A partire dalla fine di
febbraio, la nostra vita è cadenzata da un flusso monotematico di informazioni
riguardanti l’emergenza epidemiologica da Covid-19. Il numero dei contagi e, soprattutto,
il bollettino quotidiano dei decessi, attirano la preoccupata attenzione di
tutti.
Nei giorni scorsi, il
Rapporto Istat relativo alla mortalità totale della popolazione nel primo
trimestre 2020, ha sintetizzato gli esiti della tragedia nella forma di cifre
inesorabili: nel confronto con la media dei decessi negli anni 2015-2019, la
provincia di Bergamo segna un incremento pari al + 567,6%.
Nelle Marche, la
Provincia di Pesaro registra un + 120%, mentre quella di Ancona raggiunge un +
49,4%.
Secondo i dati del Gores
Marche (Gruppo
Operativo Regionale per le Emergenze Sanitarie), ammontano a 15 gli jesini morti a causa del
coronavirus, a partire da marzo.
Voce della Vallesina, 17 maggio 2020 |
Utilizzando il
cannocchiale della storia, scopriamo che ogni secolo è stato contrassegnato da
eventi pandemici, con conseguenze luttuose anche nella nostra terra.
Nel 1918, la “Spagnola”
contagiò, in tre mesi, 5000 jesini, pari ad un quinto dei residenti dell’epoca.
Ben 164 concittadini persero la vita a causa dell’epidemia.
Andò peggio nel 1855,
quando anche Jesi fu duramente colpita dal Morbo Asiatico “che baldanzoso
percorreva le più belle contrade d’Italia, d’Europa, del Mondo, disertandole
de’ loro abitanti, che a cento, a mille colpiva, uccideva. Cotanto spaventoso
malore non risparmiò punto questa Città, dove, sviluppatosi appena, ingigantì
siffattamente da atterrire anco i più coraggiosi”.
Nell’arco di appena
quattro mesi, morirono ben 652 jesini. I contagiati vennero ricoverati in massa
all’Ospedale di San Giovanni di Dio (con ingresso nell’attuale Corso
Matteotti). La Curia vescovile mise a disposizione la chiesa di San Marco per
incrementare il numero dei posti letto.
Anche in quell’occasione,
il popolo di Jesi invocò la Madonna delle Grazie, rinnovando la richiesta di
protezione che si era ripetuta nel corso delle periodiche pestilenze, a partire
dalla prima, nel 1456.
Ma, oltre alla chiesa
delle Grazie (situata all’interno della cinta muraria), la devozione degli
jesini era rivolta alla Madonna di Campolungo, venerata in una cappella costruita,
nel 1649, dalla nobile famiglia Fiordimonti, in piena campagna “sur un
altipiano poco lungi dal pomerio della Regia Città di Jesi, verso quella parte
che guarda ad ovest, nord-ovest sul fianco sinistro della strada che conduce a’
luoghi di villeggiatura ed a case rurali”.
Si tratta della
descrizione dell’attuale via San Francesco, quando il convento dei Frati Minori
non era ancora presente (verrà realizzato nel 1894, a seguito della
soppressione post unitaria della chiesa di S. Francesco al Monte sostituita dall’odierna
Casa di Riposo Vittorio Emanuele II).
Ebbene la Cappella di
Campolungo conservava un quadro, di autore anonimo del XVII secolo, con
un’immagine della Madonna della Misericordia, ritenuta miracolosa. La Vergine,
seduta sulle nuvole, tiene sulle ginocchia Gesù, il quale si volge verso San
Francesco, genuflesso e con le mani protese per l’abbraccio.
Nei dolorosi frangenti
del 1855, il dipinto venne trasportato all’interno della città (precisamente
nella chiesa di Sant’Agostino) “perché si trovasse in mezzo ai desolati, cui
né potenza di farmachi né copia di cure valevano a scampare da lagrimevole
strage”. Nel contempo si decise che l’immagine della Vergine non sarebbe
stata riportata nella fatiscente cappella di Campolungo, fino a quando non
fosse stato costruito un edificio più degno.
Fu dunque dato incarico
al celebre architetto laziale Angelo Angelucci – già presente a Jesi per i
lavori di restauro della chiesa di San Marco - il quale ideò un tempietto di “metri
quadrati 123.50”, in stile neoclassico, con pronao di accesso e capitelli
in stile ionico e corinzio.
La prima pietra fu posta
il 18 novembre del 1855, al termine del devastante periodo pandemico, con la
benedizione di Mons. Francesco Saverio Martini, Vicario del Cardinale Morichini.
Per carenza di fondi, non fu, tuttavia, possibile rispettare integralmente le
previsioni progettuali di Angelucci, ma il risultato fu ugualmente dignitoso e
apprezzato.
Il tempio, sebbene
attualmente inagibile per le ferite del terremoto, è ancora presente,
incastonato tra la chiesa, il convento e il teatro parrocchiale. Sul frontone
campeggia la scritta latina “Deo et Virgini misericordi”.
La storia plurisecolare della Madonna di Campolungo si collega
idealmente con le vicende dei nostri giorni e con la preghiera accorata di Papa
Francesco: “Madre di Dio e Madre nostra, implora per noi da Dio, Padre di
misericordia, che questa dura prova finisca e che ritorni un orizzonte di
speranza e di pace. Come a Cana, intervieni presso il tuo Figlio Divino,
chiedendogli di confortare le famiglie dei malati e delle vittime e di aprire
il loro cuore alla fiducia”.
Mauro Torelli
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