![]() |
Voce della Vallesina , 26 luglio 2020 |
giovedì 31 dicembre 2020
Una caritas di impronta francescana
2020: l'anno dell'olio marchigiano
L'eredità di San Giacomo della Marca
domenica 20 dicembre 2020
Sisto V: "er Papa tosto"
sabato 19 dicembre 2020
Pietro Paolo Agabiti: 550 anni dalla nascita
Accade, molto spesso, che la
fama di un uomo illustre metta in ombra le figure dei suoi contemporanei,
negando agli stessi il meritato ricordo.
Tale situazione si è ripetuta
anche in quest’ anno 2020 dominato, per quanto riguarda l’arte, dalle
celebrazioni dell’astro di Raffaello Sanzio, in occasione del quinto centenario
della morte, avvenuta a Roma nel 1520.
Pietro Bembo scrisse per
l’Urbinate un epitaffio di folgorante efficacia inciso sulla tomba del Pantheon:
“da Raffaello,
quando visse, la natura temette d'essere vinta, ora che egli è morto, teme di
morire” (Ille hic est Raphael timuit quo sospite vinci, rerum magna
parens et moriente mori).
Si direbbe, allora, che, a fronte di tanta gloria, non può
esistere alcuna competizione. Eppure costituisce atto di giustizia fare memoria
di tutti coloro che, sempre nel secolo XVI, hanno contribuito alla storia
dell’arte italiana, ancorché da posizioni defilate rispetto alle corti di Papi
e Sovrani.
E’ il caso di Pietro Paolo Agabiti, poliedrico artista locale,
di cui ricorrono – nel silenzio assoluto - i 550 anni dalla nascita
(Sassoferrato, 1470).
Relegato dai critici nella categoria dei “minori”, sconta la
mancata elaborazione di uno stile originale. Tuttavia il suo ruolo nella realtà
pittorica marchigiana è degno di massimo rispetto.
La sua formazione registra molteplici influenze: spunti della
pittura umbro marchigiana, suggestioni venete (Cima da Conegliano, Palmezzano),
influssi di Crivelli e Vivarini, impronte
arcaicizzanti.
E proprio nella nostra città - nella quale trovò dimora e
prese moglie - si sviluppò la maggior parte della vicenda artistica di Agabiti,
a partire da una serie di affreschi all’interno d el Palazzo della Signoria
(1519-1524), di cui si perse traccia a causa di un’improvvida imbiancatura.
Grazie alla committenza dei Frati Minori Osservanti di San
Francesco al Monte, Agabiti consegnò a Jesi le opere della sua maturità: la Madonna
in trono con Bambino e Santi, San Francesco tra S. Antonio e San
Bernardino, San Girolamo penitente nel deserto (tutte
risalenti al terzo decennio del cinquecento).
In quegli stessi anni, Lorenzo Lotto realizzava la Madonna
delle Rose (1526), destinata ad uno degli altari della chiesa dei Frati. E’
probabile che i due pittori si incontrassero, in un periodo aureo nel quale,
per impulso dell’Ordine francescano e delle Confraternite, Jesi assunse un
ruolo di forte attrazione per tanti artisti.
Se nel linguaggio di Lorenzo Lotto - ricco di allusioni,
simbologie e significati nascosti - si coglie la nascita della psicologia
moderna, Agabiti mantiene costantemente un tratto didascalico e schematico, di
semplice interpretazione per il popolo dei fedeli.
Addirittura nella sacra rappresentazione dei tre Santi
francescani, il pittore utilizza l’espediente del “fumetto” per spiegare il mistero
delle stigmate.
Antonio
mette le dita sulla piaga del costato di Francesco esclamando “QUE SUNT
PLAGE ISTE PATER BEATISSIME IN CORPORE TUO SANCTISSIMO” (“Cosa sono o padre
beatissimo, queste piaghe nel tuo santissimo corpo?”). Francesco risponde
all’interrogativo rivolgendosi a Bernardino: “HIS PLAGIS PLACATUS SUM IN
DOMO DEI MEI” (“Grazie a queste piaghe sono stato riconciliato nella casa
del mio Dio”).
Agabiti fu anche abile plasticatore, come è dimostrato dal celebre
presepe in terracotta policroma
invetriata oggi esposto, come le altre opere citate, nella Pinacoteca civica di
Palazzo Pianetti.
Singolare
il destino di Agabiti e, per certi versi, assimilabile a quello di Lorenzo
Lotto: entrambi conclusero la loro vita all’interno di conventi.
Lotto,
come è noto, morì a Loreto come oblato della Santa Casa; Agabiti si ritirò, per
quasi un decennio, nel convento dei Frati della Romita a Cupramontana per
terminarvi i suoi giorni nel 1540.
Mauro Torelli
In memoria di Padre Mario Silvestrini
giovedì 10 dicembre 2020
In memoria di Padre Fernando Mariani
martedì 8 dicembre 2020
Festeggiamenti di S. Elisabetta in tempi di Covid - anno 2020
domenica 29 novembre 2020
Sebastiano d'Appennino, Architectus sive magister intagliandi lignamina
Sono giunte a termine le celebrazioni di ottobre in occasione del sessantesimo anniversario della fondazione della Parrocchia di San Francesco d’Assisi (1960 - 2020).
Le limitazioni imposte dallo stato di pandemia, non hanno
impedito alla comunità parrocchiale di fare memoria del proprio passato, di
rievocare le guide spirituali che si sono succedute nei sei decenni (“Ricordatevi
dei vostri capi, i quali vi hanno annunziato la parola di Dio”), di
riflettere, secondo l’insegnamento del Concilio, sulle “gioie e le speranze,
le tristezze e le angosce degli uomini d'oggi, dei poveri soprattutto e di
tutti coloro che soffrono”.
Ogni anniversario ha l’effetto di rinverdire le ragioni
fondanti di una realtà comunitaria, valorizzando anche quegli elementi
simbolici attorno ai quali si realizza uno spirito di condivisione e di unità.
E tra i simboli di una comunità parrocchiale, un ruolo
importante è rivestito anche dal suo patrimonio storico-artistico, in grado di
alimentare un senso di appartenenza tra tutti i membri.
La Parrocchia di San Francesco d’Assisi nasce il 4 ottobre
1960, negli spazi del Convento dei Frati Minori di Campolungo.
Secondo lo stile sobrio degli edifici di matrice francescana,
la chiesa parrocchiale si caratterizza per la sua essenzialità: nessun
affresco, nessun elemento decorativo originale, nessuna evidenza di particolare
pregio architettonico.
Eppure, anche in questo caso, la regola è confermata da una
felice eccezione, ovvero quel Crocifisso ligneo che, dalla parete retrostante l’altare,
accoglie fedeli e visitatori.
Non un’opera dozzinale, bensì un esempio eccellente di arte
rinascimentale marchigiana.
Si deve allo storico dell’arte Alessandro del Priori l’attribuzione
del Crocifisso a Sebastiano d’Appennino, tra i massimi scultori del legno, in
attività nei primi trent’anni del Cinquecento (architectus sive
magister intagliandi lignamina).
Alla sua mano sono riconducibili altri importanti crocifissi:
il Cristo della Pinacoteca di Ascoli (1519-20), quelli della sacrestia
della Cattedrale di Matelica (1510), della chiesa di Santa Croce di Macerata
(1529-30), di Croce di Caldarola e, probabilmente, il Crocifisso del convento
delle Clarisse di Santa Chiara a Camerino.
Sebastiano, proveniente dal piccolo borgo del Ducato di
Camerino, fu l’allievo prediletto di Domenico Indivini, a sua volta
riconosciuto come il migliore intagliatore del '400, autore del coro ligneo
della Basilica Superiore di Assisi.
Il Crocifisso di Jesi, dalle forme similari rispetto a quello
di Ascoli, è stato cronologicamente datato tra il 1510 e il 1515.
L’autore ricevette un incarico dai Frati Minori
dell’Osservanza, insediatasi, a partire dal 1486, in quella chiesa di San
Francesco al Monte, destinata ad accogliere capolavori di Lorenzo Lotto (la Madonna
delle Rose) e di Pietro Paolo Agabiti (San Francesco, tra S.
Antonio e S. Bernardino).
Nella chiesa erano annoverati 8 altari, l’ultimo dei quali dedicato al Ss.mo Crocifisso, sotto il giuspatronato della famiglia Colocci (M.C. Zanotti, Chiesa di San Francesco al Monte, 2013). Risulta che nella cappella fosse collocata “l’immagine di Gesù sulla croce rilevato in legno”: la descrizione richiama il Crocifisso di Sebastiano d’Appennino.
Come
è noto, nel 1866 i Frati Minori, a causa del Decreto Valerio, vennero cacciati da San Francesco al Monte: la
chiesa venne demolita e l’annesso convento fu trasformato in Asilo di Mendicità
(l’attuale Casa di Riposo di via
Gramsci).
Le opere d’arte furono requisite, finendo per
costituire il nucleo portante della futura Pinacoteca Civica.
Ma il Crocifisso di Sebastiano fu
provvidenzialmente sottratto all’esproprio e custodito dai frati.
Dopo circa 30 anni di esilio, nel 1894 la
Fraternità dei Minori trovò sistemazione nel nuovo Convento costruito in
contrada Campolungo, accanto al tempio della Madonna della Misericordia.
Finalmente il Crocifisso poté riottenere degna
collocazione, fino ai giorni nostri.
Il filo rosso della storia attraversa molte
generazioni: da oltre 500 anni, il Crocifisso di Sebastiano è oggetto di
devozione da parte di una schiera innumerevole di cristiani.
E anche domani potrà continuare ad essere il
simbolo di una comunità parrocchiale “in pellegrinaggio verso il Regno del
Padre”, sulle orme di San Francesco.
Mauro Torelli
foto: Alessandro Gianfelici
![]() |
Voce della Vallesina, 8 novembre 2020 |
"Voglio morire con il mio abito francescano"
Il 25 ottobre scorso padre Raniero Cantalamessa mentre papa Francesco lo annoverava tra i nuovi 13 cardinali - che saranno creati oggi nel Concistoro che si svolgerà in San Pietro alle 16 con diretta su TV2000 –, era seduto con il suo tradizionale saio marrone di frate cappuccino ed era intento ad ascoltare, come un qualsiasi fedele, la recita dell’Angelus in televisione in un luogo dell’anima a lui molto caro e in cui ha vissuto tutto questo lungo tempo della pandemia: l’eremo dell’Amore Misericordioso di Cittàducale nel Reatino, alle porte di Roma. Una nomina certamente inaspettata e non preventivata per colui che dal 23 giugno 1980, per volere di Giovanni Paolo II, è il predicatore della Casa pontificia. E pur indossando da oggi la porpora ha chiesto e ottenuto dal Papa la dispensa dall’ordinazione episcopale: «: cosa che difficilmente mi avrebbero permesso se fossi stato vescovo».
Noto volto televisivo della Rai - basti pensare alla trasmissione "A Sua Immagine" - e famoso proprio come il suo illustre confratello fra’ Mariano da Torino per salutare e congedarsi da ogni suo interlocutore con la frase, un vero motto e cifra del suo essere francescano: «Pace e bene!». E che rimarrà predicatore della Casa pontificia finché papa Francesco non lo solleverà da questo prestigioso incarico che dal 1743 con il breve Inclytum Fratrum minorum di Benedetto XIV è assegnato a un religioso dell’Ordine dei frati minori cappuccini. «Per me il cardinalato sarà un altro modo di stare vicino al Papa e sostenerlo con la preghiera e la parola – è la prima confidenza del cappuccino oggi 86enne e originario della Marche –. È scontato dire che è stata una sorpresa perché si sa che questo è il modo di papa Francesco di fare i cardinali».
Padre Raniero Cantalamessa fu chiamato a predicare alla Famiglia pontificia
da Giovanni Paolo II nel 1980, poi riconfermato nel 2005 da Benedetto XVI e nel 2013 da Francesco.
«Per me il cardinalato sarà un altro modo di essere vicino a Bergoglio»
Una scelta quella dell’attuale Pontefice di elevare un membro della Famiglia Pontificia che assomiglia per certi versi a quanto fece Paolo VI nel 1977 e Giovanni Paolo II nel 2003 rispettivamente con i teologi domenicani Mario Luigi Ciappi e Georges Martin Marie Cottier…
Considero la mia nomina come un riconoscimento dell’importanza della Parola di Dio, più che della mia persona, dal momento che il mio servizio alla Chiesa è stato - e, per volere espresso di papa Francesco, continuerà ad essere ancora - quasi solo quello di proclamare la Parola, a partire dalla Casa pontificia. Vivo questa designazione a cardinale come un riconoscimento per il mio servizio alla Chiesa che è consistito unicamente nell’annuncio del Vangelo. La mia nomina simboleggia, in un certo senso, un attestato di quanto papa Bergoglio vuol dare dell’importanza di tenere alta la Parola di Dio nella Chiesa.
C’è una figura in particolare che Le è venuta in mente quando ho sentito il suo nome tra i neo-cardinali all’Angelus?
Una figura che per me ha avuto una grande rilevanza nella mia vita è stato quello di padre Pasquale Rywalski che si trovò ad essere ministro generale di noi cappuccini quando il Signore mi chiamò a lasciare l’insegnamento universitario alla Cattolica di Milano per dedicarmi alla predicazione. Devo a lui e al suo discernimento questa scelta che poi via via mi ha portato a essere predicatore della Casa Pontificia e anche a girare per il mondo e fare gli Esercizi spirituali compresi quelli dell’anno scorso ai vescovi degli Stati Uniti (si era nel pieno degli scandali di pedofilia). Era il mio padre spirituale che in quel momento particolare di svolta della mia vita ha giocato un ruolo particolare.
Un’assegnazione della berretta cardinalizia che non cambierà il suo stile "claustrale" di vita e il suo approccio di predicare ai Papi e alla Curia romana…
Appartenendo alla categoria dei cardinali ultraottantenni, non sono previsti incarichi e compiti particolari. Quindi non dovrò cambiare molto il mio stile di vita. Continuerò a vivere nell’eremo dell’Amore Misericordioso di Cittaducale con alcune monache clarisse cappuccine alle quali faccio, in un certo senso, da cappellano. Ricordo il titolo del libro intervista realizzato per il mio 80° compleanno nel 2014: «Il bambino che portava acqua». Io ho continuato per tutta la vita a fare quello che facevo da bambino quando portavo acqua ai mietitori nel campo dei nonni. È cambiata solo l’acqua che porto - la Parola di Dio - e cambiati i mietitori tra i quali, per 40 anni, ci sono stati tre pazientissimi Pontefici: Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e ora Francesco.
Che ricordi in particolare si porta nel cuore di questi tre Vescovi di Roma?
Sono convinto che c’è più merito ad ascoltare la Parola di Dio che a predicarla, tuttavia ringrazio Dio per avermi concesso il singolare privilegio di poter conoscere da vicino uomini così importanti e così umili come san Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e papa Francesco. In realtà sono stati loro a fare la predica a me e a tutta la Chiesa, trovando il tempo per venire ad ascoltare le parole di un semplice frate della Chiesa. Usando una metafora, senza scadere in semplificazioni che rischiano sempre di essere pericolose descriverei così queste tre figure: Giovanni Paolo II - di cui sono stato predicatore per ben 25 anni dei suoi 27 di pontificato - una personalità gigantesca che ha vissuto tutta la vita al cospetto del mondo e di Dio; Benedetto XVI, una mente eccelsa e al contempo profondamente umile, combinazione rarissima almeno nel grado che si è visto in lui; Francesco, un uomo dello Spirito che non fa cose nuove, ma fa nuove le cose. Il cosmopolita, il teologo, il pastore, se si può racchiudere una vita in una parola.
Eminenza domani incomincerà il tempo dell’Avvento. Nelle prediche che sta preparando alla presenza del Papa, dei cardinali e dei vescovi della Curia Romana quali temi affronterà? E ci sarà spazio per parlare di speranza ai tempi del Coronavirus?
Fin dall’inizio della pandemia, risiedo in un eremo alle porte di Roma. È il luogo dove da anni trascorro la mia vita quando non sono in giro per predicazione. Mi sono sentito un privilegiato rispetto a tantissime persone che, in questi mesi, non hanno avuto che le mura di casa dentro cui muoversi. Ho occupato il mio tempo con la preghiera (meno di quanto dovrei!), con la lettura e con qualche breve passeggiata attorno all’eremo. In un certo senso questa emergenza sanitaria ci ha fatto ripiombare nel clima dell’ultima guerra. Nelle mie prossime prediche di Avvento, nel mio piccolo, vorrei cercare anch’io di riflettere sulla pandemia, ma soltanto come pretesto per sottolineare e mettere al centro alcune verità e realtà spesso sottaciute dalla mentalità corrente la morte, la vita eterna, la presenza di Cristo grazie all’Incarnazione, nella barca di questo nostro mondo spesso in tempesta.
Fonte: Avvenire
sabato 31 ottobre 2020
60 anni !!!
Nell’immediato secondo dopoguerra, la volontà di ricostruire il tessuto
sociale ed economico, si unì al desiderio di progettare una nuova espansione
urbanistica della città.
L’area prescelta dalla pianificazione comunale, fu quella di Campolungo: ettari di campagna tra il Viale della Vittoria e la Figuretta di Tabano destinati alla costruzione di un nuovo quartiere con abitazioni, scuole, attività commerciali, strade e servizi.
Alla fine degli anni ’50, il Vescovo Giovanni Battista Pardini intuì l’esigenza di erigere una nuova Parrocchia per una zona chiamata ad accogliere centinaia di giovani famiglie.
Fu, dunque, naturale che, per la sua amministrazione, si rivolgesse ai
Frati Minori, presenti in loco dal 1894, nel convento situato accanto alla
chiesetta dedicata alla Madonna della Misericordia.
C’era bisogno di un Parroco in grado di affrontare la sfida.
La scelta ricadde sul trentasettenne Padre Ugolino Dottori (nato a
Cupramontana nel 1923), ben conosciuto dal Vescovo per aver assolto l’incarico
di suo segretario.
Professore di Teologia Morale e Maestro dei Chierici, incarnazione della mitezza evangelica, Padre Ugolino si dedicò anima e corpo alla costruzione della nuova comunità parrocchiale di San Francesco d’Assisi;
Nel suo lavoro fu affiancato da un gruppo di laici. Venne appositamente costituito un Comitato esecutivo presieduto da Ivanoe Cerioni e coordinato da Vito Savini.
In quella fase costituente, un importante ruolo aggregativo fu assolto
anche da Alda Marasca (per tutti “Zia Alda”) Ministra della Fraternità
locale del Terz’Ordine nonché
autorevole Preside dell’Istituto Tecnico Femminile di Jesi
Le cronache dell’epoca raccontano che Padre Ugolino e il Comitato incontrarono 200 uomini capifamiglia e 220 mamme per esporre le linee programmatiche della nuova realtà parrocchiale.
L’insediamento ufficiale del Parroco avvenne il 4 dicembre del 1960. Il quotidiano cattolico “L’Avvenire d’Italia” così registrò l’avvenimento: “Domenica pomeriggio è stata solennemente inaugurata la trentaseiesima parrocchia della Diocesi, intitolata a San Francesco d’Assisi sorta nella chiesa omonima ufficiata dai Padri Minori francescani di Campolungo. Una folla numerosissima gremiva la chiesa mentre Mons. Vescovo dava ordine di leggere la bolla canonica di erezione della parrocchia”.
L’attività pastorale di Padre Ugolino procedette con l’entusiasmo tipico del pioniere e con il sostegno convinto di tanti giovani per i quali volle realizzare strutture adeguate; non disdegnò il lavoro materiale, tant’è che molti lo ricordano ancora alle prese con la carriola per sterrare e livellare l’area destinata alla costruzione del bocciodromo!
P. Ugolino comprese l’importanza della collaborazione delle associazioni laicali, in linea con gli orientamenti del Concilio, allora in corso di svolgimento. Al Parroco si deve la nascita dell’Azione Cattolica parrocchiale e la costituzione del Circolo Acli che raccolse in poco tempo oltre 150 soci.
L’impegno generoso di Dottori non conobbe soste, fino a quando il suo corpo - ma non certo il suo spirito - fu aggredito da un male incurabile.
Nella Cronaca della Parrocchia, alla data del 6 agosto 1966 leggiamo:
“Il Parroco ha un tumore maligno. Questa mattina P. Ugolino è stato
operato e, purtroppo, quello che era nelle previsioni dei medici è risultato
vero: tumore maligno al pancreas in stadio avanzatissimo.
Quello che ha colpito tutti confratelli e fedeli, è stato il coraggio di
voler sapere tutto e la serena accettazione della volontà di Dio.
Il parroco prega di far sapere a tutti i suoi parrocchiani che egli offre
per il loro bene la sua sofferenza e la sua vita”.
Il 9 settembre 1966 Padre Ugolino si recò all’incontro con Sorella Morte, ad appena 43 anni di età.
Tra quanti lo conobbero, nessuno ha più dimenticato la francescana letizia che irradiava il suo volto:
“Soffrì non poche incomprensioni e avversioni, ma niente riuscì a spegnere mai quell’afflato di cordialità, accoglienza, giovialità, generosità che scuoteva le coscienze più impenetrabili. Accoglieva tutti, non mancava mai di introdurre furtivamente il seme della promessa e la luce della speranza. Anche nei più disperati, sapeva infondere la voglia di ricominciare! E’ stato l’inventore di un nuovo stile di rapporti fra uomini diversi.
Aggiungo che ho assistito assiduamente P. Ugolino negli ultimi giorni della
sua vita! Da allora, non smetto di pregare Dio di insegnarmi a morire. Dopo
disumane sofferenze, Dio lo chiamò al suo fianco nella notte del 9 settembre
1966. Da quel giorno la nostra parrocchia può contare su un santo protettore di
prima grandezza” (Vito Savini)
“Ricordo il suo sorriso, la sua attenzione alle persone a ai loro problemi; soprattutto la capacità squisita di esprimere gratitudine per ogni piccolo servizio svolto in chiesa o nella pastorale.
Ero sacerdote novello e P. Ugolino si trovava in ospedale per vivere il
momento decisivo della sua vita. Era giovane, ben voluto da tutti, ricco di
energie e risorse per fare il parroco. Eppure era velocemente consumato dal
tumore.
La cordialità reciproca si è trasformata in profonda e toccante amicizia.
Desiderava che lo assistetti di notte. E delle notti, vegliate insieme,
conservo nel cuore la sua serenità, il suo desiderio di voler fare solo la
volontà del Signore e la sua sensibilità alla gratitudine. E’ morto, infatti,
con il “grazie” sulle labbra. Grazie al Signore, ai medici, agli infermieri, ai
parenti e a tutti quelli che lo hanno assistito o visitato. Per un giovane, e
un giovane sacerdote, la sua vita e soprattutto la sua morte hanno costituito e
costituiscono una delicata “lezione di vita” (P. Luigi Perugini).
Negli anni ’70 - alla conclusione del processo di urbanizzazione iniziato nel decennio precedente - la Parrocchia di San Francesco d’Assisi raggiungerà il massimo sviluppo demografico con oltre 8000 anime distribuite in 2500 famiglie.
Il periodo è contrassegnato da una forte vivacità associativa. Sono oltre
500 gli iscritti ai vari gruppi ecclesiali (Agesci, Azione Cattolica, Ordine
Francescano Secolare, Polisportiva Audace, Gioventù Francescana, Corsi di
Cristianità, Conferenza San Vincenzo).
A metà degli anni ’80, il vasto territorio della Parrocchia subirà un ridimensionamento geografico determinato dalla nascita della nuova realtà di San Massimiliano Kolbe. La contrazione del numero delle anime, non provocherà impatti negativi sull’assetto associativo. Nuove formazioni (Rinnovamento nello Spirito, Cammino Neocatecumenale, Gruppo Famiglie) si aggiungeranno a quelle storicamente presenti. Muterà, tuttavia, la composizione anagrafica dei nuclei familiari con un effetto di tendenziale incremento dell’età dei parrocchiani.
Prenderanno avvio, in quel contesto, servizi rivolti alle famiglie (una
parte dell’oratorio diventerà sede dell’Asilo Nido Cepi) e alle situazioni di
povertà e disagio della nostra città (l’Armadio della Carità). Sarà, invece, il
Gruppo Missionario ad aprire i confini della Parrocchia verso il Terzo e Quarto
Mondo, attivando interventi di sostegno solidale in ogni latitudine.
Agli inizi degli anni ’90 un evento doloroso sconvolge la comunità parrocchiale: il 2 agosto 1991, durante la fase organizzativa di un campeggio, la giovane capo scout Caterina Benigni perde la vita in un tragico incidente stradale alle porte di Jesi. Il cordoglio dei gruppi ecclesiali e dell’Agesci regionale fu immenso.
In un “terreno” parrocchiale ben coltivato, l’azione dello Spirito ha suscitato molteplici vocazioni al diaconato permanente. Risale al 1996 l’ordinazione di tre padri di famiglia: Alberto Massaccesi, Guido Gianangeli e Giancarlo Sabbatini. Seguirà, in tempi successivi, Antonio Quaranta.
Nello stesso terreno, sono cresciuti laici che, negli anni ’90, hanno svolto servizi direttivi a livello superiore: è il caso di Daniela Storani, Vice Presidente nazionale di Azione Cattolica e Vincenzo Renzi, Ministro regionale dell’Ordine Francescano Secolare.
Un ruolo fondamentale nella vita parrocchiale è da riconoscersi anche alla
Fraternità dei Minori presente in convento.
Restano indimenticabili le figure di molti religiosi che divennero autentici
punti di riferimento per le giovani generazioni. Tra i tanti ricordiamo Padre
Nazareno Falasconi (straordinario “Baloo” del Branco Lupetti di Jesi 2, in
servizio permanente effettivo per tutta la vita), Padre Luigi Capoferri
(bibliotecario, animatore della Filodrammatica e promotore della “buona stampa”,
in sella alla Lambretta o a bordo della Bianchina), Padre Pietro Trillini
(insigne musicista e fondatore della Schola Cantorum), Padre Ivo Sebastianelli
(instancabile tipografo, sempre immerso tra risme di carta, lettere in piombo e
inchiostri).
Ma anche Fra Raffaele (dai ragazzi soprannominato Fra Solchetto
per la sua attività di ortolano) e Fra Renato (addetto al servizio liturgico e,
in caso di necessità, organista supplente).
Non meno rilevante l’attività dei tanti chierici che, proprio nello studentato annesso al convento, iniziarono il loro “tirocinio pastorale”, prima di essere destinati alle diverse comunità religiose della Provincia di San Giacomo della Marca.
Di questi ultimi anni, va sottolineato lo sforzo diretto a rinvigorire lo spirito comunitario della Parrocchia. In questa prospettiva, si assiste ad un forte rilancio del Consiglio Pastorale, inteso non quale organo di mera ratifica di decisioni di vertice, ma come strumento per analizzare i problemi, studiare soluzioni praticabili, promuovere iniziative e condividere obiettivi.
E proprio dal Consiglio prende forma l’ambizioso progetto di ricostruzione dell’oratorio, dopo l’abbattimento forzato del vecchio edificio a causa della presenza di amianto. La necessità di reperire finanziamenti, ha spinto tutte le associazioni a lavorare, fianco a fianco, per organizzare eventi e manifestazioni di grande attrativa.
In questi mesi, la chiesa è stata interessata dai lavori di restauro delle canne d’organo. A ben vedere, l’intervento manutentivo può assumere anche un valore simbolico.
Le canne, infatti, sono gli elementi che producono il suono dell'organo e vengono azionate attraverso i tiranti dei registri. Questi vengono impiegati dall'organista per variare il timbro dello strumento, in base alle indicazioni della partitura e secondo la personale sensibilità di chi è alla tastiera.
Potremmo dire che le canne rappresentano le diverse componenti della comunità parrocchiale (i battezzati, le famiglie, le associazioni) che, per impulso del Parroco (in questo caso, eccellente organista!) devono produrre una consonanza armonica.
In questi 60 anni, nove sacerdoti hanno assunto la guida della Parrocchia, ognuno con proprie peculiarità caratteriali e propri talenti.
Tutti hanno assolto il loro mandato con dedizione e coraggio, dando dimostrazione di quelle doti che si richiedono ad un parroco: essere principio di comunione, profeta di speranza e maestro di preghiera.
Ai nove “organisti” va il ringraziamento della nostra comunità parrocchiale:
P. Ugolino Dottori (1960 – 1966)
P. Giancarlo Mandolini (1966 – 1975)
P. Sanzio Giovannelli (1975 – 1978)
P. Alberto Teloni (1978 – 1980)
P. Libero Cruciani (1980 – 1990)
P. Aldo Marinelli (1990 – 1999)
P. Bruno Fioretti (1999 – 2011)
P. Silvio Capriotti
(2011 – 2017)
P. Pierpaolo Fabbri (dal 26 settembre 2017)
Mauro Torelli
![]() |
Voce della Vallesina, 20 settembre 2020 |
sabato 17 ottobre 2020
mercoledì 2 settembre 2020
Fra Simone Giampieri nuovo Ministro della Provincia di San Giacomo della Marca
domenica 2 agosto 2020
L'olio buono delle nostre colline
“Con grande gioia e sincera gratitudine per l’opportunità che ci è data, annunciamo che il 3 – 4 ottobre prossimi le Marche avranno l’onore di offrire, con un gesto che secondo la tradizione spetta ogni anno ad una regione italiana, l’olio per alimentare la lampada che arde perennemente ad Assisi dinanzi alla tomba del Patrono d’Italia”.
I Vescovi marchigiani scrivono: “L’evento racchiude molteplici significati religiosi, sociali, storici e culturali, tanto da calamitare l’interesse convergente di diversi Enti, quali la Conferenza Episcopale Marchigiana, la Regione Marche e l’ANCI Marche. Le Marche sono particolarmente intrise della vicenda e dello spirito del Santo d’Assisi.
Innumerevoli documenti e fonti storiche attestano il suo passaggio nella “marca di Ancona”, dalla prima presenza intorno al 1208 ai continui viaggi in tutta la regione fino al 1219, anno in cui Francesco, nel pieno della quinta crociata, compì il viaggio in Oriente narrato da tutti i biografi.
Alla sua testimonianza di fede, prorompente e nuova, come a quella dei frati che lo seguirono, si deve la forte crescita della comunità francescana in terra marchigiana, a cui va associato un grande fermento culturale, tradottosi in opere d’arte (affreschi, crocifissi, sculture, chiese) che hanno contribuito nei secoli ad arricchire il patrimonio storico-artistico della nostra regione. Il francescanesimo ha segnato profondamente questa terra ed è proprio in questa terra che, nella prima metà del 1300, furono scritti i Fioretti di san Francesco.
Ma il “poverello” di Assisi non va venerato solo come un’altissima figura del passato, ma come modello di riferimento a cui guardare anche oggi.
I mesi dunque che ci separano da ottobre, possono essere per le Marche e per le Chiese che sono nelle Marche un’opportunità di incontro con il Santo, un’occasione di preghiera, di riflessione e di approfondimento di uno stile di vita autenticamente evangelico.