Le Marche: una Regione al plurale.
L’unica,
in Italia, con un toponimo che indica una sommatoria di zone geografiche
distinte.
A tutti sono note le differenze (di tipo geografico, storico, economico) tra le varie parti del territorio marchigiano.
Sono
innegabili le peculiarità, anche di carattere idiomatico, che da sempre
contraddistinguono pesaresi, anconetani.
maceratesi, fermani e ascolani.
E
molto spesso, le diversità riguardano porzioni all’interno della stessa Provincia.
Non è, dunque, semplice individuare elementi identitari in una Regione che sembra concepita in un laboratorio di ingegneria costituzionale.
Eppure,
a ben riflettere, un simbolo di coesione comunitaria può essere rappresentato
anche dalle tradizioni popolari, spesso di matrice religiosa.
Nel 2005, il Consiglio regionale approvò la Legge n. 26 con la quale venne scelta la data del 10 dicembre per la celebrazione annuale della Giornata delle Marche, “quale solenne ricorrenza per riflettere e sottolineare la storia, la cultura, le tradizioni e le testimonianze della comunità marchigiana e rafforzarne la conoscenza e l'appartenenza”.
Come ben sappiamo, la data del 10 dicembre ricorda la festa liturgica dedicata alla Madonna di Loreto, la cui devozione ha realmente accomunato generazioni di conterranei, a partire dal 1294.
Nella tradizione popolare, il 10 dicembre evoca l’antica Festa della Venuta, caratterizzata dall’accensione notturna dei fuochi (i cosiddetti “focaracci”, “fogarò” “foghère”, “faoni”, a seconda delle zone), per rischiarare il volo della Santa Casa, sostenuta dagli angeli.
La festa nacque attorno al 1617 per impulso di due frati francescani, i cappuccini P. Bonifazio d’Ascoli e Fra Tommaso d’Ancona.
Grazie alla loro predicazione itinerante, le nostre campagne, nella notte tra il 9 e il 10 dicembre,
cominciarono ad illuminarsi nel ricordo della prodigiosa
Traslazione.
La celebrazione venne ufficializzata nel 1624 dal Comune di Recanati, nella cui giurisdizione territoriale si trovava, all’epoca, la contrada di Loreto.
Nell’opera “La Santa Casa di Loreto discussioni istoriche e critiche” (1841), Monaldo Leopardi, padre di Giacomo, ricorda le disposizioni per lo svolgimento della festa: «con lo sparo dei mortari e col suono di tutte le campane, si faranno fuochi sopra la terra del comune e si metteranno i lumi a tutte le finestre della città e si accenderanno fuochi da’ contadini di tutte le campagne».
La diffusione della festa fu rapida e capillare in tutta l’area del maceratese, ma riguardò anche la zona di Jesi, nella quale erano presenti numerosi insediamenti francescani, da sempre promotori della devozione mariana (i Conventuali a San Floriano, i Cappuccini a San Michele presso l’isolato Carducci, gli Zoccolanti a San Francesco al Monte, dove oggi sorge la Casa di Riposo).
Sempre nel XVII secolo, si affermò l’iconografia della Madonna del tettarello (Madonna de li cuppitti, nel maceratese), ovvero l’immagine della Vergine di Loreto con in braccio il Bambino, seduta sopra la casa-chiesa, trasportata dagli angeli.
Una rappresentazione grafica che, per il suo carattere di semplicità ed immediatezza, assurgerà a livelli di riconoscibilità universale, grazie alla frequente riproduzione su opere d’arte, sculture e macchine processionali.
Un breve giro nel centro storico di Jesi, conferma la forza di quell’iconografia.
Sull’altare maggiore della Cattedrale troneggia la pala marmorea
della Traslazione, commissionata nel 1661 dal Cardinale Alderano Cybo.
Alla stessa epoca risale la tela, di autore ignoto (oggi
conservata al Museo diocesano), nella quale un San Francesco, inginocchiato e
attorniato da Santi, contempla la Madonna sorretta da creature angeliche.
In occasione della Festa della Venuta, un modello plastico della
Santa Casa viene esposto nella chiesa di
San Pietro Apostolo.
A quella Parrocchia va il merito - condiviso con i conventi francescani - di aver preservato l’antica tradizione del falò della Venuta: da oltre quattro secoli simbolo unitario delle genti marchigiane.
Mauro
Torelli
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