martedì 23 aprile 2019

Echi dello Stabat Mater di San Marco




 ‘Finis, Deo gratias’.
Queste sono le parole che Pergolesi lasciò scritte nell’ultima pagina della partitura dello Stabat Mater. Una cronaca dell’epoca riferisce i suoi ultimi giorni di vita: «Essendosi portato a visitarlo Francesco di Feo, rinomato maestro di musica che lo amava teneramente, e veduto che egli giacendo a letto si occupava a terminare la composizione dello Stabat Mater, fortemente lo rimproverò, dicendogli che le sue condizioni di salute meritavano ben altri riguardi. Ma il povero giovane rispose che non voleva morire prima di finir I’opera che gli era già stata pagata ducati dieci: – E forse, aggiunse, non varrà dieci baiocchi. Tornò dopo qualche settimana il Feo e lo ritrovò peggiorato a segno che a stento dalle moribonde labbra di lui potrà intendere che lo Stabat era stato terminato e inviato al suo destino. Pochi giorni dopo, nel dì 16 marzo 1736, il Pergolesi rendeva l’ultimo sospiro».

Non sappiamo se le cose andarono effettivamente in questo modo, certamente le pagine finali del manoscritto rivelano una notazione più sbrigativa, più imprecisa, come se l’autore avesse avuto l’intenzione di ultimare quanto prima ciò che stava componendo.
L’Opera era stata commissionata al musicista dall’Arciconfraternita Cavalieri della Vergine de’ dolori della Confraternita di San Luigi al Palazzo, che intendeva in tal modo rinnovare le solennizzazioni della Settimana Santa.

L’istituzione religiosa infatti aveva deciso di sostituire il vecchio Stabat Mater di Alessandro Scarlatti, commissionatogli venti anni prima ed eseguito ininterrottamente nelle precedenti celebrazioni. L’esigenza dell’Arciconfraternita può essere meglio compresa se ricordiamo che la Napoli dell’epoca poteva essere considerata a pieno titolo come la capitale europea della musica sia per la qualità degli spettacoli - profani e sacri - sia per la presenza degli artisti più importanti allora in circolazione.

Il modello dello Stabat di Scarlatti influì indubbiamente nella scelta dell’organico del giovane artista jesino, organico che prevede le sole voci di soprano e contralto e la presenza di archi e basso continuo.

La composizione di Pergolesi introduceva innovazioni armoniche e melodiche significative, ma ciò che ne determinò il grande successo fu l’applicazione della cosiddetta “teoria degli affetti” secondo la quale il significato profondo del testo poteva e doveva essere elevato dalla componente musicale. Secondo alcuni critici però la composizione sarebbe stata “più vicina allo stile dell’opera che a quello della musica chiesastica”.

 Ciononostante lo Stabat Mater, pubblicato a Londra nel 1749, divenne la composizione musicale più stampata del XVIII secolo e fu considerata a lungo un modello stilistico ineguagliabile nella musica sacra. Dalla metà del secolo venne eseguito in tutta Europa, nei paesi di lingua tedesca e più a nord fino in Scandinavia, sia nella versione originale, che trascritto per altre formazioni strumentali. Molti musicisti ammirarono lo Stabat pergolesiano e ne fecero trascrizioni ed adattamenti. Tra essi troviamo J.S. Bach (Tilge, Höchster, meine Sünden, BWV 1083) ma anche Paisiello e Salieri, solo per citarne alcuni.

Non si ha la certezza che lo Stabat sia stato completato effettivamente da Pergolesi in punto di morte, in ogni caso l’artista era gravemente malato nel periodo della sua composizione. Probabilmente la malattia influì anche nel clima generale dell’opera, calata in una dimensione di affettuosa e delicata malinconia. Dal punto di vista musicale si tratta di una partitura tutt’altro che semplice dove ogni linea melodica e contrappuntistica è estremamente trasparente e richiede la massima precisione esecutiva.
In questa occasione l’Orchestra della Scuola Musicale Pergolesi sotto la direzione del maestro Stefano Campolucci eseguirà per la prima volta un’opera integrale del compositore jesino accompagnando il soprano Giorgia Mancini e il mezzosoprano Olga Salati.

Il contesto della chiesa di San Marco sembra quanto mai appropriato per valorizzare l’intimità della partitura che ben si sposa con la stupenda chiesa gotico-romana del XIII secolo, uno scrigno d’arte che non tutti conoscono. Ma l’elemento che più di ogni altro carica il concerto di una particolare suggestione è certamente la presenza della Crocifissione di scuola riminese raffigurata nell’abside. Il soggetto drammatico dell’affresco, risalente al ‘300 ed il soggetto dell’opera del giovane compositore jesino, completato in punto di morte, si saldano in una rappresentazione unitaria che va ad incastonarsi nel periodo che precede la Pasqua.

fonte: Voce della Vallesina, 14 aprile 2019

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