pasqualiti).
HABITELLO STRETTO ET CAPUCCIO AGUZZO
Eremo dell’Acquarella
L’indomito anelito alla radicalità – di chiara matrice
spirituale – emerse con rinnovato vigore proprio dal grembo dell’Osservanza
marchigiana.
Nell’anno
giubilare 1525 un frate decide di fuggire dal convento di Montefalcone
Appennino e di dirigersi a Roma. Veste un “habitello stretto et
capuccio aguzzo”, cammina scalzo e porta una croce. Ė fra Matteo da Bascio
(l’odierna Pennabilli), e lascia il convento per vivere con rigore la
Regola di Francesco d’Assisi.
A Roma ottiene
da papa Clemente VII il permesso verbale, ma il Provinciale dell’Osservanza
Giovanni da Fano, nel corso di un drammatico Capitolo celebrato proprio a Jesi,
punisce l’atto di disobbedienza, facendo imprigionare il frate ribelle a
Forano.
Grazie
all’intervento della duchessa di Camerino Caterina Cybo - che aveva conosciuto
Matteo e i suoi primi compagni - il Papa riconobbe ufficialmente la riforma
cappuccina (1528).
L’anno
successivo, ad Albacina, presso l’eremo dell’Acquarella, oltre 500 frati di riunirono per il primo
Capitolo Generale dei cappuccini.
Non mancarono
le crisi interne : clamorosa fu quella
suscitata dal passaggio al protestantesimo di uno tra i più prestigiosi
esponenti, Bernardo Ochino, con la conseguenza di attirare su tutti i Cappuccini il sospetto di
eresia.
Si attribuì a
Papa Paolo III l’intenzione di sopprimere l’Ordine. Ma il superiore della
comunità, Francesco da Jesi, dopo un’ inchiesta, poté dimostrare che mai i
Cappuccini si erano discostati dalla fedeltà al Pontefice.
ANCHE GLI UOMINI AMMOGLIATI E LE DONNE MARITATE...
Dai Fioretti
apprendiamo che Francesco, recatosi a predicare a Savurniano (Cannara, secondo
altri codici), venne “assediato” dagli abitanti del luogo, desiderosi di
cambiare vita e di seguirlo senza indugio.
Il Santo si
vide costretto a contenere l’empito di conversione di quella gente:“Non
abbiate fretta ed io vi ordinerò quello che vo’ dobbiate fare per salute
dell’anime vostre. E allora pensò di fare il terzo ordine per universale salute
di tutti”.
Una
testimonianza ulteriore dell’influsso del carisma francescano sui laici è
riferita nella Leggenda dei Tre Compagni: “Anche gli uomini ammogliati e le
donne maritate, non potendo svincolarsi dai legami matrimoniali, dietro
suggerimento dei frati, praticavano una più stretta penitenza nelle loro case”.
Con la
“Lettera ai fedeli” (1215) Francesco assolve l’impegno preso e dona ai suoi
seguaci una traccia di altissima spiritualità.
Successivamente
la ineluttabile esigenza di una strutturazione anche organizzativa del nuovo
Ordine laico, spinge Francesco alla pubblicazione del Memoriale Propositi
(1221), scritto in collaborazione con il Cardinale Ugolino.
La cosiddetta Regula
antiqua contiene una serie di minuziose prescrizioni riguardanti aspetti
concreti della vita quotidiana dei penitenti: dal modo di vestire (“Gli
uomini indosseranno panno umile non colorato, che non superi il prezzo di sei
soldi ravennati. Le sorelle vestano mantello e tunica di stoffa della stessa
umiltà. Indossino un ampio copricapo di lino senza crespature, il cui prezzo
non superi dodici denari pisani”), ai digiuni, alla frequenza della
preghiera (“Tutti dicano ogni giorno le sette ore canoniche, cioè
mattutino, prima, terza, sesta, nona, vespri e completorio”), alla
sepoltura dei defunti.
La ricostruzione della storia del Terz’Ordine delle Marche
è impresa avvincente, ma molto spesso disperata, stante l’esiguità delle fonti
documentali, riferite ai primi secoli di vita del movimento.
Le caratteristiche organizzative dell’Ordine e, in special
modo, l’assenza di insediamenti stabili, non hanno favorito la conservazione
degli atti.
Per attingere ad informazioni attendibili, unica
possibilità è rappresentata dalla consultazione di fonti notarili o di
documenti pontifici.
La più antica attestazione della presenza terziaria è
costituita da un lascito testamentario a favore dei Frati Minori di Ascoli Piceno deciso, nel 1237, da una penitente
francescana di nome Beldea.
Sempre ad Ascoli, la comunità dei penitenti è destinataria,
nel 1255, di una lettera di Alessandro IV con la quale viene riconosciuta
l’esenzione dalle pubbliche cariche.
Ma è, soprattutto, nel nord del Marche che rifulsero, tra i
primi terziari, numerosi esempi di santità con il Beato Giovanni Pelingotto da
Urbino (+ 1304) ed i pesaresi Beato Cecco Zanferdini (+ 1350) e Beata Michelina
Metelli (+1356).
UNA CONSIDERAZIONE CONCLUSIVA
Al termine di questo capitolo dedicato alle vicissitudini
del movimento francescano vorremmo condividere con il lettore una semplice
considerazione: abbiamo potuto constatare come nell'arco di trecento anni, la
storia dei seguaci di Francesco sia stata segnata da frequenti scissioni
(zelanti, lassisti, frati della comunità, spirituali, conventuali, osservanti,
cappuccini ...) con conseguenze alquanto dolorose per i singoli protagonisti e
per le fraternità coinvolte.
La fedeltà al Testamento di Francesco e l'obbedienza alla
Madre Chiesa hanno rappresentato i criteri discriminanti rispetto ai quali si
sono manifestate, di volta in volta, situazioni di dissidio interne all’Ordine.
Ci sia consentito, per un attimo, di inoltrarci, in un
suggestivo sentiero interpretativo in compagnia di Hans Urs von Balthasar: il
teologo svizzero descrive la vita della Chiesa (ma lo stesso ragionamento vale
anche per una famiglia religiosa) come una dinamica tra diversi principi o
profili, che perpetuano e rendono vive le esperienze idealtipiche di alcune
persone che hanno vissuto a fianco di Gesù (o, in questo caso, di Francesco).
In particolare, i due principi fondativi sono denominati
“petrino” e “mariano”: il principio petrino sottolinea soprattutto la
componente istituzionale, gerarchica, giuridica e oggettiva della vita della
Chiesa, mentre quello mariano esprime la natura carismatica, popolare,
orizzontale e fraterna.
I due principi, che nelle ultime sue opere Balthasar chiama
“istituzionale” e “carismatico”, sono per lui complementari, non in conflitto
tra di loro, ma piuttosto in rapporto dinamico e dialogico.
La storia della Chiesa (ma anche quella dell’Ordine
francescano) può essere raccontata come lo sviluppo e l’intreccio di queste due
dimensioni coessenziali della Chiesa: storia di istituzioni e storia di
carismi.
Paradossalmente, crediamo che i fenomeni di dissidenza
possano costituire la prova della straordinaria vitalità del carisma
francescano: un pensiero veramente "vivo", pur tra le contraddizioni
e le discordie, produce e diffonde energia attraverso i secoli, mentre una
ideologia asfittica è destinata ad un inesorabile declino.
Questa tesi trova puntuale conferma anche in avvenimenti a
noi più vicini.
Con la bolla
“Felicitate quadam” del 1897, Papa Leone XIII dispose l’abolizione delle
antiche denominazioni di Osservanti, Riformati, Discalciati o Alcantarini e
Recolletti e l’aggregazione nell’unica famiglia dei Frati Minori “simpliciter
dicti (in siglia O.F.M.), sotto la guida di un solo Ministro generale.
La riforma
leonina incontrò, tra i frati delle diverse appartenenze, tenaci resistenze di stampo conservatore,
tant’è che nel 1940 si rese necessario un ulteriore provvedimento confirmatorio
da parte del Papa Pio XII.
Da allora e
sino ai giorni nostri, il Primo Ordine Francescano è articolato nelle tre
famiglie dei Minori Conventuali (O.F.M. Conv.), Minori Cappuccini (O.F.M. Cap.)
e, appunto, Minori "simpliciter dicti" (O.F.M.).
Ma forse
neppure questo assetto può considerarsi definitivo: nuove esperienze, come, ad
esempio, quella dei Frati Minori Rinnovati (Istituto diocesano sorto nel 1972
dal "ramo" dei cappuccini) continuano a nascere e diffondersi anche
ai giorni nostri, sempre con l'obiettivo di far rivivere lo straordinario
carisma delle origini..
PARTE
SECONDA
LA
CITTA' DI FEDERICO
(MA ANCHE
DI FRANCESCO)
“E
TU BETLEMME, CITTA’ DELLA MARCA, NON SEI LA PIU’ PICCOLA TRA LE GRANDI CITTA’
DELLA NOSTRA STIRPE”
La fama riconosciuta, nel corso dei secoli,
alla città di Jesi è dovuta, in larga misura, ad un evento di natura
probabilmente casuale verificatosi il 26 dicembre dell'anno 1194. In quel
giorno, sotto una tenda collocata nella piazza principale, vide la luce
Federico II Hohenstaufen, figlio dell’Imperatore Enrico VI e di Costanza di
Altavilla, destinato ad essere
protagonista della storia europea per oltre mezzo secolo.
Non sappiamo se la città della nascita sia
stata scelta in base ad una valutazione logistica preventiva (in effetti Enrico
VI aveva avuto occasione di trattenersi a Jesi alcuni anni prima) ovvero per la
necessità determinata dall’insorgere delle doglie del parto, durante il viaggio
di trasferimento verso la Sicilia.
Secondo l'analisi del contesto ambientale
formulata da Sturner, all'epoca, “la città stentava, conducendo un'esistenza
modesta, favorita sì dalla posizione nella valle dell'Esino, importante
collegamento del traffico tra l'entroterra e la costa, ma ostacolata
dall'assenza di un proprio sbocco sul mare e dalla conseguente dipendenza dalle
città portuali, in particolare dalla troppo potente Ancona”.
Dopo il glorioso
periodo benedettino (attorno al Mille si contavano, nella Vallesina, non meno
di 26 insediamenti), stava costituendosi la “Respublica Aesina”, epilogo di
processi storici convergenti: da un lato l’affrancamento dei fondi rustici e
urbani dal dominio religioso, dall’altro la fondazione e l’aggregazione delle confraternite delle arti e dei mestieri
artigiani.
In una fase di delicata
transizione verso nuovi equilibri socio-economici, nel 1220 Papa Onorio III si
vide costretto ad inviare nella Marca di Ancona un suo delegato, per richiamare
le popolazioni ai doveri di sudditanza. Lo stesso pontefice il 5 luglio 1222
indirizzò una bolla all’Abate di San Savino, affinché gli Jesini gli
prestassero obbedienza incondizionata.
Ma proprio Federico II,
in lotta contro il Papato e desideroso di fomentare la ribellione, in una
celebre lettera del 1239 si rivolse agli jesini con parole di commossa
tenerezza:
“Se il luogo nativo
è oggetto di spontaneo amore ed affetto indifferentemente da tutti gli uomini;
se l'amore della Patria natale spinge tutti con la sua dolcezza, né permette
che ci si dimentichi di essa, Noi, per la stessa ragione, e secondo natura,
siamo portati ed avvinti ad amare Jesi, nobile città della Marca, insigne
principio della nostra vita, terra ove l'illustre nostra madre ci ha dato luce,
ove la nostra culla risplendette, con che questa città, la nostra Betlemme,
terra di Cesare e nostra origine, è incisa nella nostra mente e profondamente
radicata nel nostro cuore. E tu Betlemme, città della Marca, non sei la più
piccola tra le grandi città della nostra stirpe. Da te infatti è uscito il
condottiero, il principe dell'Impero
romano chiamato a reggere e proteggere il tuo popolo e questi non permetterà
che tu debba ancora essere sottoposta ad un governo nemico. Sorgi, dunque,
prima genitrice e scuoti l'angusta oppressione del nostro oltraggiatore.
Pertanto, commiserando il giogo al quale siete sottoposti, abbiamo deciso di
liberare voi e gli altri nostri fedeli sia delle Marche che del Ducato di
Spoleto. E poi che questi (il Papa), per sua evidente ingratitudine, si
è dimenticato di noi e dell'Impero stesso -
vi sciogliamo dal giuramento che avete prestato alla Chiesa (…)”.
Se, per
ipotesi,volessimo ricercare l'atto costitutivo ufficiale di quel
sentimento filo-ghibellino impresso da secoli nel carattere della gente jesina, credo che non potremmo prescindere da
questa lettera di Federico II, cui non fa certamente difetto la chiarezza delle
finalità antipapali.
A più riprese gli
storici si sono domandati se Federico e
Francesco, pressoché coetanei, si fossero mai incontrati.
Nessuna fonte documentale
dà conto di un tale evento, che probabilmente rientra in un alone di leggenda.
Nella sua Cronologia
della vita di San Francesco, il vescovo Arduino Terzi (vissuto, si badi
bene, nel ‘900), riferisce un episodio che si sarebbe verificato attorno al
1220 nel castello svevo di Bari.
Federico II,
26enne, all’apice della potenza per aver
appena ricevuto la corona del Sacro Romano Impero, volle mettere alla prova le
virtù del 38enne Francesco, che proprio in quel periodo stava predicando nel
Regno di Sicilia.
Al termine di
una cena organizzata in suo onore, l’Imperatore fece preparare per il frate un
comodo letto con un focolare acceso.
Mentre il
Poverello, come sua consuetudine, si accingeva a riposare sulla nuda terra, una
donna bellissima entrò nella sua camera
invitandolo a coricarsi al suo fianco.
Il frate,
imperterrito, raccolse dal fuoco alcuni carboni ardenti e li distese al centro
della stanza, proponendo alla donna di stendersi lì sopra, accanto a lui.
Allora
l’imperatore, che seguiva la scena di nascosto,
fece ingresso nella camera e con ammirato stupore si rivolse a
Francesco: “Alzati, Dio è con te e vera è la parola detta dalla tua bocca”.
La scarsa
attendibilità del racconto è provata dalla perfetta somiglianza con un episodio
riportato nel cap. XXIV dei Fioretti, questa volta con protagonista il Sultano
di Egitto al posto di Federico II.
Eppure, quasi
a testimoniare il desiderio di un incontro con l’Imperatore, appare rilevante
un passo della Leggenda Perugina (riportato anche nello Specchio di Perfezione, 1814 FF), nel quale Francesco si rivolge
idealmente a Federico II:
“Se avrò occasione di parlare con l’imperatore, lo supplicherò che per
amore di Dio e per istanza mia emani un editto, al fine che nessuno catturi le
sorelle allodole o facci a loro del danno. E inoltre, che tutti i podestà delle
città e i signori dei castelli e dei villaggi siano tenuti ogni anno, il giorno
della Natività del Signore, a incitare la gente che getti frumento e altre
granaglie sulle strade, fuori delle città e dei paesi, in modo che in un giorno
tanto solenne gli uccelli, soprattutto le allodole, abbiano di che mangiare.
Dia inoltre ordine l’imperatore, per riverenza al figlio di Dio, posto a
giacere quella notte dalla beata vergine Maria nella mangiatoia tra il bove e
l’asino, che a Natale si dia da mangiare in abbondanza ai fratelli buoi e
asinelli. E ancora in quella festività, i poveri vengano ben provvisti di cibo
dai benestanti”(1669 FF).
Accertata –
almeno allo stato attuale delle conoscenze storiche – la mancanza di prove su
un incontro tra Francesco e Federico, non possiamo, tuttavia, sottacere
l’esistenza di una sorta di presunzione di verosimiglianza, tramandata, nel corso dei secoli, dalla
tradizione popolare.
Il mondo
dell’arte non ha mai cessato di alimentare tale suggestione, addirittura sino
ai nostri giorni.
Nel film di
Paolo Bianchini “Il giorno, la notte. Poi
l’alba” (2006) si narra dell’incontro in Puglia tra Francesco, reduce dalla
Crociata e Federico II, assillato dalle
pressioni di Papa Onorio per
l’organizzazione di una nuova spedizione a Gerusalemme, sotto minaccia di
scomunica.
Entrambi i
personaggi condividono sentimenti di avversione per la “guerra santa”.
Entrambi si
pongono alla ricerca dell’armonia: intesa in senso mistico e religioso da
Francesco ed in senso politico e artistico da Federico.
Entrambi
diventano simboli di tolleranza e integrazione.
sigillo di Federico II di Svevia
Di ben altra
consistenza è, invece, il patrimonio documentale riguardante
le relazioni tra l’Imperatore ed il movimento francescano.
Si tratta di
rapporti complessi e altalenanti, caratterizzati da fasi di sintonia ideologica
cui fanno seguito periodi di virulenta ostilità.
E’ certamente
paradossale che Federico II - scomunicato dalla Chiesa per ben tre volte (nel
1227 e nel 1239 da Gregorio IX e nel 1245 da Innocenzo IV) – si trasformasse in
paladino della “questione pauperistica”, assurgendo al ruolo di strenuo
difensore della radicalità evangelica:
“E’ un’opera di carità togliere agli uomini
di Chiesa le ricchezze di cui si circondano per la dannazione eterna delle loro
anime. Seguiteci e insieme faremo in modo che essi, perdendo i beni superflui,
possano servire il Signore contentandosi del necessario”.
E ancora più
esplicitamente, in una lettera rivolta al sovrano greco di Nicea:
“Non vedi i cardinali, gli alti prelati
portare armi di cavalieri e armature da guerra? Perché uno si chiama conte,
l’altro duca, l’altro mangravio e governano delle provincie? Che ancora? Eccone
uno che comanda un corpo d’esercito, eccone un altro che guida un’armata. Che
dunque? Essi fanno la guerra, hanno corazze, armi e bandiere. Non sono dunque
dei sacerdoti, ma dei lupi famelici”.
Parole di
sostanziale sintonia con il pensiero del francescano S. Antonio da Padova, il
quale non aveva esitato a sferzare il comportamento di sacerdoti avidi e
viziosi: “Della religione hanno fatto culto del demonio, del deserto palazzi,
dei chiostri castelli, della solitudine corte regale”.
La sincerità
dei sentimenti dell'Imperatore in tema di fede,
fu posta in dubbio da più parti, per un sospetto mai smentito di
strumentalità politica in funzione antipapale. A tale proposito, il francescano
Salimbene de Adam insinuò che non era stato lo zelo religioso a spingere
Federico II ad invocare la povertà della Chiesa, quanto piuttosto la sua
cupidigia e l’avidità di potere.
D'altra parte,
non meno drastica era stata la posizione di Papa Gregorio IX nei confronti
dell'Imperatore, addirittura paragonato alla bestia dell'Apocalisse di San
Giovanni:
“Una bestia
furiosa è uscita dal mare, piena di parole bestemmiatrici; i piedi sono quelli
di un orso, i denti quelli di un leone; assomiglia ad un leopardo ed apre le
fauci solo per oltraggiare il nome di Dio.
Non teme
neppure di scagliare insulti contro il tabernacolo divino e contro i santi che
abitano nei cieli. Con gli artigli ed i denti d'acciaio vuole fare a pezzi il
mondo e stritolarlo sotto i piedi. Per demolire la muraglia della fede
cattolica, da molto tempo ha preparato gli arieti...
Smettete di
meravigliarvi se alza contro di noi il pugnale dei suoi oltraggi, colui che già
si erge per cancellare dalla terra il nome del Signore. Invece, per resistere
alle sue menzogne con la verità manifesta e confutare i suoi inganni con la
prova della parola, osservate la testa, il corpo e la coda di questa bestia, di
questo Federico, di questo presunto imperatore.”
Data la
situazione dei rapporti, appare francamente sconcertante che proprio uno dei
massimi collaboratori di San Francesco diventasse un importante consigliere di
Federico II.
Stiamo
parlando di frate Elia da Cortona (1180 ca – 1253) , ovverosia di colui che lo
stesso Francesco “aveva scelto come madre per sé e costituito padre degli
altri frati”(1 Cel 98; FF 491).
Dotato di
straordinarie capacità organizzative e diplomatiche, Frate Elia divenne - per
diretta designazione del fondatore - prima Vicario e poi Ministro Generale
dell'Ordine. In tale veste fu promotore del controverso progetto per l'erezione
dell'imponente Basilica di San Francesco in Assisi, ritenuto da molti
palesemente contrario alla testimonianza di vita del Santo della povertà.
Proprio a tale
epoca risale lo scontro intestino tra l'ala oltranzista degli zelanti e
quella moderata dei lassisti, di cui abbiamo ampiamente trattato nella
prima parte della ricerca.
E sempre in
quel periodo (anno 1236) l'Imperatore scrisse una lettera a Frate Elia in
occasione della traslazione a Marburgo del corpo della sua parente terziaria
francescana, la beata Elisabetta Regina d'Ungheria.
Nella missiva,
Federico II impetrava le preghiere dei
francescani ed esprimeva apprezzamenti ed elogi per l'Ordine ed il suo
Generale.
Deposto dalla
carica di Ministro nel 1239 (probabilmente anche a motivo della sua vicinanza
ideologica alle posizioni
dell'Imperatore, scomunicato per la seconda volta proprio in quell'anno) ,
Frate Elia decise di abbracciare
l'ideale ghibellino, accettando incarichi diplomatici direttamente da Federico
II.
Per tale
ruolo, esercitato al servizio di uno scomunicato, Frate Elia subì l'identica
condanna ecclesiastica, comminata – si
noti bene - da quel Papa Gregorio IX
che, ancora Cardinale, lo aveva sostenuto ed incoraggiato nel delicato compito di governo dell'Ordine
francescano.
Dinnanzi al
movimento francescano, l'Imperatore prese le difese di Frate Elia, accusando apertamente il Papa di
aver tradito la volontà di San
Francesco.
Ma l'Ordine
rimase fedele alla Sede Apostolica, impegnandosi con determinazione in una
capillare propaganda contro l'Imperatore.
In questo
contesto si inserisce l'attività che, in termini moderni, potremmo definire di disinformazione
organizzata da frate Salimbene de Adam il quale propalò l’infamante
diceria secondo la quale Federico non era, in verità, figlio di Enrico VI e di
Costanza d’Altavilla (all’epoca del parto molto attempata), bensì di un
macellaio jesino.
Tale diceria
ebbe notevole risonanza tanto che, lo stesso suocero di Federico, Giovanni
Brienne, giunse ad insultare il sovrano apostrofandolo con l’epiteto di “Fi de
becer”.
Al di là del
leggendario episodio dell’incontro di Bari, gli storici hanno riconosciuto in
Francesco e Federico, pur nella differente concezione della vita, il tratto
comune della modernità.
Il francese
Emile Gebhart, nella sua opera Italie mystique (1906) considera entrambi i
personaggi, ciascuno nella sua sfera, come “liberatori” dell’Italia
rispetto agli schemi e alle tradizioni medievali.
Federico II,
Stupor Mundi, segnò il suo tempo per una straordinaria capacità di innovazione
nel diritto, nella cultura e nelle scienze.
Grazie a
Francesco: “la libertà di spirito, l’amore, la pietà, la serenità gioiosa,
la familiarità, costituiranno per lungo tempo la peculiarità del cristianesimo
italiano, in controtendenza rispetto alla
fede farisaica dei bizantini, al fanatismo degli spagnoli, al dogmatismo
scolastico della Germania e della Francia. Niente di ciò che, ovunque, ha
ottenebrato o inceppato le coscienze, né la metafisica sottile, né la teologia
raffinata, né le inquietudini della casistica, né l’eccesso di disciplina e di
penitenza, né lo scrupolo estremo della devozione, più peserà sugli italiani”.
ANNO
DOMINI 1215: FRANCESCO A JESI?
Jesi, Chiesa di San Marco
La presenza
dei seguaci di Francesco a Jesi risale addirittura alle origini del movimento.
Secondo
un’antica tradizione, riferita da Tomaso Baldassini, il Santo d’Assisi passò
nella città attorno al 1215, proveniente dall’Abbazia di Chiaravalle.
Fu in
quell’occasione che la comunità locale dei Benedettini decise di fargli dono
del romitorio dedicato a San Marco.
Per
focalizzare, su fonte documentale, la storia del francescanesimo locale ,
dobbiamo, invece, riferirci alla Cronaca di Salimbene de Adam da Parma il quale
fornisce testimonianza diretta di un suo soggiorno a Jesi nel 1239 presso un romitorio di ubicazione non
precisata.
La successiva
fonte documentale, questa volta dell’anno 1244, è contenuta in una esortazione
del Papa Innocenzo IV al Vescovo di Jesi affinché consentisse l’insediamento
della comunità francescana a San Marco, “presso le mura della città, a distanza
del lancio di una pietra (“apud moenia civitatis ad intervallum unius iactus
lapidis”).
Ottenuta
l’autorizzazione, i francescani provvidero a costruire una chiesa attigua al
convento; sulla fine del XIII secolo, al posto del primitivo edificio di culto,
sorse il più importante tempio della Vallesina, la monumentale chiesa di San
Marco, affrescata poi dai pittori di Scuola Giottesca Riminese ed
ininterrottamente officiata, sino al
XVII secolo, dai frati Conventuali.
Jesi divenne
sede di una Custodia francescana comprendente ben dodici insediamenti collocati
in una vasta area tra i fiumi Cesano e Musone.
Paolino da
Venezia nel suo Provinciale Ordinis Fratrum Minorum li elenca
puntigliosamente: Jesi, Fabriano, Sassoferrato, Rocca Contrada (l’odierna
Arcevia), Serra de’ Conti, Montenovo (Ostra Vetere), Senigallia, Montalboddo
(Ostra), Serra San Quirico, Staffolo, Apiro e Matelica.
Verrebbe da
chiedersi, quale sia stato il criterio per la scelta dei luoghi di
insediamento: secondo un interessante studio di Luigi Pellegrini, i francescani furono inevitabilmente spinti
verso i centri urbani in quanto “costretti dallo stato di povertà mendicante
a dipendere economicamente dagli altri, per la rinuncia a fonti proprie e
autonome di sussistenza e di difesa”.
Solo nei centri
socialmente più vivaci potevano confluire diverse comunità di religiosi
impegnati nell’azione pastorale e nelle più disparate attività sociali; e
soltanto i nuclei urbani economicamente più solidi erano in grado di sostenere
il peso del mantenimento delle comunità mendicanti che, non avendo rendite
proprie, gravavano sulle risorse della cittadinanza. “Esisteva, infatti, un
accordo (e non sempre tacito, anzi a volte registrato nero su bianco) tra la
comunità mendicante e la comunità civica in base al quale i frati avrebbero
attivato la loro presenza nelle varie forme di servizio pastorale, di
intervento politico nei momenti di particolare tensione e difficoltà, di
consulenza tecnica per la realizzazione delle infrastrutture urbane, di
assunzione di incarichi di pubblica fiducia; in cambio la città garantiva ai frati l’abitazione e le
sussistenze”.
La prova dei
rapporti tra istituzioni pubbliche e conventi francescani si può evincere dalla
curiosa documentazione attestante l’acquisto di tonache con oneri a carico
delle autorità comunali; in particolare per Staffolo, Matelica e Apiro sono
state rinvenute specifiche quietanze, rilasciate dai frati, nelle quali si
dichiara l’introito di sovvenzioni pubbliche da destinare al rinnovo di tonacis
et vestiariis.
L’influenza
del movimento francescano all’interno della diocesi di Jesi fu immediata e
straordinaria: nell’arco di venti anni, tra il 1246 e il 1266, sulla cattedra
di S. Settimio si succedettero tre Vescovi, tutti appartenenti all’Ordine:
Gualtiero (dal 1246 al 1252), Crescenzio da Jesi (dal 1252 al 1264) e
Bonagiunta da Fabriano (dal 1264 al 1266).
Di Gualtiero,
sappiamo che venne eletto da Papa Innocenzo IV in contrapposizione ad un certo
Hermannus (o Arimannus), nominato dai canonici della Cattedrale.
Per
normalizzare la situazione di contrasto, il Pontefice si vide costretto ad
incaricare i Vescovi di Arezzo e di Fermo affinché venisse annullata la
designazione effettuata dai canonici.
L’episodio è
sintomatico di un generalizzato sentimento di ostilità nutrito dal clero
secolare nei confronti del nuovo Ordine: non raramente venne vietata ai
francescani la possibilità di predicare nelle chiese rette dai canonici.
Crescenzio
Grizi, che abbiamo già conosciuto nei ruoli di Provinciale e poi di Generale dell’Ordine,
fu eletto Vescovo di Jesi nel 1252 e guidò la diocesi fino al 1264:“Dopo che
ebbe governato l’Ordine per qualche tempo con fedeltà e prudenza, frate
Crescenzo chiese di essere dimesso dall’Ufficio; in seguito fu nominato Vescovo
della sua città natale” (FF 2513).
La funzione
episcopale di Crescenzio si svolse in un periodo alquanto tormentato della
storia di Jesi.
Dopo la morte
di Federico II (1250), la fazione guelfa aveva ripreso il sopravvento su quella
ghibellina; il figlio Manfredi, tuttavia, aveva organizzato un piano di
riconquista culminato nel 1258 con l’ingresso vittorioso nella Marca di Ancona.
Alla diffida
del Papa Alessandro IV affinché la città rimanesse fedele alla Chiesa, gli
Jesini non risposero, preferendo subire l’interdetto. La città fu, dunque,
privata del Vescovo e Crescenzio ottenne la facoltà di trasferirsi altrove pur
mantenendo la dignità episcopale.
Appena quattro
anni dopo si registrò un nuovo rovesciamento politico. Manfredi fu sconfitto
dalle truppe del nuovo Papa Urbano IV e Jesi tornò guelfa.
Alla morte di
Crescenzio, assumeva la guida della diocesi il Vescovo Bonagiunta, della cui
azione pastorale sappiamo ben poco.
E’ noto,
tuttavia, che Bonagiunta ricevette dal Papa Clemente IV l’ordine di annullare i
decreti emanati nelle diocesi di Jesi e Senigallia con cui venivano negati i
sacramenti e si proibiva il suono delle campane a coloro che avessero scelto di
essere sepolti nelle chiese francescane.
Ulteriore
prova dei difficili rapporti tra clero diocesano e frati!
Potremmo dire
che risale alla “prima ora” anche la presenza a Jesi del ramo francescano
femminile, addirittura in periodo antecedente
la morte della fondatrice Santa Chiara (1253).
In un
documento datato 21 aprile 1248, il Papa Innocenzo IV autorizza la comunità
delle clarisse di Jesi ad avere in proprietà dei beni.
Sappiamo che
il primo insediamento delle monache era situato poco distante dall’abbazia
benedettina di Santa Maria del Piano, in un convento attiguo all’antichissima
chiesa di San Procolo (X sec), di cui non si ha più traccia.
NEL
NOME DI GESU’
La presenza di
Giacomo della Marca è attestata a Jesi in momenti diversi, il primo dei quali
risalente al 1419, allorquando il noto predicatore fu chiamato ad infervorare i
cuori dei fedeli contro la dilagante
corruzione dei costumi.
L’occasione fu
propizia per l’istituzione, nella Chiesa di San Floriano, della Confraternita
del Buon Gesù, il cui simbolo fu il famoso monogramma (ovveroYh<esu>s ,
iscritto in un sole con dodici raggi).
La devozione
al Santo Nome di Gesù, fondata su radici bibliche e patristiche, fu promossa in
tutta Europa dal fondatore dell’Osservanza Bernardino da Siena, il quale
peraltro, subì un’iniziale accusa di idolatria; per tale ragione dovette
difendersi di fronte al Papa Martino V dagli attacchi degli agostiniani e dei
domenicani.
La disputa si
risolse con un onorevole “compromesso” consistente nell’apposizione di alcune
modeste modifiche al simbolo grafico originario (l’aggiunta della croce e
l’intersezione di un trattino verticale nella parte superiore della lettera H).
Il periodo
della massima diffusione del culto del Santo Nome corrisponde con una
straordinaria proliferazione di miracoli ad opera dei frati dell’Osservanza: a
tale proposito Giacomo scriverà un libello intitolato “Miracoli fatti per virtù
del sacro nome di Gesù”, nel quale si dà conto di ben 102 eventi
soprannaturali.
Il biografo
Venanzio da Fabriano, così descrive l’importanza del culto del Santo Nome nella
missione di Giacomo della Marca:
“Questi
sono alquanti miracoli che Idio mostrò per lo beato Iacobo della Marcha in vita
sua. Et luy li scrivea et appropriavali alla virtù e gratia del nome di Yesu.
Sicchè quando luy predicava de nomine Yesu et allegava alcuni di questi
miracoli dicendo:<questi miracoli li ho visti yo con gly occhi mei de nomine
Yesu>. Et yo frate Venanzo che fui
indegnamente suo compagno, so del certo che più di XL anni innanzi che ‘l beato
Iacobo morisse, Idio beneditto de continuo, dove el beato Iacomo andava,
mostrava molti miracoli per lui et io in più parte li ho veduti et trovati, quali
sono innumerabili”.
Troveremo
dipinto il monogramma YHS (iniziali maiuscole delle lettere greche iota, eta e
sigma) al vertice della celebre Pala
della Deposizione realizzata nel 1512 da Lorenzo Lotto proprio su
commissione della Confraternita del Buon Gesù.
La
realizzazione dell’opera d’arte è legata
ad una curiosa vicenda contrattuale: inizialmente la Confraternità aveva
commissionato la Deposizione a Luca Signorelli, pattuendo esplicitamente con il
pittore l’obbligo di svolgere il lavoro a Jesi
(ovverosia sotto il diretto controllo dei committenti).
Tale clausola
aveva lo scopo di impedire che l’opera venisse realizzata da mano diversa
rispetto a quella del maestro designato!
Il Signorelli,
chiamato successivamente in Vaticano per decorare alcune stanze pontificie,
preferì rinunciare all’incarico della Confraternità, in quanto evidentemente
meno prestigioso.
Quella di
Lorenzo Lotto fu, dunque, per la Confraternita, una scelta, per così dire, di
“ripiego”, favorita probabilmente da una segnalazione dell’umanista jesino
Angelo Colocci, all’epoca Segretario Apostolico presso la Curia Romana ed
estimatore delle doti artistiche del pittore veneziano.
La Pala -
straordinario capolavoro oggi esposta
nella Pinacoteca Civica di Palazzo Pianetti -
rende chiara testimonianza del grande ruolo acquisito dalla
Confraternita di ispirazione francescana, la cui azione si indirizzò anche sul
versante dell’assistenza sanitaria fino alla soppressione decretata nel 1781,
dopo oltre tre secoli e mezzo di attività.
UN
CALICE AVVELENATO PER FRATE GIACOMO
“Dum enim
sanctissimus noster papa Nicolaus V, 1449, de mense novembris, miserat
venerabilem patrem fratrem Ioannem de Capistrano et me fratrem Iacobum de Marchia,
ordinis minorum, ad reducendum illa castra haeretica Maioreti, Massatii, Podii
et Meruli – quae reducta sunt ad gremium fidei et abiurata sunt in manibus
nostris…” (Dialogus contra fraticellos, n.111)
Dunque, nel
1449, Jacobus de Marchia, ovvero S. Giacomo della Marca, si trovava a Jesi
insieme a Giovanni da Capestrano. Quell’anno segna la vittoria finale sulla
setta eretica dei “fraticelli”, diffusa nella Vallesina, con insediamenti
particolarmente consistenti a Maiolati, Poggio Cupro, Mergo e Massaccio
(l’odierna Cupramontana).
L’opera di
“normalizzazione” – culminata con la condanna al rogo di circa una decina di
fraticelli – era iniziata 25 anni prima. Per combattere la setta, Giacomo aveva
incardinato un gruppo di francescani nel monastero camaldolese della Romita,
con lo scopo di presidiare la zona.
Ma chi erano e
cosa volevano i tanto temuti fraticelli?
Chiamati anche
Michelisti (dal nome di Michele da Cesena che abbiamo già conosciuto come
superiore generale dell’Ordine, poi scomunicato e proscritto) in nome della
Povertà, avevano assunto atteggiamenti di aperta ribellione contro la Chiesa,
ormai considerata retta da Papi illegittimi, a partire da Giovanni XXII (morto
nel 1334) accusato di simonia.
E’ lo stesso
Giacomo della Marca che nel celebre “Dialogo contro i fraticelli”, immaginando
uno scontro dialettico tra un cattolico e un fraticello, fa dire a
quest’ultimo: “Noi vedemo che li primi fundatori de la fede cristiana
fondarno la sancta chiesa in omne sanctita insegnando et ammaestrando cum
parole et cum facti, como se devesse desiderare et abracciare le cose
celestiale et rinunciare et desprecare le cose terrene. Et non adunando et
multiplicaro tanti campi, tante possessione et ricchece, ne le quale et per le
quale la mente humana se suffoca et perisce, si como fanno oggedi li prelati
ecclesiastici. Noi honoramo Cristo et li suoi apostoli dicendo et tenendo che
loro non havero alcuna cosa, ma como homini celestiali cercavano solo le cose
celestiale et non le cose terrene como homini terreni” (nn. 64 e
82).
Tali posizioni
di radicale fedeltà al Vangelo, secondo la storiografia di tendenza
ecclesiastica non vennero suffragate da comportamenti coerenti.
A
Cupramontana, in via Bovio, sono tuttora riconoscibili i resti di un
antichissimo edificio (probabilmente un serbatoio dell’acquedotto di epoca
romana) tradizionalmente chiamato “barlozzo”; secondo la leggenda tale edificio
era luogo di notturno convito dei fraticelli per celebrare cerimonie
orgiastiche.
Giacomo
accredita, in capo agli eretici, la nomea di empietà: “Io frate Giacomo,
dell’Ordine dei Frati Minori, grido a tutto il mondo e testifico di fronte a
Dio che tutti questi fraticelli contro i quali io e frate Giovanni da
Capestrano fummo inquisitori, li abbiamo riscontrati che sono scellerati,
fornicatori, sodomiti e abili ingannatori di donne, sebbene alla faccia delle
persone appariscano uomini santi e celestiali”.
Proprio a
Cupramontana, i fraticelli tentarono di assassinare S. Giacomo propinandogli
del vino avvelenato durante la Messa: al momento della Consacrazione, tuttavia,
la testa di un serpente si disegnò sul fondo del calice.
Il francescano
provvidenzialmente si avvide del pericolo ed ebbe salva la vita.
Uguale sorte
non era toccata, venti anni prima, ad Angelo da Massaccio, altro implacabile
difensore dell’ortodossia, il quale morì martire per mano dei fraticelli l’8
maggio del 1429.
Di rilevante
interesse è lo stralcio di un verbale relativo ad un processo tenutosi a Roma
nel 1466 contro alcuni eretici (fonte: codice vaticano latino 4012): tra i
fraticelli sottoposti ad inquisizione all’interno di Castel S. Angelo (per lo
più mediante utilizzazione di sistemi di tortura) spicca la figura di Niccolò
da Massaccio, assurto ai vertici della gerarchia della setta con il titolo di
Vescovo.
Sono ben 17 i
capi di imputazione che i Commissari dell’Inquisizione (Stefano, Arcivescovo di
Milano, Roderigo, Vescovo di Zamora, Niccolò, Vescovo di Lesina e frate Giacomo
di Egidio, maestro di Sacro Palazzo) contestano al Vescovo dei fraticelli.
In
particolare, vengono chieste spiegazioni in merito all’empio rito del
“barilotto” ed alla cerimonia cosiddetta delle “polveri”.
Niccolò da
Massaccio conferma il carattere orgiastico della pratica del barilotto: dopo la
celebrazione della Messa eretica, spente le luci e pronunciate le parole
“Alleluia, alleluia”, ogni fraticello si congiungeva carnalmente con una donna,
ritenendo di compiere atto supremo di carità.
Quanto alle
“polveri”, pare che tale rito assumesse i connotati dell’infanticidio: “I
fraticelli, riuniti in una chiesa, sinagoga o luogo, talvolta accendevano un
grande fuoco, ponendosi intorno a circolo, e prendevano un bambino nato tra
loro e concepito nei detti adulteri; intorno a quel fuoco si passavano il
bambino di mano in mano l’un l’altro fino a che questo rimaneva morto ed
essiccato, e quindi ne facevano polvere, la ponevano in un recipiente da vino e
al termine della loro perversa messa ne davano da bere ai presenti”.
E’ da
rilevare, peraltro, che tali agghiaccianti descrizioni, estorte mediante metodi
coercitivi, sono accolte con riserva dagli storici. Purtroppo il panorama delle
fonti è pressoché unilaterale e risulta alquanto problematica una ricostruzione
obbiettiva dei fatti.
Resta il fatto
che il repertorio delle accuse rivolte ai fraticelli (antropofagia, licenze
sessuali e omicidi rituali) costituisce uno stereotipo utilizzato in sede
inquisitoria anche contro altre esperienze ereticali.
In epoca
recente, lo scrittore cattolico inglese Gilbert Keith Chesterton (1874-1936) ha
espresso un giudizio durissimo in merito all’esperienza dei fraticelli:
“I Fraticelli si dichiararono i veri figli
di San Francesco e si sottrassero alle condizioni imposte da Roma, in omaggio a
quello che chiamavano << il programma completo di Assisi>>. In
pochissimo tempo, questi bislacchi francescani apparvero feroci come i
Flagellanti. Lanciavano violenti anatemi, denunciavano le unioni matrimoniali,
minacciavano l’umanità. In nome del più umano fra i santi, dichiaravano guerra
al genere umano.
Non fu la persecuzione ad annientarli:
alcuni, alla fine, si convertirono e gli altri non realizzarono niente che
avrebbe potuto, seppure lontanamente, ricordare il vero San Francesco. Quella
gente era formata da mistici, che non erano null’altro che mistici; mistici ma
non cattolici, mistici ma non cristiani, mistici ma non uomini.
E deviarono dalla giusta via, perché non
vollero ascoltar ragione, nel vero senso della parola”.
UNO
STATUTO DI IMPRONTA FRANCESCANA
Dopo la morte
di Federico II (1250), si acuiscono le tensioni tra l’Impero e i Comuni e
diviene pressante la necessità di
regolamentare la vita pubblica ed i rapporti civici attraverso una legislazione
codificata.
Jesi, come
altre città della Marca, agli albori dell’età comunale si dota di propri
Statuti che costituiscono lo strumento concreto della potestà legislativa e
rappresentano il baluardo dell’autonomia .
Alla metà del
‘300 si rende necessaria una prima revisione delle norme statutarie, al fine di
conformarsi al dettato vincolante delle “Constitutiones Albornotianae” (1357),
opera del cardinale e condottiero Egidio Albornoz che aveva ricevuto l’incarico
di restaurare l'autorità papale negli antichi territori della Chiesa.
Ulteriori
modifiche ed “additiones” statutarie interverranno nei decenni successivi,
quale conseguenza della mutevole sorte del potere comunale, in base all’alternarsi
delle fazioni al comando.
Dopo gli
sconvolgimenti che avevano caratterizzato la Signoria dei Simonetti e di
Braccio da Montone, il Consiglio Generale della Città, il 5 maggio 1426,
stabilisce una nuova revisione degli Statuti e chiama in aiuto l'autorevole
giurista ed insigne esponente dell’Osservanza, Frate Giacomo della Marca: “quid
placet ordinari et reformari super novis statutis fiendis secundum quod voluit
frater Jacobus de Monte Brandono qui fuit in hac civitate ad predicandum”.
La traccia per
la revisione normativa sarà costituita dagli Statuti di Recanati, alla cui
stesura aveva partecipato il francescano di Monteprandone.
Tuttavia nuovi
sconvolgimenti politici legati all’avvento della signoria di Francesco
Sforza bloccheranno il tentativo di riforma per oltre 20 anni, sino a quando,
nel 1448, verranno finalmente designati quattro Statutari che porteranno a
compimento il lavoro di revisione nel
1450.
Gli Statuti,
ispirati ad una visione religiosa tipica della società sacrale del XV secolo,
si aprono con un Proemio contenente una solenne invocazione:
“Nel nome
di Gesù (i quattro Statutari) fecero, stabilirono, ordinarono e
decretarono gli Statuti a lode gloria e riverenza dell’ineffabile Trinità,
dell’altissimo Gesù e della sua alma e beatissima Madre, gloriosissima Vergine
Maria, e dei beati Apostoli Pietro e Paolo, e dei beatissimi confessori
gloriosissimi San Settimio e San Floriano sotto la cui felice tutela questa
Città, ha meritato di proclamarli protettori, governatori, intercessori e
difensori del Comune e del popolo della Città di Jesi, del suo Contado e
Distretto, e di tutti i Santi e Sante di Dio e di tutta la Curia celeste
trionfante. E ad onore, felice stato e riverenza della Sacrosanta Romana
Chiesa, a esaltazione e trionfo del Santissimo Padre in Cristo Nicolò V, per
volere della divina Provvidenza degnissimo Papa, che ha liberato la nostra
città dalle mani dei tiranni”.
Ai fini della
comprensione delle caratteristiche della società del tempo è di grande
interesse lo studio dell’assetto normativo concernente la difesa della
religione e della moralità pubblica.
Pesanti
sanzioni pecuniarie furono previste contro i bestemmiatori e gli autori di
delitti perpetrati all’interno di edifici di culto o durante le festività.
La violenza
perpetrata contro una donna sposata di buona condizione era punita con
l’ammenda di 300 libbre. Colui che ha commesso violenza contro “una monaca a
Dio consacrata, o un’altra donna vergine o no, a Dio dedicata, se l’ha
conosciuta carnalmente, o l’ha portata via dal monastero, sia punito con
l’estrema pena capitale”.
L’incontro
carnale con un consanguineo o affine, consumato da persona di età superiore a
18 anni era punito con la pena capitale; analogamente chi si fosse reso
colpevole di sodomia doveva essere “bruciato con il fuoco”.
Nonostante
l’esplicita impostazione religiosa degli Statuti, ad alcuni Jesini, sembrarono
non pienamente recepiti i principi di moralità promossi dai francescani
dell’Osservanza.
Fu per questo
motivo che, secondo il racconto di Giovanni Annibaldi senior, Frate Giovanni da
Capestrano fu invitato più volte a Jesi per “tuonare dal pergamo”
affinché venissero introdotte negli Statuti norme ancora più severe a
salvaguardia della morale, come, ad esempio, quelle riguardanti l’abbigliamento
femminile:
“Le donne
non portassero vesti con divise, né frappe o fronsoli e che di esse vesti non
si trascinasse oltre un terzo di braccio, pena dieci ducati, tanto per le donne
quanto per i sartori”.
Le frequenti
richieste di intervento per la soluzione dei problemi più disparati,
rappresentano la più evidente testimonianza dell'autorevolezza degli esponenti
dell'Osservanza. Nonostante l'età avanzatissima, nel 1471 il Consiglio decise
di inviare un ambasciatore a Fermo per contattare Giacomo affinchè tentasse di
comporre la secolare discordia tra Jesi e Ancona (...et quod mictatur unus
orator Firmum ad fratrem Jacobum de Marchia eum rogando quod dignetur huc
venire et Anconam ad procurandum et ordinandum pro pace et concordia inter Anconitanos
et Exinos).
Non conosciamo
l'esito di quell'appello. A giudicare dalla qualità dei rapporti tra Jesini e
Anconetani nel corso dei secoli successivi e sino ai nostri giorni, saremmo
propensi a credere che, almeno quella volta,
il quasi ottantenne Giacomo non sia intervenuto!
CONTRO
LA PIAGA DELL’USURA:
UN BEATO AL CONSIGLIO DI CREDENZA
La condanna
dell’usura ha una derivazione biblica, ma anche filosofica.
Nell’Antico
Testamento sono numerosi i passi in materia:
“Signore, chi abiterà nella tua tenda? Chi
dimorerà sul tuo santo monte? Colui che cammina senza colpa, agisce con
giustizia, parla lealmente e presta denaro senza fare usura” (Sal
14).
“Se tu
presti denaro all’indigente che è presso di te, non ti comporterai con lui da
usuraio, non gli imporrai alcun interesse” (Es 22, 24).
“Se tuo
fratello cade in miseria e manca nei suoi rapporti con te, lo aiuterai come un
forestiero o un ospite, ed egli vivrà presso di te. Non presterai il denaro per trarne un profitto, né gli
darai il vitto per ricavarne interessi” (Lv 25, 35-37).
Anche numerosi
filosofi, da Aristotele a Catone, condanneranno l’usura in base alla
considerazione che il denaro, per sua natura, è sterile e non produce frutti;
pertanto la richiesta di interessi è da considerarsi un comportamento contro
natura.
Anche i Padri
della Chiesa, da Ambrogio ad Agostino, confermeranno e rafforzeranno il
tradizionale orientamento.
Gli Ebrei, sommamente devoti agli insegnamenti dell’Antico
Testamento, giustificavano la loro attività usuraria sulla base di una
particolare interpretazione di un passo del Deuteronomio: “Non farai al tuo
fratello prestiti a interesse, né di denaro, né di viveri, né di qualunque cosa
che si presta a interesse. Allo straniero potrai prestare a interesse, ma
presterai senza interesse al tuo fratello” (Dt 23,20). Nella concezione
ebraica i cristiani venivano equiparati agli stranieri.
Nel suo libro intitolato “Tabula della salute” (1494),
Marco da Montegallo, il primo apostolo dei Monti di Pietà, escogitò un
originale espediente retorico per colpire la fantasia del popolo sull’abnormità
del prestito ad usura, all’epoca praticato da banchieri senza scrupoli.
L’usuraio che accumula il denaro impedendone il
reinvestimento produttivo costituisce una grave minaccia per la vita sociale e
per l’economia cittadina.
Marco calcolava, in linea teorica, il valore monetario
conseguibile prestando 100 ducati al tasso del 30 % annuo per un periodo di 50
anni, corrispondente alla sbalorditiva cifra di 49.792.556 ducati: ovvero 100
di capitale iniziale ed il resto derivante dal sangue dei poveri.
L’usuraio accumula su di sé una colpa colossale pari al suo
strabiliante guadagno: altrettanto incalcolabili saranno i meriti di chi
offrirà denaro per la costituzione del Monte di Pietà.
In altri termini, il Monte viene considerato come un
efficace strumento di carità cristiana, simbolo delle opere di misericordia
corporale, indispensabili al fedele per conseguire la vita eterna.
Nell’arco di meno di 50 anni, per impulso di Marco da
Montegallo e dei suoi confratelli (tra i quali Gabriele da Jesi), furono
istituiti nelle Marche ben 28 Monti di Pietà.
A Jesi, nella
prima metà del ‘400, la licenza per l’esercizio del prestito è monopolizzata da
un banchiere ebreo chiamato Benedetto. Lo stesso Comune, in una fase di forti
difficoltà economiche, si vede costretto a rivolgersi a Benedetto per ben tre
volte nell’arco di un quinquennio (1431, 1434 e 1435).
Le condizioni
vessatorie praticate dal Banco (il tasso di interesse risultava pari al 30%)
suscitano la dura reazione del Vescovo Eugenio: Benedetto viene diffidato a
ridurre il tasso al 12% per i prestiti in corso e al 15% per i futuri. Allo
scadere delle licenza il banchiere dovette, presumibilmente, lasciare la città,
ma l’attività di prestito continuò per oltre un secolo attraverso la famiglia
ebrea dei Vivanti, riconosciuta tra le più ricche della Provincia della Marca
(“de primaribus reperitur inter hebreos provinciae Marchiae”).
Al fine di
combattere la tremenda piaga dell’usura, nel maggio 1470 il Consiglio di
Credenza fu chiamato a decidere la proposta di espulsione degli Ebrei da Jesi e
la contestuale istituzione di un Monte di Pietà.
L’iniziativa,
sebbene autorevolmente sostenuta dal Consigliere Fiorano Santoni (“vir
facundissimus et eloquens”) fu respinta di misura con 49 voti contro 43;
l’esito del voto dimostra come, nonostante la reazione ostile contro l’usura,
il Comune considerasse ormai indispensabile ed insostituibile, per la vita
economica, l’attività di credito svolta dalla comunità ebraica.
Due anni dopo,
il 15 marzo 1472, la proposta di
istituzione del Monte fu nuovamente presentata in Consiglio, questa volta,
tuttavia, senza prevedere l’espulsione degli Ebrei.
Dall’analisi
delle fonti, sembra verosimile che la
proposta venisse illustrata dal Beato Marco da Montegallo, il quale
riuscì a convincere il Consiglio ottenendo un’approvazione con 132 voti contro
22 .
Le modalità
organizzative del Monte di Pietà rivestono indubbio interesse storico:
innanzitutto, la gestione faceva capo ad un Officiale ( di età non inferiore a
35 anni) che, per ragioni di imparzialità, doveva essere forestiero e non aver
mai risieduto in città (per la cronaca, il primo Officiale di cui si ha notizia
fu Ser Antonio Roberti da Fabriano, eletto nel 1474).
La nomina – di
durata annuale, salvo proroga – veniva effettuata tramite un curioso meccanismo
elettivo di doppio livello: in via preliminare doveva essere estratta a sorte
una città marchigiana, scelta tra 8 precedentemente imbussolate. A quel punto,
la città designata provvedeva a comunicare il nominativo del candidato alla
carica di Officiale, sul quale, tuttavia, il Comune richiedente si riservava di
esprimere il benestare.
Prima di
essere assunto in ruolo, l’Officiale era tenuto a prestare giuramento davanti
al Gonfaloniere ed ai Priori, con una cerimonia che aveva luogo nella Chiesa di
S. Maria della Misericordia (poi denominata delle Grazie) davanti all’altare
della Madonna.
In base alle
scarse informazioni a disposizione, sembra che il funzionamento del Monte
fosse inizialmente alquanto precario,
principalmente per l’inadeguatezza dei fondi di dotazione, aggravata anche
dalle ripetute richieste di finanziamento avanzate proprio dal Comune.
Lo stesso
Comune, peraltro, si vide costretto a lanciare periodiche sottoscrizioni
pubbliche per incrementare la dotazione. A tali risorse si aggiungevano
fortunatamente i proventi dei lasciti dei privati.
E’ evidente
che, durante la fase non breve di difficoltà gestionale ed organizzativa, il
Banco dei Vivanti continuasse ad operare, fino a quando non fu emanata, nel
1542, la Bolla del Cardinale Ascanio Sforza con la quale venivano imposte
pesanti restrizioni all’attività degli ebrei (tra le quali il contingentamento
dei Banchi e l’obbligo odioso di esposizione di un segno di riconoscimento).
Il clima
montante di ostilità antiebraica indusse i Vivanti ad abbandonare la città.
Pur con un
assetto organizzativo più volte riformato e nonostante periodiche crisi di
liquidità, il Monte – concretizzazione di un’idea sociale tipicamente francescana
– continuò la sua attività attraverso cinque secoli fino al 1941, anno di
definitiva chiusura.
Secondo gli
storici, è legittimo affermare che i Monti di Pietà rappresentano esperienze
antesignane del moderno microcredito, in quanto informati a quel principio di
“sussidiarietà orizzontale” che proprio in questi ultimi tempi è oggetto
di riflessione da parte degli
economisti.
TENSIONI
TRA CONVENTUALI E OSSERVANTI
I proficui
rapporti intercorsi con Giacomo della Marca e Marco da Montegallo, indussero il
Comune a formalizzare un invito ufficiale ai Minori dell’Osservanza, affinché
potesse essere costituito un convento a Jesi .
Con una prima
proposta, risalente al 1450, il Comune offriva all’Osservanza la disponibilità
della Chiesa di San Marco. Tale soluzione, tuttavia, si rivelò non percorribile
a causa della ferma opposizione dei Conventuali.
Ulteriori
difficoltà emersero nel 1469 e nel 1471, a fronte di altri inviti.
Finalmente,
nel 1486, gli Osservanti accettarono di realizzare un insediamento a Jesi, ma
solo dopo ulteriori cinque anni di trattative, nel 1491, iniziarono i lavori di
costruzione di un nuovo convento con annessa chiesa intitolata a S. Francesco
al Monte, nella zona nord della città.
L’edificio di
culto - oggi non più esistente per le sciagurate motivazioni che avremo modo di
approfondire in seguito - sarà destinato
ad ospitare opere di straordinario rilievo artistico tra le quali la celebre Madonna
delle Rose (1526-27 c.) di Lorenzo Lotto e diversi capolavori di impronta
francescana opera di Pietro Paolo Agabiti (San Francesco, tra S. Antonio e
S. Bernardino, un Presepe in terracotta policroma invetriata).
Nell’altare
maggiore della chiesa era allocato un altro dipinto di Agabiti (Madonna in
trono con il bambino, San Giovanni Battista e S. Antonio da Padova,
1540 c.) di enorme interesse anche per il fatto di contenere l’illustrazione
del paesaggio jesino dell’epoca: sulla destra sono, infatti, disegnate San
Marco - chiesa madre dei francescani della Vallesina - con a fianco un
campanile (oggi assente) e, probabilmente, la stessa S. Francesco al Monte.
La nobile
famiglia jesina dei Colocci fu particolarmente legata alla chiesa, tanto da
patrocinarvi una Cappella gentilizia dedicata al SS. Crocifisso, nel cui
interno fu eretto un monumento funebre in memoria del consanguineo Giovanni
Benedetto, religioso di straordinaria cultura morto d’asma a Roma nel 1695.
Diversi furono
i membri della casata che vestirono il saio francescano: nel 1830 sarà Annibale
Colocci a rinunciare ai diritti di primogenitura per entrare nel convento
jesino dell’Osservanza con il nome di Padre Giuseppe.
Risale proprio
all’800 un acquerello del Marchese Adriano Colocci raffigurante la Chiesa di S.
Francesco al Monte, rappresentata in una conformazione architettonica non
dissimile rispetto ad un rarissimo reperto fotografico di scarsa nitidezza,
comunque di poco antecedente la
demolizione.
Rarissima
fotografia di S.Francesco al Monte
NELLA
SELVA DELLA STERPARA
All’indomani
del Capitolo dell’Acquarella (1529) la diffusione del movimento cappuccino fu
imponente, in particolar modo nel territorio marchigiano.
Nel rispetto
delle Costituzioni i conventi dovevano sorgere fuori dell’abitato in luoghi
solitari, non troppo lontani dalla città perché l’eccessiva distanza avrebbe
reso difficile l’accesso dei fedeli, ma neppure troppo vicini per preservare il
clima di raccoglimento dei frati:
“Che li
luochi tutti siano presi fuori delle città distanti per un miglio, o poco
manco; et che detti luochi che s’hanno a pigliare, et fabbricare, sino sempre
sotto il dominio delli padroni, ovvero delle città, et siano sempre presi con
questa conditione, che ogni volta, che li trovasse impedimento alla vita
nostra, li frati liberamente si possino partire, et quando alli padroni no’
piacesse che frati abitassero in detto luoco, senza alcuna conditione
s’habbiano a partirsi et andare in altro luoco".
Nel 1541 il
Comune di Jesi assegnò all’ultima nata tra le famiglie francescane, un terreno
nei pressi della Selva della Sterpara in località Castellare (l’attuale
Tabano). Ancora oggi, tra i contadini
della zona, è tramandata la memoria di
una via denominata “Cappuccini vecchi”, a ricordo del primo insediamento
inaugurato il 5 ottobre 1544.
Il convento fu
sede del noviziato ed ospitò, nel 1557, Serafino da Montegranaro, destinato a
salire agli onori degli altari nel 1767.
L’eccessiva
distanza dal centro urbano e la scarsità
d’acqua in loco, indusse i Cappuccini, dopo appena 50 anni, a vendere
l’edificio e a costruire, con il ricavato, un nuovo convento in un’area messa a
disposizione dalla Famiglia Nobili nella zona dell’Isolato Carducci, a 46 passi
dalla città.
La nuova
struttura, cui era annessa la Chiesa di San Michele, disponeva di ben 34 celle
e fu inaugurata nel 1592.
La grande
stima acquistata in pochi anni dai Cappuccini, fece sì che il Comune decidesse
di aprire, nel 1605, un varco sulle Mura Occidentali, con lo scopo di agevolare
l’accesso in città dei frati, anche in caso di attacchi al convento da parte di
malfattori: il passaggio, situato in corrispondenza dell’attuale via Pietro
Grizio, prese il nome, ancora oggi in uso, di “sporticello”.
Grazie alla
preziosa collaborazione dell’amico Aldo Massaccio - ottimo conoscitore della
zona di Montecappone e Tabano - è stato possibile individuare ciò che resta dell’antico convento della
Selva della Sterpara, purtroppo oggetto, nel corso di quasi cinquecento
anni, di profonde trasformazioni e
radicali rimaneggiamenti architettonici.
La struttura,
oggi in piena decadenza e inaccessibile per ragioni di sicurezza, ha avuto, negli
ultimi secoli, una destinazione a fini abitativi, perdendo definitivamente la
tradizionale conformazione di un convento francescano.
Tuttavia
rimangono ancora visibili alcune testimonianze dell’originario edificio, quali
la porta d’accesso situata al piano terra, di ragguardevole interesse.
“ESSERE
E NON PARERE E’ SANTITA' "
All'interno
del movimento francescano, la questione della povertà continuò a tenere campo
anche nei secoli XVII e XVIII.
Per gli
appartenenti agli Ordini mendicanti, il Concilio di Trento aveva stabilito la
facoltà di esercitare il possesso dei beni
"in communi", con divieto assoluto della proprietà
privata.
L'
orientamento fu duramente ostacolato, in particolare, dai frati di ceto
nobiliare: celebre fu il caso del Ministro Generale dei Conventuali, Antonio
Savioz D'Aosta, che nel 1566, in punto di morte, fece testamento.
Ripetuti
comportamenti, in aperto contrasto con il voto di povertà, suscitarono la
reazione veemente della Santa Sede che giunse, in un primo tempo, a minacciare
la soppressione dell' Ordine dei Conventuali e, successivamente, a statuire la
chiusura dei piccoli conventi in base alla nuova regola delle "12
bocche", da intendersi come numero minimo di religiosi per consentire la vita
di una fraternità in condizioni di sufficiente autonomia finanziaria.
Per quanto
riguarda Jesi, la decisione pontificia provocò l'assorbimento della comunità di
San Marco da parte del convento di San Floriano (1620). Gli insediamenti
“ruralia et silvestria” saranno, invece, definitivamente abbandonati.
Nonostante la
stringente attività di controllo esercitata da Roma, gli atteggiamenti
contraddittori in tema di povertà saranno destinati a perdurare.
Lo storico
(nonchè frate conventuale) Gustavo Parisciani così descrive la vita delle
comunità nel settecento:
"Le
religiose comodità aumentarono fino ad avere due, tre, quattro ed anche più
stanze, ottimamente ammobiliate, con fratello laico di servizio, assegnamento
di legna piccola e grossa per i vari caminetti. La moda non tardò a corrompere
anche i frati: saie costose, fatte venire da Francia e da Olanda, dal colore
sempre meno cinerino (ritenuto allora di disdoro), camicie di seta, scarpe con
tacchi di legno e fibbie, calzetti di seta o colorati, coccarde al collo e
fascettoni e cravattine, barbe coltivate, capelli arricciati, tuppè,
cincinnature e perfino parrucche e grandi cappelli con fiocchi e fettucce (...)
E , ovviamente, amici, giochi di carte e, verso fine secolo, cioccolato caffè e
liquori, accesso a teatri e fiere, risse con altri religiosi e liti sostenute
in tribunali, scandali morali senza fine".
Alcune problematiche penali riguardanti le
comunità francescane vennero registrate anche nella nostra zona.
La cronaca giudiziaria del luglio 1811
riferisce di un ricercato sui generis: si tratta di un certo “Tommaso
Fraticelli, ex laico dei Minori Riformati, nativo di Treja, di anni 45…capelli
neri misti a bianchi tagliati alla villica, calvo in testa e tarlato dal
vajolo, vestito alla villica. Reato: “Propinazione di veleno a cinque frati
suoi compagni apprestato con fortissima dose di sublimato”.
D’altra parte la risposta al crimine,
ancorchè perpetrato da religiosi, non fu affatto lieve neppure in ambiente
francescano . A tale proposito possiamo leggere la dichiarazione di un certo
Fra Bernardo di Chiaravalle, cappuccino, il quale, nella breve epoca
repubblicana di fine settecento, denunciò all’autorità municipale la tremenda
situazione carceraria: “Il convento dei cappucini della Città di Jesi
è uno di quelli destinati a tormentare l’umanità capucinesca con un
carcere forte e non troppo umano, le supeletili del quale
sono li marettoni (?), la collana e li ceppi di ferro li più pesanti,
che senza fare molta indagine si troveranno esistenti al convento dei cappuccini
nella stanza denominata: la Comunità”.
In questo
quadro non esaltante, emersero, comunque, fulgide figure di francescani.
Nella nostra
terra il secolo XVIII , “metà razionalista e metà epicureo”, reca l’impronta
del frate conventuale P. Angelo Antonio Sandreani, definito l’Apostolo della
Vallesina.
Nato ad
Arcevia nel 1675, abbracciò l’ideale francescano, sino ad assumere la carica di
superiore della fraternità di Jesi dal 1734 al 1752, anno della sua morte.
Teologo di
solida dottrina, maestro di spiritualità, consigliere di Vescovi e di Papi (tra
cui il marchigiano Clemente XVI), predicatore dalla parola ardente, seppe unire
l’azione al nascondimento.
Al proposito è
nota una sua massima che ripeteva di frequente per sé e per gli altri: “Non
essere e parere è vanità; essere e parere è verità; essere e non parere è
santità”.
Rifiutò, con
gesto umile, la designazione episcopale preferendo rimanere nell’amata
Vallesina.
E’ in corso la
causa di beatificazione.
GIOVANNI BATTISTA
PERGOLESI: UN DESTINO FRANCESCANO
E’ il 16 marzo del 1736.
Un compositore di appena 26 anni muore, consunto dalla
tisi, in una cella del convento dei Padri
Cappuccini di Pozzuoli.
Il suo nome è Giovanni Battista Pergolesi e, sebbene
povero, lascia in eredità una musica di sublime purezza.
La sua fama è già assurta ai vertici europei, quale
massimo esponente dell’Opera Buffa (A Parigi
“La Serva Padrona” sarà rappresentata per 190 serate consecutive!).
Sul letto di morte è rapito in estasi dinnanzi
all’immagine della Madonna Addolorata , colei che considerava la sua celeste musa per la scrittura dello
Stabat Mater, il grandioso capolavoro, portato
a compimento appena pochi giorni prima della fine:
Stabat Mater dolorosa
iuxta Crucem lacrimosa,
dum pendebat Filius
Il mondo della musica si inchinò di fronte a quell’opera:
“Udii lo Stabat di Pergolesi e ne fui commosso fino alle
lacrime. Quella musica raggiunge l’ultima bellezza” (Gioacchino Rossini).
“Lo Stabat di Pergolesi è il poema del dolore” (Vincenzo
Bellini).
“Non ascolto mai lo Stabat Mater senza un oscuro
desiderio di lacrime. Per quanto grandi siano i maestri, che verranno di poi,
essi non sorpasseranno mai l’autore dello Stabat. Solo Mozart potrà uguagliare
Pergolesi” (Camille Bellaigue).
“Pergolesi è un genio superiore, il suo lavoro di
compositore è un esempio sublime, lo Stabat è un
capolavoro” (Richard Wagner).
“Quando sentii per
la prima volta lo Stabat Mater mi vennero le lacrime agli occhi per la grande
commozione che mi prese (Johann A.P. Schulz).
“Avrei dato tutta la mia musica, se mi fosse stato dato
di comporre lo Stabat di Pergolesi” (Gaetano
Donizetti).
Il lettore ci consenta di abbandonare, per un momento,
l’ambientazione jesina del nostro racconto,
per fare tappa nel Golfo di Napoli.
Lo spunto per questa deviazione geografica è fornito da
Padre Pietro Rossi che nella sua opera “Il
capolavoro di San Francesco” annovera Pergolesi tra i professi del Terz’Ordine!
La notizia - che è veramente sensazionale e farebbe di
Pergolesi il più illustre dei Terziari nati a Jesi - non trova conferma nelle
principali biografie.
Se potessimo, tuttavia, applicare alla ricerca storica un
famoso adagio in voga tra gli investigatori (“una
coincidenza è una coincidenza, due coincidenze costituiscono un indizio e tre
coincidenze
fanno una prova”) dovremmo, quanto meno,
riconoscere le tracce di un destino francescano in tutta la vita dell’artista.
Giovanni Battista Pergolesi nacque in un’abitazione a
fianco del Palazzo della Signoria il 4 gennaio del 1710 da Francesco Andrea e
Anna Vittoria Giorgi e venne battezzato, il giorno stesso, nella Cattedrale di San Settimio. Il padre oltre
alla professione di perito agronomo e di sergente della pubblica milizia era
amministratore di quella Confraternita del Buon Gesù, fondata da San Giacomo
della Marca tre secoli prima (e siamo alla prima coincidenza!).
Le straordinarie capacità artistiche dimostrate sin da
fanciullo, convinsero la famiglia Pergolesi, grazie al sostegno economico del
Marchese Pianetti, ad iscrivere il sedicenne Giovanni Battista al Conservatorio
napoletano dei Poveri di Gesù Cristo.
Napoli, con i suoi quattro Conservatori, era, all’epoca,
una delle capitali internazionali della musica. Il Conservatorio prescelto per
Pergolesi aveva una singolare caratteristica: era stato fondato nel 1590 dal
terziario Marcello Fossataro e, nella sua impostazione, si ispirava a principi
educativi di matrice francescana (e siamo alla seconda coincidenza!).
E’, quindi, certo che, durante gli anni di permanenza, a
Pergolesi venisse impartita, oltre ad una
solida istruzione musicale, anche una rigorosa formazione religiosa.
Addirittura gli studenti del Conservatorio avevano
l’obbligo di indossare, come divisa, il “panno
bigio francescano” (Radiciotti).
Anche la storia dell’amore infelice di Pergolesi per la
nobile Maria Spinelli è segnata da una
dolorosa svolta con esito claustrale.
Scrive il biografo Florimo:
Giambattista Pergolesi fu vittima d’un amore infelice; ed
io, per la storia di questo amore,riporterò trascritto letteralmente il
seguente brano ricavato da private carte. “Nella prima metà del decorso secolo
si presentarono un giorno in questa città a Maria Spinelli i tre fratelli di
lei,e colle spade sguainate le dissero: come fra tre giorni ella non
iscegliesse a sposo un uomo pari a lei per l’altezza del nascimento, con quelle
tre spade avrebbero trafitto e morto il maestro di musica Giovan Battista Pergolesi di lei amante
riamato; e sì dicendo partirono. Fra i tre giorni ritornarono alla sirocchia: costei loro disse
aver prescelto a sposo un Essere sublime, poiché il suo sposo era Iddio,
domandando andare monaca a S. Chiara, si veramente che la messa di monacazione si avesse a dirigere
da quel maestro di musica che ella aveva cotanto amato,e che ora mandava in
oblio rivolgendo tutta l’anima sua solo ai celesti affetti. E così fu fatto.
L’anno appresso il dì 11 marzo 1735 funebri rintocchi
della campana di S. Chiara annunziavano mestamente funerali. In quel tempio
celebravasi la messa di requie di Maria Spinelli, e dirigevala Giovan Battista
Pergolesi!”.
Appena un anno dopo, nello stesso mese di marzo, il
musicista moriva nel convento di Pozzuoli.
Già gravemente malato, era stato accolto dai Padri
Cappuccini ( e anche questa è una terza
coincidenza non da poco) nella speranza di poter beneficiare di un
situazione climatica migliore per la sua salute.
Per riconoscenza e affetto verso i Padri Cappuccini,
Pergolesi dedicò ai frati uno “scherzo” musicale intitolato: “ Venerabilis
barba inculta cappuccinorum”.
LA
CAPITALE DEI “BOZZI BONI”
Il prestigioso
titolo di “piccola Milano delle Marche”,
evoca, a partire dalla prima metà del XIX secolo, l' epopea industriale della città di Jesi nel
settore della produzione della seta.
Pochi numeri
sono sufficienti per comprendere l'effettiva importanza dell'attività serica
nel contesto economico locale.
Nel 1837, per
opera del pioniere Pasquale Mancini, nasce la prima filanda, situata in via dei
Macelli (oggi via Castelfidardo) nei pressi del Vallato: nel breve arco di un
anno, la produzione di bozzoli salirà da
129.000 a 175.000 libbre.
Venti anni
dopo, nel 1858, le filande diventeranno sette per arrivare al numero di dodici
agli albori del nuovo secolo.
All’epoca, su
una popolazione di 23.000 abitanti, si conteranno ben 1.055 operaie occupate
negli stabilimenti cittadini.
Non molti
sanno che la straordinaria avventura jesina della seta ha radici francescane, grazie
all'opera del frate conventuale P. Vincenzo Rinaldi, nato a S. Anatolia (oggi
Esanatoglia) nel 1779, laureato in Filosofia, Teologia e Scienze, ma anche
valente cultore di agronomia.
Alla
professione di insegnante presso il Ginnasio di Jesi, Padre Rinaldi abbinò
l’impegno di studioso in materia di
produzione del baco da seta: in una serie di convegni scientifici di settore,
il francescano ebbe l’opportunità di presentare una tipologia innovativa di
bigattiera, che riscontrò un consenso unanime.
Per impulso di Padre Rinaldi e
sotto l’egida del lungimirante Cardinale Pietro Ostini, Vescovo di Jesi,
nacque, nel 1838, la Società Agraria Jesina, fondata da 63 soci, tra i quali figuravano personalità
del calibro di Gaspare Spontini.
La presidenza del sodalizio venne
affidata al Gonfaloniere Alessandro Ghislieri, mentre al Rinaldi fu demandato
l’incarico di organizzare una scuola tecnico-pratica di agricoltura, con
l’obiettivo di addestrare le nuove generazioni di contadini, in età compresa
tra i 14 e i 18 anni, alla coltivazione del baco secondo metodologie moderne.
A due anni dalla fondazione, il
numero dei membri della Società salì ad oltre 100, con unanime compiacimento
per gli obiettivi raggiunti, come
risulta da una relazione del segretario:
“Torna poi a sommo onore ed utile di questa Città l’educazione dei
vermi da seta ed il felice loro risultato. Non più in uso l’antico barbaro
disutile sistema; ma bigattaje si vedono erette nell’abitazioni della Città,
nelle case di signorile villeggiatura e nei rusticani ricoveri.
La seducente ed utile qualità delle gallette delle bigattaje jesine e
de’ limitrofi paesi ha in quest’anno maggiormente attirato la folla de’
compratori in questa piazza che è arrivata a gareggiare colle più rinomate dei
dintorni”.
Nel 1841, nonostante i brillanti
risultati conseguiti, Padre Rinaldi, per motivazioni mai rese
pubbliche,venne trasferito in altra
città e dovette abbandonare la sua benemerita attività didattica.
Invano si tentò, attraverso
appositi bandi di concorso, di trovare
un sostituto, tanto che nel 1843 il
Presidente della Società Agraria si vide costretto a rivolgersi ad uno stretto
collaboratore del Papa Gregorio XVI per
perorare il ritorno a Jesi di Padre Rinaldi:
“La lontananza, avvenuta per Sovrana disposizione da questa Città da
circa un anno del P. Rinaldi appartenente a questo Convento dei PP.
Conventuali, già Professore di Scuola in questa Società di Agricoltura, mi
offre motivo di venire a incomodare la S.V. per tale circostanza.(…) In tale
stato di cose si aprì il Concorso ma senza alcun risultato, nessuno essendosi
presentato; ed è perciò che per procurare la continuazione di que’ vantaggi che
sonosi già ottenuti in diversi rami, come risulta dagli atti di questa Società,
mercè le istruzioni del predetto P. Rinaldi, il quale se non possiede una
estesa teoria, è però fornito di molta prattica, cosa la più essenziale nella scienza Agraria, vengo a pregare la
bontà della S.V.I.R.(…) allorchè ciò non sia contrario alla intenzione di
Nostro Signore, di interporre la valevole sua mediazione per ottenere dalla
stessa S.S. il permesso che il medesimo P. Rinaldi possa stabilmente tornare in
questo Convento ed essere di vantaggio a questa Società di Agricoltura come lo
fu in addietro”.
Successivamente, anche il
cardinale Lambruschini, Segretario di Stato della Santa Sede, venne investito
della problematica dal Ghislieri.
Grazie all’intervento del nuovo Vescovo Corsi, nel 1846 Padre Rinaldi
ritornò a Jesi, per trovarvi morte dopo appena pochi mesi.
Soltanto nel 1849 - dopo 8 anni
di “cattedra vacante” - fu individuato
nella persona di Antonio Galanti il successore di Padre Rinaldi. Il nuovo
titolare ebbe parole di elogio per il francescano: “caldo amatore dell’arte, benemerito della scienza agraria e milite coraggioso
contro il pregiudizio che allora fervea maggiore”.
Toni meno diplomatici utilizzò il
marchese Giacomo Ripanti nel suo studio dal titolo: “Cenni sull’industria della
seta in Jesi”, laddove non mancò di evidenziare come rimasero “svergognati e confusi” quanti avevano
diffidato di Padre Rinaldi e dei suoi primi seguaci, considerati come “inopportuni novatori”.
Lo stesso Ripanti sintetizzò in
un solo pensiero, l’esito di quella “rivoluzione” agricola ed industriale che
aveva visto Padre Rinaldi tra i protagonisti principali: “Le sete di Jesi, prima tenute a vile anzi a dispregio, sono assai in credito fin sui mercati di Londra”.
1860:
GARRISCE IL TRICOLORE
Il 18 settembre
1860, nella zona di Castelfidardo, si combatté la celebre battaglia che sancì
la vittoria dell’esercito Sardo su quello Pontificio, determinando una svolta
definitiva nel cammino verso l’unità d’Italia.
Tre giorni
prima, nel primo pomeriggio del 15 settembre 1860 il vento risorgimentale squassò la Jesi papalina.
Il Reggimento
dei lancieri di Milano oltrepassò Porta Marina (oggi Porta Bersaglieri),
mentre, nello stesso giorno, migliaia di uomini si accamparono lungo le rive
dell’Esino, in previsione dell’imminente trasferimento sul teatro della
battaglia.
Un anonimo cittadino
dell’epoca così descrive i sentimenti della popolazione jesina all’arrivo delle truppe: “Nella sera
illuminazione per tutta la città con bandiere a tre colori e coperte per tutte
le finestre tutto il giorno, e la Banda cittadina andette incontro alla truppa
(...) le signore con gli uomini che facevano a gara a chi potesse accompagnarsi
al passeggio chi con gli ufficiali e chi con i (soldati) comuni e così in
seguito si farà tutti con la cucarda a tre colori, bianca, rossa e verde”.
L’atteggiamento degli intellettuali
anticlericali verso il governo del Papa Re è sintetizzato in un passo delle Ricordanze
della mia vita di Luigi Settembrini, scritto all’indomani della caduta del
potere temporale: “I popoli che formavano lo Stato della Chiesa erano, fra
tutti gli italiani, i più straziati, perché avevano sul collo i preti e gli
stranieri…I preti governavano coi codici dei sette peccati mortali; e chi non
ha conosciuto il governo dei preti non sa quale sia l’ultima tirannide, la
quale ormai è caduta perché Dio e gli uomini erano stanchi di tante
scelleratezze”.
Il 4 e 5
novembre ebbe luogo il plebiscito per l’annessione al nascente Regno
d’Italia: su una popolazione di poco
meno di 18.500 unità, i votanti furono 3361 di cui 3342 favorevoli.
Il 5 gennaio
1861 si tennero le prime elezioni amministrative: questa volta i votanti furono
144 (non erano ammessi gli analfabeti e coloro che non pagavano almeno L.15 di
tasse annue) ed elessero un Consiglio
comunale composto quasi esclusivamente di ricchi possidenti.
Primo sindaco
venne eletto il Conte Marcello Marcelli Flori che nel discorso di insediamento
non esitò ad attaccare con veemenza “la mala signoria clericale”.
Nel frattempo
il Regio Commissario Generale Straordinario delle Province delle Marche Lorenzo
Valerio, di stanza a Senigallia, avviò una profonda trasformazione civile e
politica della Regione, distinguendosi per una forte politica di contrasto
verso il mondo ecclesiastico.
Durante i
quattro mesi nei quali rimase in carica, Valerio emanò ben 840 decreti che
ribaltarono completamente l’assetto delle Marche.
In
particolare, con il Decreto n. 815 dell’11 gennaio 1861 Valerio iniziò una
capillare opera di soppressione e incameramento dei beni delle corporazioni
religiose.
Nella Diocesi
di Jesi i beni della Mensa Vescovile, del Capitolo, delle Confraternite, delle
Collegiate e delle Opere Pie vennero espropriati, per essere assegnati ai
Comuni o ad Enti di beneficenza laici di nuova istituzione oppure per essere
venduti.
Il
provvedimento era perfettamente in linea con gli indirizzi di ispirazione
antipapalina propugnati dal nuovo governo.
A seguito
dell’incameramento, “ingenti beni terrieri vennero rivenduti con lo scopo di
riassestare il bilancio; in tal modo venne introdotta sul mercato una grande
quantità di terreni che, a parole destinati ai contadini, di fatto furono
acquistati, spesso a prezzi minimi, da ricchi borghesi o, nel Sud, dai già
ricchi proprietari di terre che in tal modo rafforzarono ulteriormente la loro
posizione di predominio sulle masse arretrate dei contadini. Contemporaneamente
fu istituito un fondo per il culto che doveva in parte risarcire il clero
dell’avvenuta confisca dei beni ecclesiastici (…) Tutto questo in piena
coerenza con un certo spirito laico e anticlericale che aveva animato e animava
il risorgimento italiano”(Fabietti).
Per
focalizzare la tragica sorte delle comunità francescane presenti nella Diocesi
di Jesi, basti ricordare che il Decreto Valerio provocò l’immediata espulsione
dei Conventuali da San Floriano.
Nessun esito
sortì la richiesta di alcuni frati di poter restare nel convento stante
l’impossibilità di fare rientro nei paesi di provenienza: a grande maggioranza,
il Consiglio Comunale rigettò la proposta.
La chiesa
venne sconsacrata e nel 1869 diventò sede della biblioteca comunale. I locali
dell’ex convento divennero sede di istituti scolastici.
Nel 1866 i
Padri Minori Riformati vennero cacciati dal convento di San Francesco al Monte:
la loro chiesa venne demolita e l’annesso convento fece posto alla Casa di
Riposo, ancora in funzione. Dell'antico edificio si è conservato soltanto il
portale di pietra, collocato in una
parete dell'atrio del Palazzo della Signoria.
Anche i
Cappuccini dovettero abbandonare il loro convento (situato nell’isolato Carducci)
per trovare rifugio nella Chiesa di San Bernardo presso Palazzo Pianetti in via Valle.
Analoga sorte
subirono gli altri conventi francescani della Vallesina: gli Osservanti furono
cacciati da Montecarotto (il loro convento sarà trasformato in Ospedale) come anche i Frati Neri dovettero
allontanarsi dalla Romita di Massaccio (Cupramontana).
La
ristrettezza dei locali dell’ex convento di San Floriano, indusse il Ministero
della Pubblica Istruzione ad individuare una più adeguata sede per il Regio
Istituto Tecnico Pietro Cuppari. Nel settembre del 1880 venne annunciato
l’intendimento di requisire il Convento della S.S.Annunziata (oggi in vicolo
Angeloni), legittimamente abitato sin
dal 1664 dalle Clarisse.
In una lettera
del 24 dicembre dello stesso anno indirizzata al Ministero, il marchese Mereghi
tentò di scongiurare la realizzazione del progetto, dichiarandosi pronto a
chiedere udienza anche a Sua Maestà Re Umberto pur di impedire l’espulsione
delle monache “che sono in perfetta regola con la legge (…) ed hanno le
educande delle primarie famiglie di Jesi”
La presa di
posizione del “reazionario” Mereghi provocò l’immediata risposta della fazione
anticlericale. Nel giro di pochi giorni vennero presentate al Sindaco di Jesi
ben tre petizioni favorevoli alla soppressione del convento.
La prima
petizione fu firmata da esponenti del mondo politico cittadino e da professori
scolastici (tra gli altri, i consiglieri comunali Ruggero Rosi, Antonio
Gianandrea, Guglielmo Guglielmi, Marcello Marcelli, Alessandro Ferri, Antonio
Colocci, il Preside Antonio Mogni, il docente Arzeglio Felcini): “I sottoscritti, venuti a cognizione che il
partito reazionario chiede la conservazione delle monache clarisse nel convento
da loro abitato, protestano contro un atto così contrario alla pubblica
opinione di questa patriottica città e chiedono in nome del partito liberale
che quel convento sia destinato ad uso delle pubbliche scuole”.
La seconda
petizione, datata 1 gennaio 1881, è del seguente tenore: “I sottoscritti, cittadini di Jesi, rivolgono istanza alla S.V. Ill.ma,
affinché si degni far conoscere al Superiore Governo il loro vivo desiderio,
che la cessione del fabbricato tuttora occupato dalle Monache Clarisse, per
utile e decoro della Città venga quanto prima ad effettuarsi conforme alla
richiesta fattagli da questa Rappresentanza Municipale”.
La terza
petizione, sempre del capodanno 1881, riporta i nomi di numerosi artigiani
(falegnami, tappezzieri, facchini, scalpellini, fabbri, canapini): “I quisottocrocesegnati, inalfabeti (sic), cittadini di Jesi, rivolgono istanza alla
S.V. Ill.ma, affinché si degni di far conoscere…(prosegue con lo stesso
testo della seconda petizione).
La soccombenza
della posizione “reazionaria” non poté essere evitata: il 18 aprile 1881 le
suore Clarisse furono costrette ad abbandonare per sempre la loro casa,
destinata a diventare sede del Regio Istituto Tecnico Cuppari per oltre 100
anni e oggi sede universitaria.
CEFFONI…FRANCESCANI
In quel
periodo di forte esasperazione si raggiunsero livelli di inaudita virulenza
anticlericale: il 23 aprile 1864 il Vescovo di Jesi, Cardinale Carlo Luigi
Morichini, venne addirittura arrestato e
tradotto nelle carceri di Santa Palazia in Ancona.
Il motivo del
grave provvedimento giudiziario – che ebbe eco in tutta Europa – era da ricercarsi nella tassativa
applicazione di un decreto della S. Penitenzieria romana: fin dal 1860, infatti, il Pontefice aveva
imposto ai confessori il divieto di assolvere i funzionari papalini che fossero
passati al servizio del Governo italiano.
Durante la
quaresima del 1864, l’Avvocato Augusto Pranzetti, già funzionario pontificio e
successivamente Regio Pretore di Jesi, presentatosi al confessionale del Duomo,
non venne ammesso al sacramento.
L’episodio
fece scattare, a carico del Cardinale,
una denuncia al Procuratore del Re per il reato di denegata assoluzione
sacramentale: la detenzione durò circa
20 giorni e si concluse soltanto per l’intervento di Napoleone III.
A seri guai
giudiziari andò incontro, nel 1867,
anche il cappuccino P. Bonaventura da Monteroberto, il quale nel corso
di un’omelia lanciò un pubblico attacco contro il nuovo regime sabaudo: “Una
volta Iddio era Padre nostro, ma al dì d’oggi non è più, perché viene
trascinato nella strada, tenuto come un asino, come un maiale, come un ladro.
Ora che il
governo ci ha cacciati via e si è tolto questo peso dalle spalle, sarete
contenti?”.
Alle risate di
scherno di un uditore (tale Piero Spadoni) il frate reagì con un sonoro ceffone
accompagnato da un severo rimprovero: “Così imparerai a stare in chiesa”.
Emblematica del clima avvelenato di quel
periodo è una pagina del diario del Marchese Adriano Colocci : “Nei giorni
successivi (siamo nel 1870) passarono treni carichi di prigionieri
pontifici. Con Papà andavamo alla stazione, dove i jesini si addensavano per
curiosare; ma i nostri soldati scendevano a guardia degli sportelli delle
vetture e impedivano offese ai prigionieri, che si tenevano ben dentro alle
vetture, senza esporsi agli sguardi della folla. E rammento che molti popolani
pregavano le sentinelle di appagare la curiosità pubblica e dicevano in
dialetto “Almango fàdecene vedè uno solo!”. E un bersagliere, scostandosi, ci
lasciò scorgere qualche soldato papalino, la cui vista provocò un subisso di
gridi e di improperi, tra cui si sentivano le parole: “Sbirro! Boja! Barbacà!”.
UNA
LENTA E DIFFICILE NORMALIZZAZIONE
Si deve al
Vescovo Rambaldo Magagnini (in carica dal 1872 al 1892) la gestione, a livello
diocesano, della delicatissima fase successiva alla breccia di Porta Pia.
Con prudenza e
determinazione, molto spesso attingendo risorse dal patrimonio di famiglia, il
Vescovo risollevò le sorti della Chiesa locale, sconvolta dalle disposizioni
del Decreto Valerio.
Per limitarsi
alla situazione dei francescani, si deve a Magagnini l’organizzazione degli
aiuti alle suore Clarisse per la costruzione della nuova casa nei pressi della
Chiesa di San Marco.
Anche i
Cappuccini ebbero nel 1886 il nuovo convento in via San Pietro Martire.
Al proposito,
il periodico repubblicano L’intransigente in data 9 giugno 1884
pubblicava le feroci riflessioni di “Alcuni Reduci delle patrie battaglie”
:
“Considerando
che l’erezione di un nuovo convento di Francescani costituisce sanguinosa sfida
ai principi di civiltà e di progresso;
considerando che questa novella accozzaglia di sanfedisti oltre che
vivamente oltraggia la patriottica Città di Jesi, sta pure a permanente insulto
di quei generosi che pugnarono le patrie battaglie, con lo intendimento di abbattere
le tenebrose rocche, ove si annidano i nemici più feroci della libertà e del
civile consorzio, energicamente protestano contro la erezione del convento
suddetto e additano allo sfregio pubblico coloro i quali anziché l’operaio e
l’industria, sussidiano e spalleggiano la riorganizzazione di questi nidi di
parassiti”.
Dieci anni
dopo, il 4 ottobre 1894, anche la
Fraternità dei Minori Riformati, cacciata da San Francesco al Monte a causa del
Decreto Valerio, trovò sistemazione nel nuovo convento costruito in contrada
Campolungo, a pochi metri dalla Chiesa della Madonna della Misericordia.
Negli anni
tremendi della soppressione, la guida dei Minori spettò allo jesino Padre
Venceslao Pieralisi (morto nel 1884) , insigne filosofo, per dieci anni
Ministro della Provincia della Marca e, in seguito Generale.
A lui si deve,
tra l’altro, la formazione religiosa e morale del Conte Massinissa Grizi
(1853-1933) figura dominante del cattolicesimo jesino a cavallo dei due secoli,
fondatore dell’Azione Cattolica diocesana e discendente di Crescenzio Grizi.
Detto dei
Cappuccini e dei Riformati, per quanto riguarda, invece, i Conventuali, la
soppressione del 1861 segnò la fine della loro presenza a Jesi dopo oltre 600
anni di storia. Nel capitolo provinciale di Montottone del 1892 (il primo dopo
gli sconvolgimenti risorgimentali) non senza dolore venne decisa la chiusura
definitiva dei conventi della Custodia jesina.
Ma 80 anni
dopo, toccherà proprio ad un conventuale, Padre Oscar Serfilippi, assumere la
guida della Diocesi di San Settimio.
IL
NOVECENTO FRANCESCANO
Numerose sono
state le figure di francescani che hanno contrassegnato la storia di Jesi e
della Vallesina, nel corso del ‘900.
Tra le tante,
ne vorremmo ricordare quattro, di cui una, Alda Marasca, appartenente al laicato e tre al Primo Ordine
(rispettivamente Fra Serafino da
Pietrarubbia dei Cappuccini, P. Ugolino Dottori dei Minori e Padre Oscar Serfilippi dei Conventuali).
Si tratta di
rapidi ritratti, le cui pennellate, almeno nei casi di conoscenza diretta, sono
“condizionate” (lo confessiamo), dai sentimenti di stima ed amicizia nutriti
dall’autore il quale, come avvertito all’inizio, non è uno storico di
professione!
FRA
SERAFI’, UNO DEI NOSTRI
Fra Serafino
da Pietrarubbia (1874 – 1960), può essere considerato una moderna incarnazione
del Fra Galdino di manzoniana memoria.
Frate
questuante, vissuto nel convento di Jesi dal 1899 al 1956, percorse in lungo e
in largo la Vallesina, alla ricerca quotidiana di aiuti per il seminario cappuccino
e per la fraternità di S. Pietro Martire.
“Mingherlino,
si aggirava per le campagne, spesso a stomaco vuoto, impolverato, carico di
legna o di mosto o di grano, con un abito rattoppato, con sandali rotti. E
tutto questo non per sé ma per gli altri:
per i suoi confratelli, per i suoi fratini”.
Ma Fra
Serafino, oltre all’incarico affidatogli dai superiori, coltivava di proprio
una straordinaria vita spirituale che lo poneva in relazione continua con il
suo Creatore:
“Quando
s’incontrava con Gesù nel sacramento della riconciliazione, piangeva; nel fare
la comunione, piangeva; nel baciare le piaghe di Gesù crocifisso, piangeva; se
per un momento fissava l’immagine dell’Addolorata, piangeva. Anche quando
pensava alla sua vita di cristiano e di religioso, gemeva: “Preghi per me
perché il Signore mi aiuti ad essere un vero religioso”.
La fama di
santità è testimoniata da innumerevoli episodi, tramandati, in particolare, dai
tanti laici che poterono incontrarlo durante la lunga permanenza nella diocesi
jesina.
Alcuni
episodi, che per la loro semplicità richiamano direttamente “I Fioretti” , sono
scolpiti nella tradizione agiografica popolare:
“Un giorno
Fra Serafino è in città, nel corso affollato e vanitoso. Piove, ma nessuno
sembra accorgersene, intenti tutti a godersi la passeggiata serale fra i
palazzi di stile neoclassico o primo ottocento.
Fra
Serafino se ne va con il suo rosario quando un frullo improvviso taglia l’aria
e il cinguettio che l’accompagna attira gli sguardi di tutti. Sono i due passerotti
che hanno visto Fra Serafino e gli si sono infilati nel cappuccio della tonaca
lisa e rattoppata.
Il corso si
ferma stupito, gli ombrelli si chiudono e molti si avvicinano a Fra Serafino
per chiedergli un ricordo nelle sue preghiere”.
Di se stesso e
della sua costituzione mingherlina soleva ripetere: “Io non sono altro che un buono a nulla! Io valgo quanto peso!”
Al pari di San
Francesco, anche Fra Serafino è stato autorevolmente proclamato ”immagine
profetica della Chiesa dei Poveri”.
La gente delle
campagne e dei borghi della Vallesina, talvolta aspramente critica verso il
clero locale, riconosceva in quel frate l’impronta autentica del Santo di
Assisi e non poteva nasconderlo: “Fra Serafì, tu sei dei nostri”.
Nel 1975 ha
avuto inizio la causa di beatificazione.
Riconosciute
le sue virtù eroiche, il 15 marzo 2008 Fra Serafino è stato dichiarato
Venerabile.
Il “Decretum
super virtutibus” della Congregazione vaticana delle cause dei Santi inizia con
una citazione del Salmo 131: “Signore,
non si esalta il mio cuore, né i miei occhi guardano in alto; non vado cercando
cose grandi né meravigliose più alte di me. Io invece resto quieto e sereno:
come un bimbo svezzato è in me l’anima mia”.
E così
prosegue: “Il Servo di Dio Serafino
Riminucci di Pietrarubbia, al secolo Pietro, guidato da limpida consapevolezza,
visse esattamente l’infanzia spirituale descritta dalle parole del Salmista e
proposta dal Signore Gesù come condizione per chiunque voglia conquistare il
Regno di Dio”.
UNA
PIETRA DOPO L’ALTRA: IL COSTRUTTORE DELLA NUOVA PARROCCHIA
Nell’immediato
secondo dopoguerra, la volontà di ricostruire il tessuto sociale ed economico,
si unì al desiderio di progettare una nuova espansione urbanistica della città.
L’area
prescelta dalla pianificazione comunale, fu quella di Campolungo: ettari di
campagna tra il Viale della Vittoria e la Figuretta di Tabano destinati alla
costruzione di un nuovo quartiere con abitazioni, scuole, attività commerciali,
strade e servizi.
Alla fine
degli anni ’50, il Vescovo Pardini intuì l’esigenza di erigere una nuova
Parrocchia per una zona chiamata ad accogliere centinaia di giovani famiglie.
Fu, dunque, naturale
che si rivolgesse ai Frati Minori per la
sua gestione, ma c’era bisogno di un Parroco in grado di affrontare la sfida.
La scelta
ricadde sul trentasettenne Padre Ugolino Dottori (nato a Cupramontana nel 1923), ben
conosciuto dal Vescovo per aver assolto l’incarico di suo primo segretario.
Professore di
Teologia Morale e Maestro dei Chierici, incarnazione della mitezza evangelica,
Padre Ugolino si dedicò anima e corpo alla costruzione della nuova Comunità
parrocchiale di San Francesco d’Assisi;
L’insediamento
ufficiale del parroco avvenne il 4 dicembre del 1960. Il quotidiano cattolico
“L’Avvenire d’Italia” così registrò l’avvenimento: “Domenica pomeriggio è stata solennemente inaugurata la trentaseiesima
parrocchia della Diocesi, intitolata a San Francesco d’Assisi sorta nella
chiesa omonima ufficiata dai Padri Minori francescani di Campolungo. Una folla
numerosissima gremiva la chiesa mentre Mons. Vescovo dava ordine di leggere la
bolla canonica di erezione della parrocchia”.
L’attività
pastorale di Padre Ugolino procedette con l’entusiasmo tipico del pioniere e
con il sostegno convinto di tanti giovani per i quali volle realizzare
strutture adeguate; non disdegnò il lavoro materiale, tant’è che molti lo
ricordano ancora alle prese con la carriola per sterrare e livellare l’area
destinata alla costruzione del bocciodromo!
P. Ugolino
comprese l’importanza della collaborazione delle associazioni laicali, in linea
con gli orientamenti del Concilio, allora in corso di svolgimento.A lui di deve
la nascita dell’Azione Cattolica parrocchiale e la costituzione del Circolo
Acli che raccolse in poco tempo oltre 150 soci.
L’impegno
generoso del primo Parroco non conobbe soste, fino a quando il suo corpo - ma
non certo il suo spirito - fu aggredito da un male incurabile; nella Cronaca
della Parrocchia, redatta da P. Luigi Capoferri, alla data del 6 agosto 1966
leggiamo:
“Il Parroco ha un tumore maligno. Questa
mattina P. Ugolino è stato operato e, purtroppo, quello che era nelle
previsioni dei medici è risultato vero: tumore maligno al pancreas in stadio
avanzatissimo.
Quello che ha colpito tutti confratelli e
fedeli, è stato il coraggio di voler sapere tutto e la serena accettazione
della volontà di Dio.
Il parroco prega di far sapere a tutti i
suoi parrocchiani che egli offre per il loro bene la sua sofferenza e la sua
vita”.
Il 9 settembre
1966 Padre Ugolino si recò all’incontro con Sorella Morte, ad appena 43 anni di
età.
Tra quanti lo
conobbero, nessuno ha più dimenticato la francescana letizia che irradiava il
suo volto:
“Soffrì non
poche incomprensioni e avversioni, ma niente riuscì a spegnere mai
quell’afflato di cordialità, accoglienza, giovialità, generosità che scuoteva
le coscienze più impenetrabili. Accoglieva tutti, non mancava mai di introdurre
furtivamente il seme della promessa e la luce della speranza. Anche nei più
disperati, sapeva infondere la voglia di ricominciare! E’ stato l’inventore di
un nuovo stile di rapporti fra uomini diversi.
Aggiungo
che ho assistito assiduamente P. Ugolino negli ultimi giorni della sua vita! Da
allora, non smetto di pregare Dio di insegnarmi a morire. Dopo disumane
sofferenze, Dio lo chiamò al suo fianco nella notte del 9 ottobre 1966. Da quel
giorno la nostra parrocchia può contare su un santo protettore di prima
grandezza” (Vito Savini, tra i primi collaboratori del Parroco)
“Ricordo il
suo sorriso, la sua attenzione alle persone a ai loro problemi; soprattutto la
capacità squisita di esprimere gratitudine per ogni piccolo servizio svolto in
chiesa o nella pastorale.
Ero
sacerdote novello e P. Ugolino si trovava in ospedale per vivere il momento
decisivo della sua vita. Era giovane, ben voluto da tutti, ricco di energie e
risorse per fare il parroco. Eppure era velocemente consumato dal tumore.
La cordialità
reciproca si è trasformata in profonda e toccante amicizia. Desiderava che lo
assistetti di notte. E delle notti, vegliate insieme, conservo nel cuore la sua
serenità, il suo desiderio di voler fare solo la volontà del Signore e la sua
sensibilità alla gratitudine. E’ morto, infatti, con il “grazie” sulle labbra.
Grazie al Signore, ai medici, agli infermieri, ai parenti e a tutti quelli che
lo hanno assistito o visitato. Per un giovane, e un giovane sacerdote, la sua
vita e soprattutto la sua morte hanno costituito e costituiscono una delicata
“lezione di vita” (P. Luigi Perugini, già Definitore Generale O.F.M.).
ZIA
ALDA: UNA PRESIDE SULLE ORME DI S. FRANCESCO
La Regola
dell’Ordine Francescano Secolare chiede ad ogni terziario di impegnarsi in
campo lavorativo al fine di contribuire alla crescita della società civile: “Reputino
il lavoro come dono e come partecipazione alla creazione, redenzione e servizio
della comunità umana” (art. 16).
Alda Marasca
(1902 – 1992), per tutti “Zia Alda”, svolse il proprio servizio tra i giovani,
nel mondo della Scuola Superiore, in un periodo – quello del ’68 –
caratterizzato dal vento della contestazione.
Segnata sin
dall’infanzia da un grave handicap motorio, si laureò in Scienze biologiche ed
esercitò la professione di docente presso il “Cuppari” di Jesi per diversi
decenni.
A partire dal
1960 e fino al 1972 ricoprì ininterrottamente, salvo un breve periodo, l’incarico
di Preside “fondatrice” dell’Istituto
Tecnico Femminile di Jesi, divenuto finalmente autonomo dopo un periodo di
annessione alla Scuola Statale di Magistero Professionale di Macerata.
Il ricordo che
lasciò alle sue studentesse è rimasto indelebile nonostante il trascorrere
degli anni. Una sua ex allieva, Gabriella Chiaraluce, così la ricorda: “Di
lei non ti colpiva certo l’aspetto esteriore, ma chiunque vi entrava in
contatto veniva preso dalla sua forza interiore, dalla sua vivacità, dalla sua
fermezza e risolutezza, dalla sua dolcezza! Lei ha voluto fortemente questa
“Scuola” ed ha lavorato perché si affermasse, perché da questa uscissero delle
brave ragazze con un efficiente formazione scolastica e in grado di saper
affrontare a testa alta le difficoltà della vita (…) Ricordo ancora che quando,
con un po’ di riserbo, entravo in presidenza e mi bloccavo sulla porta, lei mi
diceva: “Distendi quelle pieghe sulla fronte, fai un bel sorriso poi dimmi
tutto quello che vuoi”
Zia Alda, per
oltre 25 anni fu Ministra della Fraternità del Terz’Ordine di San Francesco
d’Assisi.
Nello stesso
Ordine rivestì cariche a livello nazionale e regionale, ovunque
distinguendosi per lo spirito di
generosità e di sacrificio, la letizia,
l’intraprendenza e la tenacia .
CHIAMATEMI
PADRE OSCAR
Metà anni
’70, a Jesi, in Piazza della Repubblica.
“Un uomo,
animato da uno di quegli strascichi anticlericali non tanto difficili da
riscontrare nella jesinità, gli si accosta, vedendolo vestito da frate, e gli
dice:
“Io i predi
non li posso proprio véde!”
Dopo aver
osservato meglio il saio del suo interlocutore, l’uomo prosegue:
“Ma lei è
frade e se accetta je offro ‘n caffé”.
Il
religioso accetta di buon grado, entra con lui in un bar e si fa raccontare
cos’è che non gli piace tanto dei preti.
Sul finire
i due si salutano e, nel congedarsi, il gentiluomo…:
“Lei è
proprio diverso – gli dice – ma qua a Jesi io non l’ho mai vista: è nuovo?”
Il frate,
col suo fare pronto e capace di sintetizzare per intero un discorso con una
battuta di spirito, gli dice:
“Eh sì:
sono il nuovo Vescovo!”
In Padre Oscar
Serfilippi, 72^ Vescovo della diocesi di Jesi (dal 1978 al 2006), la
straordinaria affabilità di chiara connotazione francescana, si unì a doti di
governo pastorale improntate ad una saggezza paterna.
Nato a
Mondolfo nel 1929, frate conventuale dal 1950, fu Ministro Provinciale delle
Marche fino alla nomina a Vescovo (1975), inizialmente come Ausiliare
dell’Arcivescovo di Ancona e, dal 1978, come titolare della diocesi di Jesi.
Con un
atteggiamento di vita orientato al dialogo fraterno e alla pace, Padre Oscar
visse totalmente immerso nella comunità affidatagli in cura, promuovendo con
vigorosa determinazione progetti di vasto respiro in campo ecclesiale
(ricordiamo il trentesimo Sinodo, i due Congressi eucaristici, la creazione
delle zone pastorali, l’erezione di nuove parrocchie) sociale (la fondazione
dell’Oikos e del Consultorio familiare, la riorganizzazione della Caritas)
culturale ed artistico (la nascita della Biblioteca Petrucciana, il
potenziamento del Museo diocesano, i
grandiosi lavori di restauro e conservazione del patrimonio).
Tra i tanti
ritratti di Padre Oscar, ci piace ricordare quello disegnato da Mons. Alfredo
Santoni, in occasione dell’insediamento ufficiale nella Cattedra di San
Settimio: “Vostra Eccellenza Reverendissima è stata riempita da Dio di tanti
doni: parola semplice, chiara, che va al cuore, volto sempre sereno, sano
ottimismo, buon senso umano e marchigiano, sa compatire, perdonare, essere
paziente, accogliente, sempre pronto a dare e a darsi”.
Dal testamento
spirituale emerge, con nitidezza, lo stile del Pastore: “La vita, dono del
Signore per sempre, è bellissima. Ringrazio e ringrazierò sempre il Signore, lo
racconterò e lo insegnerò con una gioiosa testimonianza e con l’esortazione
permanente (…)
Saluto,
benedico e ringrazio la Chiesa Jesina tutta: quanto mi ha voluto bene e quanto
le ho voluto bene!”
LA
SPERANZA DEL FUTURO
Sono
trascorsi, dunque, otto secoli dall’approvazione della Prima Regola.
Una storia
lunghissima (e, talvolta, anche tormentata) che – come abbiamo cercato di raccontare
con la massima semplicità – ha segnato in maniera indelebile i lineamenti
religiosi e sociali della nostra regione.
Tra i fratelli
e le sorelle dei tre Ordini, possiamo onorare oltre 40 tra santi e beati di
origine marchigiana; dei nove pontefici piceni , ben 4 sono di estrazione
francescana (nel duecento Nicolò IV, nel cinquecento Sisto V, nel settecento
Clemente XIV e nell’ottocento il terziario Pio IX)
Dopo tanti
anni verrebbe da chiedersi se l’ideale francescano mantenga ancora una sua freschezza,
oppure se sia destinato ad un
progressivo declino.
In realtà,
l’immagine di quel giovane che, in pieno medioevo, decise di spogliarsi in
piazza, conserva perfettamente intatta
l’enorme suggestione di una scommessa di vita giocata sull’Amore. Chiunque,
ancora oggi, si accosti alla figura di
Francesco, può forse esprimere un rifiuto, ma non riuscirà a nutrire
sentimenti di indifferenza.
Lo stesso può
dirsi della grande tradizione della scuola di pensiero di matrice francescana,
sviluppatasi nel corso dei secoli.
Appena qualche
mese fa, il filosofo Dario Antiseri ha pubblicato, un agile volumetto dal
titolo intrigante: “L’attualità del pensiero francescano. Risposte dal
passato a domande del presente”.
Il testo
contiene preziosi spunti di riflessione su alcune tematiche di stretta
attualità, già affrontate, nei secoli passati, da autorevoli esponenti della
scuola francescana con una impostazione di intatto valore: la difesa della
dignità contro la tentazione collettivista (Ockham), la libertà dell’individuo
all’interno dell’orizzonte volontaristico (Scoto) la libertà nelle attività
economiche (Pietro di Giovanni Olivi), il rapporto tra fede e ragione
(Bonaventura da Bagnoregio).
In un altro
testo recente (Bruni e Smerilli ,“Benedetta economia”, 2008),
l’autore della prefazione Stefano Zamagni riconosce ai francescani il merito di
aver gettato, grazie alla elaborazione del concetto di fraternità, le basi
della moderna economia di mercato civile (oggi assurta alla ribalta,
quale possibile soluzione rispetto alla tradizionale economia di mercato
capitalistica, pesantemente messa in discussione dalla crisi globale
in atto).
“Mai si
dirà abbastanza dell’importanza che il pensiero di Francesco ha avuto nella
messa a fuoco del principio di fraternità e, di conseguenza, del principio di
reciprocità che ne costituisce la traduzione sul piano pratico”. Una nuova
economia “non può non mirare a realizzare la società fraterna. Non si
accontenta di assicurare la convivenza civile”.
In occasione
del Capitolo Internazionale delle Stuoie tenutosi ad Assisi ad aprile 2009,
anche il Papa Benedetto XVI, ha voluto rinnovare il mandato ai francescani del
nostro tempo:
Carissimi,
l’ultima parola che voglio lasciarvi è la stessa che Gesù risorto consegnò ai
suoi discepoli: «Andate!». Andate e continuate a « riparare la casa » del Signore
Gesù Cristo, la sua Chiesa. Nei giorni scorsi, il terremoto che ha colpito
l’Abruzzo ha danneggiato gravemente molte chiese, e voi di Assisi sapete bene
che cosa questo significhi. Ma c’è un’altra «rovina» che è ben più grave: quella
delle persone e delle comunità! Come Francesco, cominciate sempre da voi
stessi. Siamo noi per primi la casa che Dio vuole restaurare. Se sarete
sempre capaci di rinnovarvi nello spirito del Vangelo, continuerete ad aiutare
i pastori della Chiesa a rendere sempre più bello il suo volto di sposa di
Cristo. Questo il Papa, oggi come alle origini, si aspetta da voi. Grazie di
essere venuti! Ora andate e portate a tutti la pace e l’amore di Cristo Salvatore.
Maria Immacolata, «Vergine fatta Chiesa », vi accompagni sempre ( 18 aprile
2009).
Anche a Jesi,
pur nelle difficoltà che contrassegnano questo tempo di secolarizzazione, la
presenza francescana rimane alquanto significativa. Nella nostra città trovano
sede la Provincia Picena di San Giacomo della Marca, due conventi del Primo
Ordine (Cappuccini e Minori), una comunità di Clarisse, tre Fraternità
dell’Ordine Francescano Secolare, strutture assistenziali e caritative (l’Opera
della Nonna), iniziative editoriali (“La terra dei fioretti”).
Diversi
jesini, impegnati in realtà locali e internazionali, indossano il saio di
Francesco, perpetuando una tradizione antica: nel 2010 verrà consacrato
sacerdote frate Enrico Maria Mimmotti , mentre è prossima la professione
solenne di frate Michele Massaccio.
Ma non è,
certamente, un calcolo quantitativo che può misurare la forza di un carisma e
la sua incidenza nella realtà quotidiana!
Dopo otto
secoli, per tutti i francescani - di qualunque ordine e latitudine - vale sempre l’esortazione di Francesco, ormai
prossimo all’incontro con Sorella Morte:” "Bisogna cominciare a fare
qualcosa, perché fino ad ora non abbiamo fatto niente"!
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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non potremo più salvare, Jesi, 2009
M. Zenobi, in
Cattolici a Jesi nella seconda metà del secolo XX , di Costantino Urieli, Jesi,
2000
INDICE
INTRODUZIONE : La memoria del
passato
PARTE PRIMA: La Provincia
francescana per eccellenza
PARTE SECONDA: La città di
Federico (ma anche di Francesco)
CONCLUSIONI: La speranza del futuro
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Mauro
Torelli (Jesi, 1963), cultore dilettante di storia locale, a cavallo tra
gli anni ’80 e 90’ ha collaborato con il mensile jesino “El Passì”, scrivendovi alcuni contributi su San Giacomo
della Marca e la setta eretica dei fraticelli .
Negli ultimi
anni si è interessato della storia del Terzo Ordine Francescano realizzando
schede divulgative apparse sul periodico “La Marca francescana”.
Nel 2009 ha pubblicato la prima edizione
dell’opuscolo “800 anni, ma non li dimostra! Storia breve del
francescanesimo jesino da Crescenzio Grizi ad Oscar Serfilippi”
Per eventuali contatti: torellimauro1963@libero.it
Il presente lavoro è stato
realizzato senza finalità di lucro ed è destinato alla libera diffusione.
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