Sabato 16 ottobre 2013, Cattedrale di San Settimio |
domenica 27 ottobre 2013
E con gli ultimi del mondo sia il tuo passo, lieto nella povertà
sabato 26 ottobre 2013
Tutta l'umanità trepidi !
Fonti Francescane 220 - 221
Lo Sporticello
All’indomani
del Capitolo dell’Acquarella (1529) la diffusione del movimento cappuccino fu
imponente, in particolar modo nel territorio marchigiano.
Nel rispetto
delle Costituzioni i conventi dovevano sorgere fuori dell’abitato in luoghi
solitari, non troppo lontani dalla città perché l’eccessiva distanza avrebbe
reso difficile l’accesso dei fedeli, ma neppure troppo vicini per preservare il
clima di raccoglimento dei frati:
“Che li
luochi tutti siano presi fuori delle città distanti per un miglio, o poco
manco; et che detti luochi che s’hanno a pigliare, et fabbricare, sino sempre
sotto il dominio delli padroni, ovvero delle città, et siano sempre presi con
questa conditione, che ogni volta, che li trovasse impedimento alla vita
nostra, li frati liberamente si possino partire, et quando alli padroni no’
piacesse che frati abitassero in detto luoco, senza alcuna conditione
s’habbiano a partirsi et andare in altro luoco".
Nel 1541 il
Comune di Jesi assegnò all’ultima nata tra le famiglie francescane, un terreno
nei pressi della Selva della Sterpara in località Castellare (l’attuale
Tabano). Ancora oggi, tra i contadini
della zona, è tramandata la memoria di
una via denominata “Cappuccini vecchi”, a ricordo del primo insediamento
inaugurato il 5 ottobre 1544.
Il convento fu
sede del noviziato ed ospitò, nel 1557, Serafino da Montegranaro, destinato a
salire agli onori degli altari nel 1767.
L’eccessiva
distanza dal centro urbano e la scarsità
d’acqua in loco, indusse i Cappuccini, dopo appena 50 anni, a vendere
l’edificio e a costruire, con il ricavato, un nuovo convento in un’area messa a
disposizione dalla Famiglia Nobili nella zona dell’Isolato Carducci, a 46 passi
dalla città.
La nuova
struttura, cui era annessa la Chiesa di San Michele, disponeva di ben 34 celle
e fu inaugurata nel 1592.
La grande
stima acquistata in pochi anni dai Cappuccini, fece sì che il Comune decidesse
di aprire, nel 1605, un varco sulle Mura Occidentali, con lo scopo di agevolare
l’accesso in città dei frati, anche in caso di attacchi al convento da parte di
malfattori: il passaggio, situato in corrispondenza dell’attuale via Pietro
Grizio, prese il nome, ancora oggi in uso, di “sporticello”.
sabato 12 ottobre 2013
La settimana francescana 2013
Solo l'amore crea !
Ottobre 2013: collocazione della statua di San Massimiliano Kolbe nel giardino dell'omonima parrocchia di Jesi |
La passione per il giornalismo e la preghiera, la devozione religiosa
e missioni ovunque. C’è stato molto, anzi moltissimo nella vita di san
Massimiliano Kolbe (1894-1941), di cui oggi ricordiamo la morte.
Francescano conventuale, questo figlio di Polonia non ebbe certo una
vita noiosa: entrò ancora molto giovane, a 13 anni, nell’Ordine dei
Frati Minori Conventuali in Leopoli, nel 1922 curò insieme ad altri la
pubblicazione del Rycerz Niepokalanej (Cavaliere dell’Immacolata), un mensile, e pochi anni dopo, nel 1927, diede vita ad una singolare “città”, che chiamò Niepokalanow (Città
dell’Immacolata) e dove, accanto alla vita religiosa consacrata a
Maria, venivano promosse le più svariate espressioni di apostolato:
dalla stampa alla radio, dal cinema all’aeroplano; inoltre poi viaggiò
molto, dal Giappone all’India. Ci
sarebbe davvero molto da dire, insomma, sull’intensa ed appassionata
esistenza di padre Kolbe. Eppure il culmine del suo viaggio terreno si
verificò indubbiamente là, nel campo di concentramento di Auschwitz
dove, a partire dal maggio del 1941, si trovava dopo essere stato
arrestato per la seconda volta dai nazisti (era stato rimesso in libertà
nel dicembre del ’39, dopo un primo arresto seguito da due mesi di
prigionia). Un luogo infernale dunque, che avrebbe azzerato l’ottimismo
di chiunque ma che, incredibilmente, non spense la speranza del frate il
quale trovò pure, laggiù, la forza di scrivere ricordando alla madre
che «Dio c’è in ogni luogo e con grande amore pensa a tutto e a tutti».
Già questo dovrebbe bastare a comprendere la notevole statura del
francescano. L’apice della sua grandezza, però, doveva ancora emergere.
Ed emerse di lì a poco, precisamente quando, dopo la fuga di un
detenuto, i nazisti presero dieci prigionieri per spedirli nel “bunker
della fame” e padre Kolbe si offrì al posto di uno di loro che,
piangendo, disse di avere una famiglia. Senza acqua né cibo per quindici
giorni, molti morirono ma il frate, coi superstiti, tenne duro cantando
e pregando la Madonna. E quando, increduli, gli uomini delle SS
decisero di eliminarlo iniettandogli acido fenico, costui fissò il
medico nazista e, prima di spirare col nome di Maria sulle labbra, gli
disse: «Lei non ha capito nulla della vita… l’odio non serve a niente. Solo l’Amore crea!».
Aveva ragione: quasi nulla sappiamo dei suoi carnefici, mentre oggi, 73
anni dopo quel 14 agosto 1941, padre Kolbe è santo. L’odio con cui
venne eliminato s’è disperso come cenere nelle periferie della storia,
lui vive. Di più: giganteggia e illumina chiunque venga a conoscenza del
suo sacrificio.
fonte:Tempi
martedì 1 ottobre 2013
San Francesco al Monte
"I proficui
rapporti intercorsi con Giacomo della Marca e Marco da Montegallo, indussero il
Comune a formalizzare un invito ufficiale ai Minori dell’Osservanza, affinché
potesse essere costituito un convento a Jesi
Con una prima
proposta, risalente al 1450, il Comune offriva all’Osservanza la disponibilità
della Chiesa di San Marco. Tale soluzione, tuttavia, si rivelò non percorribile
a causa della ferma opposizione dei Conventuali.
Ulteriori
difficoltà emersero nel 1469 e nel 1471, a fronte di altri inviti.
Finalmente,
nel 1486, gli Osservanti accettarono di realizzare un insediamento a Jesi, ma
solo dopo ulteriori cinque anni di trattative, nel 1491, iniziarono i lavori di
costruzione di un nuovo convento con annessa chiesa intitolata a S. Francesco
al Monte, nella zona nord della città.
L’edificio di
culto - oggi non più esistente per le sciagurate motivazioni che avremo modo di
approfondire in seguito - sarà destinato
ad ospitare opere di straordinario rilievo artistico tra le quali la celebre Madonna
delle Rose (1526-27 c.) di Lorenzo Lotto e diversi capolavori di impronta
francescana opera di Pietro Paolo Agabiti (San Francesco, tra S. Antonio e
S. Bernardino, un Presepe in terracotta policroma invetriata).
Nell’altare
maggiore della chiesa era allocato un altro dipinto di Agabiti (Madonna in
trono con il bambino, San Giovanni Battista e S. Antonio da Padova,
1540 c.) di enorme interesse anche per il fatto di contenere l’illustrazione
del paesaggio jesino dell’epoca: sulla destra sono, infatti, disegnate San
Marco - chiesa madre dei francescani della Vallesina - con a fianco un
campanile (oggi assente) e, probabilmente, la stessa S. Francesco al Monte.
La nobile
famiglia jesina dei Colocci fu particolarmente legata alla chiesa, tanto da
patrocinarvi una Cappella gentilizia dedicata al SS. Crocifisso, nel cui
interno fu eretto un monumento funebre in memoria del consanguineo Giovanni
Benedetto, religioso di straordinaria cultura morto d’asma a Roma nel 1695.
Diversi furono
i membri della casata che vestirono il saio francescano: nel 1830 sarà Annibale
Colocci a rinunciare ai diritti di primogenitura per entrare nel convento
jesino dell’Osservanza con il nome di Padre Giuseppe.
Risale proprio
all’800 un acquerello del Marchese Adriano Colocci raffigurante la Chiesa di S.
Francesco al Monte, rappresentata in una conformazione architettonica non
dissimile rispetto ad un rarissimo reperto fotografico di scarsa nitidezza,
comunque di poco antecedente la
demolizione."
dal libro: "800 anni, ma non li dimostra!" (seconda edizione, 2010)
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